Soraya aveva un nome così complicato per quel posto così antico, che ogni anno quando tornava al paese si trovava ad essere chiamata nei modi più assurdi. Lei che aveva la pelle così bianca come i sassi dentro il fiume, ed i capelli chiari come il fieno secco nei campi. E quelle lentiggini che dopo solo un paio di giorni di sole le andavano a colorare il viso e le braccia, come se qualcuno avesse intinto il pennello nella tempera arancione e si fosse divertito a schizzarla a caso. «Sei sempre così pallida!». Lo diceva sempre sua nonna. E cercava di farle mangiare cose strane e piccanti. Metteva ovunque quella rossa sorpresa e il peperoncino le dava per qualche minuto un colorito paonazzo. Ma non somigliava nemmeno un po’ ai suoi cugini. Lei li trovava talmente scuri da sembrare bambini di cioccolato. Eppure anche lei a casa sua giocava al sole. Ma forse non era lo stesso sole di laggiù. Lei era come una bambola di porcellana e tutti la tenevano in disparte, «non fosse mai che si possa rompere... » E gli altri bambini invece erano così pieni di vitalità! Ma anche lei ne aveva. Solo che nessuno se lo immaginava. E sua madre pensava che l'aria della campagna le faceva male, che le mettesse tristezza.
Soraya guardava tutti gli altri bambini capaci di arrampicarsi sugli alberi, correvano veloci da un ramo all'altro, sembravano gatti impazziti. Saltavano di ramo in ramo. E non solo sapevano salire. Loro sapevano anche scendere. Qualche volta un bambino più grande l'aveva aiutata. Solo una volta era riuscita a fissarsi su un ramo seduta in alto, non tanto per guardare il panorama ma per golosità. Era salita su un grande ciliegio. Aveva mangiato fino a scoppiare, sentendosi terribilmente trasgressiva nell'azione di sputare via i noccioli di sotto. Poi però aveva pianto per almeno un'ora perché non riusciva a scendere. Allora era arrivato suo nonno con la scala a pioli e lei era scesa tra le sue lacrime che rigavano la faccia sporca di rosso, i rimbrotti di sua madre e le risate degli altri bambini. Gli alberi li guardava quando era sola. Si metteva sotto il fusto e osservava dal basso il groviglio dei rami e la luce che filtrava tra le foglie. E chiudeva gli occhi assaporando il tepore dei raggi sul viso. Era felice sotto quegli alberi. Con un grande cane bianco al suo fianco che ogni volta che la vedeva diventava il suo angelo custode.
«Posso accarezzarlo nonno?». Lo aveva chiesto che era piccina. Non più di quattro anni. La mamma terrorizzata da una bestia tanto grande non glielo avrebbe mai permesso. Ma suo nonno si. Le prese la mano con la sua. Una grande mano scura e nodosa, con le unghie mangiate. Prese quella piccola mano bianca e la baciò. «Se tu sei gentile con lui, lui diventerà tuo amico». Poi la posò sul collo del cane. Fece affondare le minuscole dita nel pelo candido e soffice e un gridolino di piacere esplose. Aveva gli occhi che le brillavano Soraya. Aveva un nuovo amico. E rimase così per sempre. Perché lei lì era sempre sola. I giochi più audaci e le scorribande non le appartenevano. E le bambine non la volevano a giocare con loro, dicevano che era fanatica, perché parlava l'italiano. Lei ci provava a dire le cose in dialetto, ma uscivano solo ridicoli suoni e allora la canzonavano ancora di più. Quindi c'era Napoleone con lei. Il nonno le diceva di stare tranquilla perché era un cane importante, rispettato e stimato da tutti, per questo si chiamava Napoleone.
Erano antiche pietre quelle case. Quelle vie ribollivano di odori e di suoni. L'erba cresceva indisturbata sui muri. Anche dove la gente viveva ancora. Poco distante dalla sua porta si sentiva il ragliare di un mulo nella stalla, l'odore della bestiola entrava nella sua stanza la mattina appena dopo l'alba. Andava in campagna. Col padrone che gli camminava di fianco, perché sulle pietre del pavimento liscio poteva scivolare con più peso sul dorso. Si avvicinava alla stalla nel pomeriggio e lo guardava dall'anta della porta aperta. Aveva dei grandi e profondi occhi neri. Si osservavano a lungo indisturbati. Poi lei lanciava il solito sorriso che riservava agli animali che incontrava. Avrebbe voluto accarezzargli il muso. Ma non lo fece mai.
