I viaggi in treno sanno essere terribilmente noiosi, soprattutto quando durano tantissimo e una bambina con la sua mamma ha con sé solo un orso di peluche e un album da colorare.
E dal finestrino, di regione in regione, la campagna sembra tutta uguale, al punto che, dopo poco, la noia prende il sopravvento. Dopo la noia arriva la fame molesta, poi il sonno, e non è semplice dormire cercando di trattenere un piccolo asciugamano sotto la testa, per non poggiarsi troppo su un sedile che ne avrebbe molte da raccontare.
Ancora peggio è capire quando il gioco del bastimento da fare con la mamma diventa intollerabile per il signore seduto davanti, stretto nella sua giacca marrone ancora abbottonata e la cravatta. Lo sguardo di disappunto tipico di chi si siede solo dopo aver sollevato i pantaloni, mostrando una caviglia magra e pallida avvolta da un calzino marrone sbrindellato.
Mantenere il silenzio o parlare a voce bassa per non disturbare. Fino a quando, al di là del vetro, appare il mare.
Quell'azzurro che si fonde all'orizzonte fino a mischiarsi con il cielo dissolveva ogni noia e riduceva il viaggio fino all'arrivo di un tempo indefinito. Mare e spiagge deserte. Palme dalle punte arroventate dal sole. Campagna arsa.
Poi, prima di scendere, la stazione. Con agilità, la mamma tirava giù la valigia dal portabagagli, raccoglieva le cose in giro e le rimetteva nella borsa. Poi si sistemava i capelli e i vestiti e, allo specchietto piccolo dello scompartimento, si metteva il rossetto. Poi sistemava la bambina, sciogliendole i capelli e pettinandoglieli nuovamente in lunghe trecce nere. I vestiti, stropicciati dal continuo agitarsi sul sedile, ravviati. E le valigie venivano prese e spostate davanti alla porta del treno. Per almeno cinque minuti la bambina se ne stava a fissare le scritte attorno alla porta e le istruzioni su come sganciare la porta "solo ad arresto completo del treno". Il fischio dei freni. Il rumore dello sblocco delle porte. La mamma apriva e scendeva svelta. Prendeva le valigie e la figlia, e dietro di loro le aspettava un abbraccio di quelli da togliere il fiato.
Il nonno profumava. Profumava di gioia e lacrime trattenute, perché a distanza di un anno quella figlia sembrava sempre la stessa ragazzina, e la nipote cresceva troppo in fretta e quei centimetri in più avevano il sapore di momenti persi per la troppa distanza. Profumava di tabacco e campagna nel suo sorriso largo, e le sue braccia nodose continuavano a stringere quelle sue due creature.
Le valigie le metteva nel cassone del suo motocarro. Lui, nel mezzo, guidava, con le due passeggere strette ai suoi lati. Fuori dai piccoli finestrini, la vegetazione era bruciata dal sole come ogni anno. Le cicale urlavano nella calura. E dopo poche curve, da lontano, si vedeva l'alto dell'ovile dove le bestiole se ne stavano al riparo dei grandi ulivi, in cerca di un po' di frescura.
La nonna aspettava nel viale. I capelli corti appuntati ai lati dai pettinini di tartaruga e il vestito a fiorellini con le tasche. Nel momento in cui Soraya metteva i piedi in terra, le si apriva tutto un mondo.
I chilometri erano sempre quelli, ma ogni anno sembravano essere di più. Il viaggio in macchina era fatto di stop, distanze di sicurezza, distributori di benzina senza GPL, poco da guardare durante la guida. Sua figlia dormicchiava appena, poi passava il tempo a cambiare musica alla radio o leggere per conto suo. Non era di troppa compagnia. Passato il cartello della stazione il paesaggio diventava lo stesso di trent'anni prima. Stessa erba bruciata, stessi alberi riarsi dal sole, stesse cicale urlanti. Al posto del vecchio ovile una casa nuova, ancora da finire, silenzio, solo un cane a far le feste. E la nonna, ormai troppo anziana, seduta sotto la veranda. Un vestito ogni anno più largo. Talmente piccola da aver paura che, stringendola troppo, si sarebbe frantumata. Il sorriso mesto di chi ha troppe cose da dire, ma sceglie di restare in silenzio. La bambina è cresciuta, anche se le sembra di vederla di nuovo nel faccino allegro della pronipote.
«Facciamo una passeggiata, mamma?»
Il giro quasi obbligato prevede la visita alle galline, che ora vivono senza potersene andare a spasso come vogliono, la fontana, che ora è solo un tubo su pavimento cementato, e l'ulivo dell'altalena, che è bruciato per metà e non ha più il ramo forte su cui attaccare la corda.
«E oltre questo cancello cosa c'è, mamma?»
«C'era il posto più bello che conoscevo da bambina. C'era l'orto del mio nonno. Alberi e coltivazioni a perdita d'occhio. La terra era sempre soffice perché, appena lui toglieva una pianta che aveva dato i suoi frutti, lavorava senza far crescere erbacce. E piantava i semi in file precise, così le piante crescevano belle vicine a formare un quadro perfetto. E alla fine dell'orto c'è l'agrumeto. Limoni, arance e mandarini. Alberi pieni di foglie verdissime, e a primavera c'era un profumo immenso. Il nonno curava ogni angolo di questo grande orto. E lì c'era il lungo filare con le fragole che mangiavo solo io»
Ma l'orto è ormai la metà. La terra non coltivata, ancora morbida come a pensare che è rimasta tale per i numerosi colpi di zappa dati fino a vent'anni prima. Ed è comunque piacevole passeggiare, anche se talvolta sembra che salga il magone.
«Mamma, guarda! Abbiamo tutti i piedi pieni di terra!»
Ma è normale.
È solo il tempo che passa.
Ma la terra resta.