Pietre - La serpe Onnigrafo Magazine

Pietre - La serpe

“Eh ma io mica ho la rogna, e nemmeno i capelli rossi.”

Se ne usciva sempre così da ogni discussione, alzandosi da tavola scansando l'ennesimo ceffone. Si prendeva un pezzo di pane secco, un bicchiere per metà acqua e metà vino e si andava a sedere sullo scalino della porta di casa, con i piedi nudi sulla terra battuta del vicolo, gli occhi lucidi e il viso rosso di rabbia. I passanti lo guardavano scuotendo il capo senza nessuna espressione di pietà, forse per le chiacchiere che si sentivano nel paese o forse per l'abitudine di vedere lì quel bambino.

"Capa malata è tuo figlio", diceva il padre a sua moglie, come se non fosse anche figlio suo, mentre quella donna soffocava le lacrime in gola.

"Non è cattivo, è solo un bambino vivace".

Ma vivace non era forse il termine giusto per definirlo. Era un bambino strano, con il maligno piacere di far del male a chi aveva intorno; fosse stata la nidiata di pulcini immersa nell'acqua, pensando potessero nuotare come anatroccoli, fosse stato il cane morto di dissenteria dopo una manciata di peperoncini ficcata in gola per gioco, o per la pecora azzoppata con la fionda e un sasso grosso come un albicocca.

Luchino era troppo vivace in un mondo dove un piatto di terracotta era prezioso, e lui ne aveva rotti già troppi. Nonostante ogni sera ci fosse sul tavolo da mangiare per tutti, Luchino rubava il cibo, quello che la madre stipava nei posti segreti destinato ai giorni di festa. Rompeva le bottiglie e i bicchieri e nascondeva i cocci di vetro per usarli come lame e minacciare gli altri bambini nel viale, strappava lembi di lenzuolo per creare bende per legare stretto chi doveva minacciare, ma poi chiedeva scusa e si giustificava dicendo che era stato picchiato, che lo avevano sfidato, che qualcuno aveva insultato i suoi fratelli o aveva detto cose brutte su sua madre.

A quel punto in casa le grida cambiavano tono e mentre il padre non si faceva più intenerire nemmeno dalla difesa dell'onore e scaricava sberle e calci su quel bambino, la madre se ne prendeva una buona parte per poterlo difendere.

"È solo un bambino" ripeteva piangendo.

"È un demonio!" rispondeva il marito.

Di sette figli Luchino era l'unico a dare problemi e più problemi creava più volte le prendeva, dimostrava di avere rispetto per sua madre e un timore dovuto alle percosse nei confronti di suo padre, ma erano sentimenti apparenti che svanivano in un battito di ciglia non appena Luchino si allontanava dalle mura di casa, o peggio ancora quando erano i genitori a doversi allontanare e lui per cause fortuite doveva restare in casa a badare ai due fratellini più piccoli che gli venivano affidati malauguratamente. I bambini quelle poche volte che restavano con Luchino venivano ritrovati silenziosi e spaventati al punto che, nonostante la madre dovesse andare a fare commissioni importanti, cercava di portarseli dietro o di affidarli a qualche vicina.


Quella sciagurata mattina il gallo aveva cantato prima, e quella povera donna si era svegliata con la sensazione di avere un macigno sul petto. È ancora buio quando sveglia i ragazzi. Luchino era ormai abbastanza grande per seguire i fratelli che portavano le pecore al pascolo. Seduto al tavolo illuminato solo da un lume, il bambino intinge il pane secco nel caffèlatte facendo enormi bocconi e sbrodolandosi la bocca e il maglioncino bucato, la madre premurosa allunga il braccio e con il lembo del suo grembiule lo pulisce, con poca grazia ma con amore.

