Ravensbrück
Il termine Lager ha in tedesco un significato estremamente vasto: significa giaciglio, accampamento, magazzino. Dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto al di fuori della Germania, il termine ha assunto strettamente il significato di campo di concentramento. Con il nome generico di Lager s’intendono oggi i campi destinati esclusivamente al raccoglimento e allo sterminio d’ebrei e zingari sorti in Polonia che, dopo una prima selezione che mandava alle camere a gas anziani, bambini e tutti quelli inabili al lavoro, procedeva attraverso tecniche particolari, tra cui il lavoro stesso, all’eliminazione di tutti gli arrivati, i campi di rieducazione erano invece dei campi creati dal regime nazista allo scopo di rieducare gli oppositori politici e i criminali. Queste due categorie non vanno comunque considerate con eccessiva rigidezza, molti Lager cambiarono le loro abitudini e modificarono le strutture in base alle necessità della guerra. I Lager più vecchi situati in prossimità delle grandi città erano normalmente destinati alla rieducazione degli avversari politici, ma vi si opera anche una tecnica di sterminio, dapprima solo tramite il lavoro. Ravensbrück era uno di questi.
Ravensbrück è un villaggio prussiano posto in prossimità dell’antico luogo di cura di Fürstenberg, nel Mecklenburgo, a pochi chilometri da Berlino; qui le SS nel Novembre 1938 fecero costruire, in soli tre mesi, impiegando per la costruzione i deportati del KZ di Sachsenhausen, un campo di rieducazione e di detenzione preventiva femminile, politiche, asociali, zingare, ladre, assassine, prostitute, religiose. Successivamente diventa centro di sfruttamento per la produzione bellica e poi, quando le schiave pesano sul sistema economico e non servono più alla produzione, diventa centro di sterminio.
La storia cronologica del campo di Ravensbrück è stata ricostruita dai numerosi documenti copiati e rubati dalle detenute che lavoravano negli uffici centrali del Lager, attraverso le memorie delle sopravvissute che nel lager avevano avuto qualche notizia in più, anche venendo in contatto con le detenute d’altre nazionalità, inoltre su alcuni elementi forniti dal servizio di ricerca scientifica della Repubblica democratica tedesca. Sappiamo con certezza che il campo è stato aperto ufficialmente il 18 maggio 1939 con 867 prigioniere di cui 860 tedesche e sette austriache. Le prime prigioniere che arrivano nel campo sono politiche e testimoni di Geova (Bibelforscherinnen), poi arriva un trasporto di zingare con i loro bambini; le politiche vengono contraddistinte col triangolo rosso e assegnate al blocco 1, le zingare e le asociali, triangolo nero, al blocco 2, le testimoni di Geova, triangolo viola, al blocco3. Nell’aprile del ’40 le detenute sono già 3.114, e ad agosto 4.433, arrivano dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia.
Il 2 agosto entra in campo Margarete Buber Neumann, già prigioniera di Stalin nel Gulag di Karaganda, estradata dalla Russia e consegnata da Stalin alla Gestapo in «segno di graziosa amicizia» insieme con altri antinazisti tedeschi e austriaci che avevano cercato rifugio in Russia dopo l’avvento di Hitler al potere. Margarete Buber Neumann ha una solida cultura e una lunga esperienza di lager, essendo poi di madrelingua tedesca riuscirà a ricoprire incarichi particolari nel campo, che le garantiranno la vita salva. Del suo arrivo al campo, nelle sue memorie, ci dà una descrizione quasi idilliaca:
«Entrando vede il Lagerplatz ornato d’aiuole fiorite, […]dappertutto, a perdita d’occhio, fiori, cascate di fiori. Ma, […] dopo un gran prato verde e semi nascosto da pini argentati, nota l’unica costruzione in muratura del campo: il Bunker, l’inferno del Lager, mimetizzato agli occhi dei visitatori, e oltre questo alto muro di cinta con la corrente ad alta tensione, sufficiente a ricordarle che il luogo non è un luogo di ferie».
