Ada e Greta Onnigrafo Magazine

Ada e Greta

Ada e Greta avevano condiviso per almeno due semestri la stessa stanza nel pensionato dell'università. Amiche discrete e piuttosto silenziose, forse erano solo coinquiline. Corsi differenti, amici differenti, gusti differenti, ma una stessa grande passione: scrivere.

I loro bagagli a fine corso erano decisamente diversi, tranne che per la forma e il peso della borsa della macchina da scrivere, entrambe avevano letto cosa scriveva l'altra, e si apprezzavano con sincerità, e con la stessa sincerità si davano consigli e si correggevano a vicenda.

Ada aveva riempito ordinatamente dei cartoni pressoché nuovi e qualche valigia di pelle. I libri in piccole scatole robuste, le stoviglie, anche se poche, incartate nelle pagine dei quotidiani degli ultimi giorni. Persino le valigie erano state preparate con cura, in quella più grande e nera c'erano gli abiti invernali e la sua dozzina di sciarpe pesanti, in quella blu poco più piccola, quelli leggeri e colorati. Una terza piccola borsa conteneva le scarpe, tutte inserite in sacchetti di stoffa ricavati da delle vecchie federe. Un grande beauty case pieno di cosmetici di ogni tipo. Ada se ne stava sul marciapiede in attesa dell'auto che doveva portarla via, insieme a tutte le sue cose, se ne stava avvolta nel cappotto lungo color fumo di Londra, adorava quella definizione, tutto allacciato fin sotto la gola, la sciarpa di cotone dello stesso colore, i capelli lisci raccolti in una coda alta.

Accanto a lei nella stessa identica attesa stava Greta; l'impermeabile color sabbia aperto su una gonna marrone e un dolcevita color senape decorato da una pesante collana colorata. I capelli rossi e ricci le ricadevano sulle spalle e ogni tanto sfilava una ciocca impertinente da sotto la stecca degli occhiali. Gli scatoloni di Greta arrivavano direttamente dalla tabaccheria dietro l'angolo, con le loro scritte a caratteri cubitali sul lato e gli angoli rovinati dai lanci dei fattorini. Restavano aperti con tutto il loro contenuto ben visibile, le mensole della sua stanza erano state svuotate e disposte subito nelle scatole: libri, tazze, quaderni, un profumo, vestiti, un cappello, delle scarpe. Le scatole erano colorate e strane al loro interno, mezze piene e con pochi incastri, dondolava rumorosamente il loro contenuto, con il rischio di togliere qualche coccio al loro arrivo. Le due grandi valigie sembrava volessero esplodere lì nel mezzo della via per come erano gonfie di vestiti. Ma le due borse, una nera e una beige, stavano vicine, in bella mostra e silenziose, probabilmente sarebbero state le prime cose che avrebbero visto la luce all'arrivo a casa.

Le ragazze si abbracciarono, si salutarono, tornarono da dove erano partite.

Dopo anni ognuna di loro aveva finalmente una casa propria, scrivere era rimasta la grande passione che le vedeva vicine, e spesso si ritrovavano proprio per parlare del lavoro che avevano appena iniziato o di quello finito alla ricerca di un editore. Restavano conoscenti, eppure sembravano amiche. Greta, sempre di corsa in preda alle sue manie di voler arrivare a troppe cose, erano ormai due anni che cercava di finire un romanzo a cui perfino lei non sapeva dare una definizione. Ada, pacata e molle, sembrava invece avere la caparbietà di una tartaruga, e ci si poteva chiedere come avesse fatto quella donnetta così anonima e così priva di voglia di vita sociale, ad arrivare invece dove era.

Greta era rimasta frizzante e allegra, viveva in un loft in centro e quando tornava a casa dal negozio di scarpe in cui lavorava, entrava in un caotico e bizzarro insieme di oggetti e colori. Nella totale mancanza di armonicità si poteva cogliere un non so che di logico, in fondo era l'insieme di tutte le cose raccolte durante la sua vita, i suoi viaggi, i libri che aveva letto, pile di tele dipinte e pennelli sparsi nei barattoli ad ogni angolo della casa. Mangiava con attenzione solo cibo biologico, niente conservanti, niente additivi, in orrore tutti i coloranti. Prendeva dal frigo quello che trovava e buttava tutto dentro la centrifuga, e ingurgitava beveroni dai colori e le consistenze discutibili.