Luchino non emette verso ma aggrotta le ciglia guardandola dal basso con sguardo torvo. I suoi fratelli più grandi prendono la cesta col pranzo e si trascinano dietro quel bambino come fosse un sacco. La strada è illuminata appena dall'alba e mentre i due ragazzi stanno lenti dietro al gregge, Luchino corte avanti perché senza scarpe non vuole calpestare gli escrementi delle pecore, cammina svelto con quei piedi già sporchi e tenendo un bastone in mano batte tutti i cespugli e i rovi che incontra, e se una pecora gli si accosta troppo, batte anche lei. Luchino non aiutava mai, le pecore pascolavano placide sotto l'occhio vigile dei due ragazzi e del cane mentre lui bighellonava per la campagna alla ricerca di chissà cosa, trovava pere selvatiche, more, cicorie, asparagi e castagne: ogni stagione gli regalava qualcosa, ma se le castagne sarebbero state buone cotte sulla brace la sera a casa, ma necessariamente spartite con la famiglia, preferiva sbucciarle alla meno peggio e farsi venire una colica mangiandole crude. Ogni cosa trovata doveva essere solo sua.

Questo giorno infausto Luchino trova altro, direttamente sulla stessa strada del ritorno, mentre i suoi fratelli stanno al pascolo ignari delle sue ricerche. Vicino a un fossato passava la via che si faceva per tornare a casa, una via di campagna in pieno sole vicino a un corso d'acqua fresca, lì un piccolo cumulo di pietre attira l'attenzione del bambino nonostante nascosto dall'erba, Luchino non era certo scemo e si avvicina con cautela, allunga il bastone tra i sassi e scorge il movimento immediato di chi sta in guardia: un nido di vipera, con le uova schiuse da poco, una vipera che si può arrabbiare molto se infastidita. Luchino la guarda, ci pensa ed elabora.

All'ora di pranzo sotto un grande ulivo i tre fratelli si siedono per mangiare, Luchino prende la sua parte e si allontana sotto un altro albero per restare solo con i suoi pensieri. Passano le ore e arriva il momento di tornare a casa, ma Luchino improvvisamente scoppia a piangere disperato, urla, si dimena, si butta in terra stringendosi con forza forza un piede,

"Una spina, una spina grande, si è infilata qui, mi fa male!"

Il fratello più grande controlla il piede che è talmente sporco che non si riesce a vedere nemmeno se è arrossato, ma Luchino continua a piangere disperato come non l'avevano visto mai, selvatico com'era.

"Non posso camminare! Non posso camminare!"

Il bambino continua a urlare disperato rifiutandosi di mettersi in piedi, rifiutandosi di camminare.

"Mi devi prendere in braccio, io non ci riesco a camminare"

Il ragazzo allora si toglie le scarpe e le mette ai piedi del fratellino mentre l'altro fratello si avvia dietro al gregge che si è già incamminato verso casa.

Luchino, con ai piedi quei grossi scarponi, cammina in modo goffo e lentamente e tra un passo e l'altro si ricorda di doversi lamentare, mentre il fratello che cammina scalzo e non è affatto abituato a sentire i sassi sotto i piedi, probabilmente cammina ancora più lentamente di lui.

Il sole sta calando ormai rapidamente e nell'aria campeggia quella strana luminosità in cui tutto appare più bello e più poetico, la strada stessa sembra essere più lunga non solo per il passo incerto dei ragazzi, ma anche per l'ora diversa in cui la stanno percorrendo.

Arrivati vicino al fossato Luchino mette in scena un altro capriccio, si ficca le mani in tasca e dice di aver perso il suo coltellino.

"L'ho perso qui perché prima c'era una canna e col coltello l'ho tagliata e ora il coltello non c'è più e l'ho tirato fuori proprio qui, vicino a quel cespuglio. "Vai a vedere io non posso camminare di più di quanto sto facendo."

Quasi fa buio e al fratello comincia a sparire la poca pazienza che gli è rimasta nelle ossa.

"Ma che ci dovevi fare con una canna? Fermo te ne devi stare! Con le mani devi stare fermo!"