Nel campo vige una disciplina di ferro, la vita si basa sull’ordine perfetto all’interno e all’esterno delle baracche; gli sgabelli devono essere perfettamente allineati come soldatini, i pavimenti lavati quasi di continuo, gli asciugamani tutti piegati allo stesso modo e riposti accuratamente, le stoviglie devono essere lucide come specchi, senza alcuna ombra di sporco e neanche d’impronte, i letti devono essere rifatti a cubo, perfetti al millimetro, anche l’abbigliamento deve essere impeccabile, il vestito a righe grigio e blu stirato e pulito, il fazzoletto bianco legato in un certo modo senza far uscire un solo capello, il grembiule anch’esso stirato, l’andatura doveva essere scattante, le braccia tese lungo il corpo durante gli interminabili appelli. Il primo periodo è quello della rieducazione: ordine, lavoro e disciplina sono alla base di un buon processo educativo.
Nel ’41 vengono istallati i primi impianti, di proprietà delle SS, per lo sfruttamento della manodopera del campo, si tratta di uno stabilimento industriale per la confezione delle divise militari destinate all’esercito tedesco. Nell’agosto seguente scoppia un’epidemia di poliomielite e le SS abbandonano il campo lasciando le prigioniere ad auto-amministrarsi. Il campo viene messo in quarantena e per alcune settimane il lavoro si arresta, le detenute godono quasi di una semi-libertà, senza appelli e senza lavoro. A dicembre una commissione di medici esegue la prima selezione d’anziane, malate e invalide che, non potendo essere sfruttate col lavoro, saranno eliminate a Buch e a Bernburg. Nel 1942, a gennaio è immatricolato il numero 9.543; sono numerose durante l’anno le esecuzioni capitali di politiche polacche e di prigioniere dell’armata sovietica, inoltre 1.000 detenute, soprattutto ebree tedesche e zingare, partono per aprire in Lager ad Auschwitz.
Il lavoro di rieducazione dei primi anni di vita del campo diventa lavoro di produzione, le detenute diventano schiave per le SS che ne vendono la forza lavoro alle industrie che ne fanno richiesta. A Ravensbrück l’industria cresce: parecchi capannoni sono costruiti per la Siemens, il Lager stesso viene ingrandito con nuovi blocchi capaci di alloggiare decine di migliaia di detenute. Nell’agosto dello stesso anno 75 studentesse polacche sono sottoposte ad esperimenti chirurgici di vivisezione. Nell’aprile del ’43 viene costruito il forno crematorio a due bocche, ormai indispensabile per lo smaltimento dei numerosi cadaveri del campo.
È nel 1944 che si registra un terribile aumento delle detenute: 19.000 donne ammassate in uno spazio sovraffollato e invivibile perché ormai le strutture, non progettate per un così alto numero di persone, sono collassate, i servizi igienici e i posti letti non sono aumentati con l’entrata di nuove detenute nel campo, unica aggiunta al campo è costituita dalla “tenda” posta su un terreno paludoso, senza servizi, senza letti, solo con un po’ di paglia marcia, tenda sotto la quale sia alternano a partire da settembre migliaia di donne, per morirvi di morte naturale.
Il secondo trimestre del ’44 corrisponde anche all’arrivo di tutti i trasporti italiani. Il primo è formato da quattordici donne proveniente dalle carceri Nuove di Torino.
«Dopo quattro giorni di viaggio in vagone bestiame fino a Berlino, attraversano la città in metropolitana scortate dalle SS, proseguono in treno per Fürstenberg e poi trascinandosi stancamente con valigie e fagotti per alcuni chilometri, all’imbrunire varcano il portone di un luogo sconosciuto. Intravedono di sfuggita file di baracche, migliaia di ombre che corrono e donne in divisa che le inseguono, cani che abbaiano, poi sono rinchiuse in un locale angusto dove scorrono tubi lungo tutte le pareti e dal soffitto pendono bocchettoni di docce. Nella notte altre donne, forse centinaia, ungheresi vengono ammassate nello stesso locale. Il mattino, dopo il rituale ben noto, le quattordici italiane vengono avviate al blocco di quarantena n.24».