Si perdeva. Il paese arroccato sulla montagna era fatto di vicoli senza logica. Saliva e scendeva da strade diverse ogni volta. Cercava di scoprire quegli scorci che le permettevano di vedere la campagna. Saliva sulle scale delle case nella speranza di accarezzare un gatto. Litigava con Napoleone che non smetteva di seguirla e i gatti ovviamente li faceva scappare. Poi c'era uno scoglio. O un masso. Era una grande pietra irregolare a ridosso di una casa. Ci andava spesso. A volte con l'unico dei suoi cugini che passasse del tempo con lei. Si arrampicava sul masso e saltava. Ad ogni salto Napoleone abbaiava fragoroso e lei rideva. A volte si sbucciava le ginocchia. Ma non piangeva mai.
E c'era odore di cucina. Di peperoni arrosto fatti con i carboni sulla strada. Di salsa di pomodoro ad agosto. Con acqua rossa, bucce e semi che rotolavano giù per le stradine. Di vino profumato al tempo della vendemmia. E sempre api e vespe a disturbare il quadro.
Poi c'era il camino. C'era il nonno che riportava ogni sera i frutti raccolti. E profumava di fichi, di ricotta calda e le sue carezze di tabacco di Nazionali senza filtro. La sua barba era ruvida. La sua voce morbidissima. E davanti al fuoco raccontava le storie. Oppure sotto il cielo stellato in piena estate. Un cielo stellato come se ne vedono pochi.
“C'è il castello nel paese. Un grande castello con 365 stanze. Uno per ogni giorno dell'anno. E ogni stanza ha i soffitti affrescati e i pavimenti sono grandi mosaici. Le stanze da letto non si contano. Sono piene di mobili bellissimi e tappeti colorati. E nei saloni scintillavano le candele ad illuminare gli ospiti che arrivavano ogni sera per un grande ballo.
Qui viveva una bellissima principessa. Aveva dei lunghi capelli neri e gli occhi verdi. La pelle ambrata e le sue mani erano delicate e nobili. Si vedeva proprio che era una principessa. Anche se non avesse portato abiti meravigliosi o gioielli preziosi avrebbe mantenuto il suo nobile aspetto. Ogni giorno la principessa organizzava feste da ballo e banchetti lussuosi. Non badava a spese la fanciulla, e i suoi genitori, ormai anziani le permettevano tutto ciò che lei volesse. La principessa era così giunta in età da marito. In tutti i paesi intorno al suo castello si andava dicendo di quanto lei fosse bella e vivesse nel lusso. Così cominciarono ad arrivare a corte frotte di nobiluomini per chiederla in sposa. E le feste si fecero sempre più magnifiche e il castello si riempì di tesori per i doni che i pretendenti portavano alla fanciulla. Ma lei non riusciva a scegliere. Non trovava un uomo degno di sposarla. O forse era lei che era cresciuta viziata e troppo piena di sé. E tutti non le parevano alla sua altezza. I genitori erano preoccupati, perché lei era la loro unica figlia e doveva sposarsi per poter avere un erede. Arrivò il triste giorno in cui il re ormai troppo vecchio morì. E dopo poco tempo lo seguì anche la regina, affranta dalla perdita del suo sposo e dal dolore di una figlia tanto sciagurata. Le feste ripresero ancora più sontuose dopo il periodo di lutto. La principessa tolse il nero di dosso e tornò ad indossare gioielli e abiti vistosi ed eleganti. Ma gli anni passavano. Ed erano sempre meno i pretendenti che andavano a chiederla in sposa. Finché non giunse più nessuno. La principessa era ormai una vecchia zitella. La sue pelle era rugosa e i capelli bianchi. Le sue mani erano ormai artigli deformi. E la servitù la aveva abbandonata in povertà. Restavano le stanze vuote del suo castello. I soffitti affrescati. I saloni con qualche candela consumata appoggiata ai davanzali delle finestre. E così la principessa vanitosa morì sola, ricca solo della sua bellezza svanita.”
E il castello?
Il castello c'è ancora, ma è in rovina. Forse un giorno lo sistemeranno e si potrà visitare.
E il cane? Napoleone?
Lui è morto tanti anni fa. Ora fa l'angelo custode dal cielo.
E quel grande masso?
Eccolo è questo.
Ma è piccolo!
A me sembrava tanto grande da bambina…