Ma Luchino insiste imperterrito battendo a terra ripetutamente quei grandi scarponi che chiudono il suo piede falsamente ferito.

"Il coltellino! Il coltellino! Me lo devi trovare! Se non me lo cerchi dico al babbo che lo hai perso tu!" 

Il ragazzo sospira e segue le indicazioni del fratellino per cercare tra l'erba un coltellino sparito.

Ma tra l'erba nel punto giusto in cui indica il bambino il ragazzo trova solo un nido di vipera, e al passo all'indietro che consegue la scoperta è rapido l'intervento di Luchino che con una lunga canna inizia a battere il nido.

Una vipera e dei piedi scalzi, sembra una combinazione perfetta, sembra quasi tutto perfettamente macchinato, se Luchino avesse chiesto alla vipera se fosse contenta di partecipare a questo brillante scherzo probabilmente non si sarebbero potuti organizzare meglio. Il ragazzo grida, un altro balzo all'indietro e si stringe il piede appena morso.

"Esci, esci da qui, vattene Luchino!"

Sciocco fratello buono, si preoccupa che la vipera non faccia altre vittime, e si trascina con i gomiti distante dal cespuglio.

"Non stare lì così, che fai mi guardi? Corri a casa, va a chiamare il babbo, corri che devi fare presto!"

Luchino resta gelido.

"Perchè col veleno del serpente non si muore?"

Il fratello in preda agli spasmi non pensa che sia il momento ideale per dare spiegazioni, adesso Luchino dovrebbe solo correre a casa, dovrebbe solo aiutarlo.

"No, e mica basta un morso, ci vogliono ore, ma tu chiama il babbo che lui sa come fare, non ti preoccupare, mica muoio io."

Ma Luchino non si preoccupa con quella lunga canna in mano; mentre suo fratello si torce dal dolore che sale lungo la gamba, lui resta ancora fermo a guardarlo.

"Muoviti! Ti devi muovere!"

"Non posso correre, mi fa male il piede."

E resta ancora fermo mentre l'altro si lascia scappare qualche bestemmia soffocata tra i denti, lancia terra verso il fratello, si stringe la gamba che inizia a battere come a voler esplodere dal dolore.

E Luchino aspetta, aspetta lo spasmo migliore, e quando il fratello è abbastanza ritorto su sé stesso allunga con forza la canna che stringe in mano e lo colpisce al fianco, spingendolo giù fin dentro al fossato.

Il ragazzo rotola giù per la scarpata e cade rivolto col viso dentro l’acqua: il veleno ci stava mettendo troppo tempo.

Luchino si sputa sulle mani e si sporca la faccia di terra, si strappa un lembo dei calzoni usando un rovo e si scompiglia i capelli più di quello che già non aveva fatto la giornata, si toglie le scarpe e le lancia cercando di farle arrivare vicino al corpo del fratello. Corre a casa più veloce che può, i piedi calpestano con forza tutto ciò che trovano sulla strada ormai buia. Arriva a casa sconvolto, sudato, con i piedi lacerati, gridando a gran voce: "è morto è morto, una vipera, è caduto, è morto!"

Il babbo corre con dietro i figli, la madre si accascia sul pavimento, stringendo il grembiule tra le mani. Luchino corre davanti a tutti ma ormai è buio e il fosso è una grande voragine oscura. All’alba saranno di nuovo tutti lì riuniti a guardare dall’alto il corpo di quel disgraziato che oscilla per la poca acqua che scorre.

Nessuno sa spiegarsi come sia stato possibile, nessuno sa comprendere come abbia fatto un ragazzo così in gamba a finire in questo modo, e come cadendo le sue scarpe si siano sfilate dai piedi. Nessuno sa consolare una madre afflitta, dei fratelli disperati, un padre distrutto. Nessuno si spiega nemmeno come sia possibile che Luchino non smettesse di dar fastidio a tutti quelli che accorrevano lungo il fossato per cercare di tirare su il corpo del fratello.

Ma Luchino era un bambino troppo vivace.