Sono quattordici donne fra i sedici e cinquant’anni che appena si conoscono fra loro, perdute in mezzo a 34.000 altre donne ognuna delle quali pensa alla sua sopravvivenza. Al primo trasporto italiano ne fanno seguito altri: il secondo, del 5 agosto, proviene da Verona ed è composto da 50 donne; il terzo, dell’11 ottobre, arriva da Bolzano con 110 donne. Comune lo smarrimento, lo sconforto di sentirsi non solo sottospecie umana, merce di proprietà esclusiva delle SS, rifiutate dalle altre deportate, disperate allo stesso modo, ma non con l’etichetta vergognosa di essere state alleate e quindi complici dei nazisti. Le italiane che arrivarono a Ravensbrück non erano personaggi dell’antifascismo conosciuti a livello internazionale, con un passato di militanza alle spalle e un nome da esibire come biglietto da visita, com’è invece successo a certi deportati in Lager maschili. Le nostre italiane appartenevano agli strati sociali più diversi: c’erano anche antifasciste con anni di militanza clandestina alle spalle, soprattutto in fabbrica, c’erano partigiane arrestate durante i rastrellamenti, c’erano staffette denunciate dalle spie ma c’erano anche molte donne prese in ostaggio al posto dei fratelli, dei mariti, dei figli ricercati per attività clandestina. E ancora ebree di sangue misto, operaie prelevate dalle fabbriche, mondine, qualche insegnante, poche borghesi, molte casalinghe. Per lo più erano ragazze forti e robuste, materiale buono per le fabbriche del campo, ma c’erano anche donne anziane che moriranno durante l’inverno. Queste italiane trovano in ogni caso la forza di reagire, di non lasciarsi andare, di resistere alla disumanizzazione. Imparano subito il numero a memoria, gli ordini in tedesco e in polacco, imparano a muoversi, a difendersi, sviluppano tecniche di sopravvivenza, si passano i consigli e le informazioni necessarie per non cadere nelle trappole delle corvée più pesanti o dei Kommando più faticosi, imparano a sfuggire alle sorveglianti più violente, alle Kapò più furiose, si trasmettono le notizie che riescono a captare, si stringono insieme, sviluppano fra di loro un rapporto di grande solidarietà, tipico delle piccole minoranze e non si lasciano schiacciare dal desiderio, per altro molto forte, di lasciarsi andare, di gettare la spugna. Altri cinque trasporti d’italiane arrivano al campo quando questo è ormai nel caos più totale, fra il novembre del 1944 e il gennaio 1945, in questo periodo inoltre le selezioni si susseguono una dietro l’altra e la camera a gas entra in funzione. Il quarto trasporto arriva da Trieste con 50 deportate; il quinto e il sesto, sempre da Trieste, non si conosce però il numero di matricola, il settimo arriva da Bolzano ed è immatricolato con il n. 97.321, l’ultimo, l’ottavo, proviene ancora da Trieste ma raccoglie deportate di Udine e Gorizia, arriva il 16 gennaio ’45 ed è immatricolato col n. 97.450.
Inizia la terza fase, Ravensbrück diventa campo di sterminio. Viene costruito un secondo forno crematorio e allestita la camera a gas. I crematori sputano fumo ininterrottamente, la dissenteria e il tifo mietono vittime, la camera a gas è entrata in funzione. Il 26 aprile le ultime deportate rimaste in Lager, russe, jugoslave, ungheresi, italiane, polacche, nella notte devono affrontare l’evacuazione camminando per 200 Km in mezzo alla guerra con i russi che avanzavano alle spalle e gli Alleati che avanzavano di fronte. Ravensbrück è liberato il 30 aprile: le SS sono fuggite e il campo “puzza solo di morte”.
Si calcola che circa trecento industrie tra cui la Siemens, la Messerschmitt, la Heinkel, la IG-Farben, la Krupp, cioè industrie meccaniche, aeronautiche, elettriche, chimiche, aderiscano di buon grado all’invito che porge loro il decreto di Pohl. Le donne ritenute idonee al lavoro vengono selezionate dalle SS per andare a lavorare nelle fabbriche che si sono trasferite all’interno del campo o hanno costruito capannoni all’esterno di questo, le SS durante le selezioni per il lavoro dei trasporti italiani si lamentano «perché avevano chiesto all’Italia delle lavoratrici, e invece dall’Italia gli avevano mandato troppe donne con le mani bianche, non callose, non da lavoratrici». Le industrie che si appoggiano al campo di Ravensbrück sono molte, questo perché la manodopera messa a disposizione dalle SS aveva un basso costo, soprattutto se si trattava di donne. Le deportate stesse cercarono di fare il possibile per entrare a far parte dei lavori in fabbrica, si trattava certamente di lavori estenuanti a ritmi assurdi, dodici ore al giorno e anche la notte, ma era pur sempre un lavoro al chiuso, al riparo dal freddo e dalla pioggia e, talvolta un lavoro che poteva essere svolto da sedute.