Condivideva la sua casa con i suoi tre gatti, che avevano libertà assoluta di movimento. Sui pensili della cucina poteva trovare un gioco abbandonato, nel letto sotto il suo cuscino si nascondeva il più piccolo dei tre, un peloso Main coon schivo e silenzioso. Usciva solo per mangiare, insieme agli altri aspettava che Greta tirasse fuori qualcosa dalla dispensa per avventarsi sulle ciotole. Facevano a gara a chi finiva prima e ripuliva meglio il piatto. Il tempo fisiologico di un giro in bagno mentre i felini mangiavano, e poi Greta si sedeva al suo tavolo. Ingombro di carte, tazze dal fondo ormai asciutto e briciole di biscotti. Al centro stava la sua macchina da scrivere. Dopo appena qualche minuto in cui il rumore dei tasti risuonava nell'aria, insieme al sottofondo di musica jazz che arrivava dal giradischi, attorno alle gambe, morbido e sinuoso si arrotolava un gatto a far le fusa. Un altro saltava sul tavolo e, appoggiata la testa sul rullo della macchina da scrivere, a Greta non restava che fermarsi e coccolare le due bestiole. Fortuna che l'altro era già tornato nel letto, altrimenti il suo lavoro sarebbe andato ancora più a rilento. Procedeva troppo lentamente, tra i gatti, una telefonata ad una amica, lo shopping, i voli pindarici, gli aperitivi in centro. “Di questo passo non finirò mai”.

Ada era andata a vivere nella vecchia casa di campagna dei suoi nonni, fuori città. Lontana dal fumo, dal rumore e dalla fretta. Lavorava come segretaria in un birrificio e quando era a lavoro fino alle quattro del pomeriggio, il suo bambino era a scuola o con i suoi genitori. Tornando a casa passava a prendere suo figlio e andavano insieme a fare la spesa. Era attenta anche lei a quello che mangiava, ma con un bambino in casa non potevano non esserci tutti quei cibi che mettono allegria, e ciccia. Da quando aveva avuto il bambino in effetti era più morbida, e il lavoro da segretaria l'aveva resa anche un po' più seria nel modo di vestirsi, non che avesse mai osato colori troppo vivaci, ma il tailleur marrone le stava proprio male. A casa trovava un cane festoso ad aspettarli, era un bastardino piccolo e peloso, rumoroso come non mai, ma era ubbidiente e affettuoso, soprattutto col suo bambino. Ada rientrava in casa e lanciava immediatamente via le scarpe. Si entrava scalzi per non sporcare i tappeti e i pavimenti. Era una casa calda e accogliente, tanto legno, tanti bei cuscini. I mobili erano ricoperti di oggetti belli e le librerie piene di libri meticolosamente sistemati per genere e per altezza. Era una casa sobria ed elegante, anche i giocattoli sembravano avere un ordine perfetto. Ada si spogliava in fretta mentre suo figlio colorava un album sdraiato su un tappeto, si infilava una morbida tuta e si metteva ai fornelli. Cucinava e intanto cercava di sbrigare qualche altra faccenda. Il bimbo le girava attorno raccontando quello che aveva fatto durante la giornata, e lei le raccontava di quello che era successo a lei. Era serena, si vedeva. Dopo cena metteva a dormire suo figlio e lavava i piatti. Poi se ne andava in camera sua, dove stava la sua preziosa macchina da scrivere. Si portava una tazza di caffè e si sedeva al tavolo con la coperta sulle gambe. Davanti la sua fedele macchina e diversi quaderni sistemati in ordine dietro di essa. Al primo ticchettio della macchina arrivava il cane, festoso e impertinente tirava con la bocca i lembi della coperta. Ada si girava e gli faceva una carezza, poi aggiungeva: “ora a cuccia, ho da fare”. E proseguiva nel suo lavoro, era quasi finito, aveva perfino un contratto editoriale, e ne era felice. Aveva tutto sulle sue spalle, ma aveva anche tutto nelle sue mani, e stava andando bene, molto bene. E il suo sorriso era davvero sereno.

In fondo non aveva un gatto che l'avesse addomesticata lei, lei aveva scelto di addomesticare la sua vita.