Dopo l’arrivo al campo le detenute dovevano trascorrere la quarantena assolvendo ai compiti del lager e non partecipavano ancora al lavoro nelle fabbriche. Durante la quarantena le prigioniere sono tenute rigorosamente separate dalla popolazione stabile del campo e non possono far parte di Kolonne fisse di lavoro. Nei primi giorni, quando non vengono portate alle visite mediche, rimangono chiuse nel blocco in attesa delle varie operazioni di immatricolazione e sono impiegate solo nelle corvée di lavoro della vita quotidiana normale: trasporto di bidoni di zuppa dalla cucina al refettorio della baracca, piccoli lavori all’interno, pulizia dei gabinetti. Lidia Beccaria Rolfi restò nei gruppi di quarantena per molto tempo più del dovuto e ha spiegato molto bene cosa volesse significare.
«Quarantena, secondo il significato corrente della parola, vuol dire isolamento preventivo di persone o animali in arrivo da luoghi diversi come misura precauzionale volta a evitare epidemie e contagi a uomini o animali di un determinato luogo. Per la città concentrazionaria, quarantena non ha solo questo significato, anzi vuoi dire soprattutto allenamento alle situazioni impossibili. È impossibile rimanere in piedi tutto il giorno e le deportate rimangono in piedi, una addosso all’altra, per tutto il giorno. È impossibile non dare sfogo ai bisogni fisiologici e le deportate imparano a «tenere» per ore e ore, fino a quando ricevono il permesso di accedere alle latrine. È impossibile bere l’acqua inquinata, mangiare la zuppa infetta, per di più leccandola, rifare i letti secondo i regolamenti del campo, capire gli ordini in polacco e in tedesco, è impossibile soprattutto capire gli ordini e i regolamenti impossibili. Le deportate si adeguano a queste situazioni impossibili. Fin dal primo giorno le deportate si adeguano, non tanto per paura, quanto perché il pianeta su cui sono state catapultate è così lontano e così fuori da ogni abitudine di vita civile e anche da ogni condizione di vita coatta di cui hanno esperienze precedenti che non permette, almeno all'inizio, di riflettere, di pensare, di analizzare lucidamente la situazione. Vivono la prima giornata concentrazionaria in uno stato di ipnosi, svuotate di ogni volontà di reazione, soggiogate dall'atmosfera assurda e grottesca del blocco. La giornata, durante la quarantena, è soggetta agli stessi orari imposti alle deportate che sono già inserite nel mondo del lavoro. Si inizia presto, alle 3 e mezzo circa, con il fischio della sirena. Si inizia con urla e ordini che tutte le prigioniere di tutte le nazionalità imparano fin dal primo giorno: “Schnell... rasch…Ruhe…los…!” “Presto, in fretta, silenzio, via!”. In effetti, bisogna fare in fretta. In mezz’ora bisogna scendere dal letto, infilarsi il vestito, rifare il letto a perfezione secondo il regolamento, andare a lavarsi, fare la coda alla latrina e schierarsi, dieci per dieci, sulla Strasse davanti al blocco. Rifare il letto è un’impresa. Esistono regole ben precise, che vanno rispettate: il pagliericcio deve essere sprimacciato, squadrato e coperto dal lenzuolo a quadretti tirato a filo senza una grinza. A operazione ultimata deve presentarsi come un parallelepipedo regolare, alto almeno quindici centimetri, anche quando il pagliericcio è quasi vuoto e i trucioli sono ridotti a poche manciate di polvere. Per arrivare a tanta perfezione occorrono astuzia e capacità che si acquistano solo con l’esperienza: si svuota tutto l'interno e si raccolgono i trucioli esclusivamente sul bordo. L’operazione diventa ancor più difficile quando il letto si trova all’ultimo piano del castello ed è rivolto verso i corridoi. Bisogna rifarlo rimanendo a gambe divaricate sui due letti sottostanti, in equilibrio precario e costantemente in lotta con le compagne che devono compiere la stessa operazione nel letto di fianco e nei letti sottostanti. Sono momenti in cui si sente urlare in tutte le lingue. Urlano e imprecano le compagne del secondo piano contro quelle del terzo, le compagne del primo contro quelle del secondo, urla la stubowa: “Los... schnell... Ruhe...”, urlano le Zimmerdienst contro le ritardatarie, il caos aumenta, la paura di non finire in tempo impaccia i movimenti, il terrore di cadere a capofitto intralcia il lavoro. Nei primi giorni è impossibile compiere tutte le operazioni; si va all’appello senza lavarsi e si rimanda di lavarsi alla sera, e la sera, se non si trova spazio attorno ai lavabi, si rimanda alla sera dopo, e la sera dopo si rimanda ancora. Rinunciare a lavarsi quotidianamente è il primo scalino della disumanizzazione, ma poche se ne rendono conto. Invece di lavarsi, molte preferiscono arrivare presto all’appello per trovare posto al centro e non rimanere all’esterno delle file dove è facile buscare gli schiaffi della blockowa quando passa in rassegna il suo gregge prima dell’arrivo dell’Aufseherin o attirare l’attenzione dell’Aufseherin, del suo frustino o dei suoi cani.»
Prima di uscire dal campo per raggiungere il posto di lavoro le donne erano sottoposte all’appello, una delle tante torture non torture del campo. Le donne sono costrette a rimanere in piedi a ranghi di dieci per dieci per ore e ore, fino a quando l’Aufseherin non arriva per la conta e il controllo delle effettive del blocco: tante arrivate, tante in Revier, tante morte o partite, tante presenti in campo. La forza presente contata persona per persona deve corrispondere alla forza dichiarata dall’ufficio politico e dai registri dell'anagrafe, ma se per caso non corrisponde - ed è facile per le blockowe sbagliare i conti, dimenticare una morta, non segnare un trasferimento al Revier, e per le deportate restare addormentate all’ultimo piano lontane dalla vista delle compagne più veloci o rimanere svenute in qualche angolo buio - i calcoli saltano e tutta la città concentrazionaria è costretta a rimanere in piedi per ore e ore fino a quando la colpevole, magari una morta, non è scoperta. E così un’operazione normale come l’appello diventa uno strumento di tortura sottile e insopportabile più di ogni punizione corporale.
«L’appello si svolge, per tutta la durata, in posizione di attenti, sotto la pioggia, la neve o il vento. All’appello è proibito muoversi, parlare con le compagne, accoccolarsi quando le gambe non reggono più, battere i piedi per riscaldarsi, appoggiarsi schiena contro schiena per sostenersi, avere il petto coperto con un pezzo di carta rubata per difendersi dal freddo. All’inizio è sopportabile, ma dopo la prima mezz’ora diventa una tortura, distrugge ogni capacità di resistenza, impedisce di pensare. Il cervello si svuota, le gambe gonfiano, i piedi fanno male, dolori atroci corrono per tutta la schiena, per tutti i muscoli. Nella prima mezz’ora si scambia qualche segno, qualche parola con la vicina, quando le sorveglianti sono lontane, poi si tace, si cerca solo di resistere, di non cadere.»
L’appello è un mezzo, fra i tanti, studiato apposta per mettere le prigioniere in condizione di non pensare, per disumanizzarle, per distruggerle. È questo lo scopo vero degli appelli che durano fino all’alba, d’estate come d’inverno. È per questo che l’appello a Ravensbrück, dove si addestra psicologicamente la manodopera destinata a lavorare, produrre e rendere nell’industria tedesca, è molto più lungo e molto più snervante che non l’appello nei sottocampi di lavoro dell’industria stessa. L’industria ha bisogno di schiavi docili, disponibili per qualsiasi tipo di lavoro, ma occorre un certo periodo di addestramento intensivo per distruggere nelle persone ogni volontà di resistenza e di opposizione e per ridurle alla stregua di animali da lavoro: l’appello è uno dei tanti mezzi per raggiungere lo scopo. Talvolta si doveva camminare, sempre per cinque in perfetto allineamento, per tre o quattro chilometri sotto la neve o l’acqua, ma era ben poca cosa se si pensa a quelle donne che svolgevano un turno di lavoro di dodici ore sempre all’aperto. Altre dovevano fare un’ora di battello per raggiungere la fabbrica, perciò alla fatica del lavoro si aggiungeva quella dei trasferimenti. Ma chi restava in campo doveva lavorare per sopperire a tutte le necessità: il lavoro durava lo stesso tempo del turno di fabbrica ma era molto più pesante e inoltre si svolgeva sotto il costante controllo delle SS e del clima terrificante del Lager. Soprattutto nell’ultimo anno, quando il campo esplode per l’affollamento, viene a costituirsi una massa di donne che non lavora, le fabbriche non riescono ad assorbire tanta mano d’opera, e che non può essere lasciata chiusa nei blocchi a non far niente ma va impiegata in qualche lavoro, e, quanto il lavoro sarà più pesante, tanto più facilmente verranno eliminate. Si compiono così lavori di bonifica dei terreni paludosi lungo le rive del lago Schwed, oppure si prepara un riempimento per un nuovo sottocampo che non verrà mai aperto, o si lavora al rifacimento delle fognature che trasportano le ceneri del forno crematorio e le gettano nelle acque del lago; acqua che è utilizzata per la pulizia del campo e per la disinfestazione dei blocchi pieni di pidocchi e cimici. Il lavoro delle nuove internate consisteva per lo più in lavori inutili e faticosi, che servivano a piegare gli animi e a distruggere i fisici.
«Incolonnate fünf zu fünf, cinque per cinque (la conta su base cinque è la più facile), pala in spalla e passo marziale, sono accompagnate all’esterno del campo, su certe dune sabbiose che si trovano ai confini fra il lago e la pineta. Il lavoro consiste nel prendere una palata di sabbia nel mucchietto di sinistra e gettarla in quello di destra dove la compagna di fianco esegue la medesima operazione. La sabbia viaggia in tondo e ritorna al luogo di partenza dopo essere passata sulla pala di tutte le deportate addette al lavoro. Se la compagna di sinistra è più forte, se sa usare la pala, e se non ha ancora capito o non vuole capire il gioco delle aguzzine, il mucchio di sinistra cresce, l’SS se ne accorge, incomincia a urlare: “Schnell!” e spesso picchia con le mani o con il frustino la deportata che non se reggere al ritmo, che non si adegua al tirocinio del lavoro a catena, e la malcapitata deve per forza accelerare i tempi. Il lavoro della sabbia è un lavoro che massacra: avviene per noi sotto il sole di luglio che batte sul capo scoperto, non concede un attimo di sosta, elimina tutti i tempi morti, perché durante quelle ore è proibito bere, fermarsi, accedere alla latrina (che non esiste). S’interrompe a mezzogiorno, giusto il tempo per rientrare a passo di marcia al campo, correre nel blocco, consumare la zuppa velocemente, tornare; poi la danza in tondo della sabbia riprende e dura fino a sera. La giornata non finisce mai, il lavoro spezza le reni, le mani non abituate a tenere la pala gonfiano e si riempiono di vesciche, la testa scoppia per il caldo e la fatica. Alla fatica fisica si aggiunge la rabbia per quel lavoro inutile, assurdo, che non è possibile inquadrare nemmeno nella logica del profitto, perché distrugge la manodopera prima ancora di averla sfruttata nella produzione. È un lavoro che non può nemmeno essere considerato come un apprendistato, un addestramento al lavoro futuro, perché non si diventa operaie, contadine, sarte, saldatrici o collaudatrici spostando in tondo della sabbia. E tuttavia anche questo lavoro senza senso ha uno scopo: a Ravensbrück tutto ha un senso se visto nella logica della città concentrazionaria. La vita inattiva delle deportate nel blocco di quarantena, in attesa di destinazione al lavoro produttivo di una fabbrica, è temuta dalle SS, perché può trasformarsi in un’organizzazione di resistenza alla disumanizzazione e in una scuola di educazione politica.»
La vita che si conduceva lavorando nelle fabbriche adiacenti al campo era tuttavia molto simile a quella delle altre donne che restavano di corvée, le detenute che venivano trasferite direttamente dove erano situate le altre fabbriche per stabilirsi lì definitivamente tuttavia si trovavano in condizioni diverse. A Schoenfeld era situato un piccolo aeroporto e annesso a questo stava un’industria aeronautica, di proprietà della Heinkel, l’edificio che la ospitava era classico edificio lungo come se ne vedono generalmente sui terreni d’aviazione, specializzato per la fabbricazione dei Messerschmitt 109. Nel luglio del ’44 vi lavorano circa 650 donne. L’edificio ospitava tre dormitori e un refettorio che, con l’arrivo delle ultime operaie, delle francesi, viene trasformato in dormitorio, ma senza servizi igienici e acqua corrente. I blocchi venivano chiusi a chiave appena le donne erano coricate e per sopperire alla mancanza di gabinetti, nel quarto dormitorio vengono posti tre secchi: tre secchi per centocinquanta donne il cui cibo consisteva quasi unicamente in minestre liquide. Quando le Aufseherinnen aprivano le porte per farle alzare, naturalmente trovavano un vero disastro, e questa cosa dava loro il diritto di pestare di botte le malcapitate, di punirle con la verga, di farle stare due ore in più all’appello. Unica distrazione che giungesse dal mondo esterno era la campana del treno che portava lì altre lavoranti. Il refettorio della fabbrica era collocato nel sottosuolo, arredato con panche e tavoli, dodici donne per ognuno, strette e scomode, ma pur sempre sedute. I rifugi facevano seguito al refettorio, alcuni avevano uscite di sicurezza, altri non avevano che una sola uscita, erano dei rifugi molto penosi, in cui mancava subito l’aria e si stava schiacciate l’una contro l’altra, non era nemmeno possibile poter dormire ed era vietato usare le latrine. Non si poteva rifiutare di scendere nel rifugio, altrimenti la furia delle SS si scatenava su qualunque donna violasse le regole. Nella fabbrica la disciplina è dura, le Aufseherinnen godono di un rispetto illimitato, al loro passaggio tutte devono uscire dal dormitorio e stare sull’attenti, chi non lo fa, perché dorme o perché non se ne è accorta, riceve violente percosse. Inoltre è un delitto gravissimo anche solo alzare un braccio per proteggersi dalle botte, devono stare ferme restando sull’attenti mentre quelle riempiono di botte chi vogliono. I comandanti, le Aufseherinnen, le Kapò in questa fabbrica sono ricordate dalle sopravvissute come persone assolutamente prive della minima umanità, violente e sadiche fino all’estremo, la cosa che poi lasciava più sconcertate le donne era che, se qualche volta accadeva che qualche superiore avesse un gesto d’umanità, questo veniva da un uomo e non da una donna. Le donne, decisamente più forti nei loro ruoli, in generale non erano affatto più tenere con le compagne di prigionia, né più clementi nelle loro vesti di Kapò o in ruoli minori, né meno crudeli nell’uniforme di ausiliare o altro. E le donne mettevano molta più paura, e per molte testimoni il colpo ricevuto da una donna faceva molto più male di quello dato da un uomo, proprio perché era una donna.
I civili che lavorano in fabbrica si attengono strettamente ai regolamenti, evitano i rapporti con le detenute per paura che le Aufseherin possano denunciarli, fingono di non vedere le loro condizioni e di non sapere quanto avviene in campo, non chiedono mai perché e come una detenuta scompare e un’altra la sostituisce. Eccetto che con i caporeparto, le operaie comuni non hanno contatti con la classe dirigente della fabbrica. I “padroni” non compaiono mai sul posto di lavoro, le deportate non en conoscono nemmeno l’esistenza. I padroni restano lontani e danno ordini ai dipendenti i quali si incaricano dei vari compiti: trattare l’acquisto delle schiave con l’ufficio economico del campo, stabilire il prezzo, stilare i contratti. I capisezione si occupano della selezione attitudinale e della distribuzione del lavoro e i capireparto garantiscono la produzione. La schiava che vive solo a contatto con i capireparto non può odiare i padroni poiché non li vede. Le fabbriche tedesche che si sono servite della manodopera dei Lager sono state negli ultimi due anni della guerra “camere a gas a rallentatore”, la morte attraverso lo sfruttamento del lavoro è più lenta della morte che dà la camera a gas, non si può programmare allo stesso modo, e sebbene molte donne sono morte a causa del duro lavoro aggiunto alle condizioni precarie, nel caos finale qualcuno è riuscito a sopravvivere.
Sul terreno vuoto tra il blocco 24 e il blocco 26 non era mai stato costruito alcun edificio poiché il terreno era più o meno mobile, e non poteva sopportare alcuna costruzione solida. Siccome gli arrivi procedevano a ritmo serrato e non c’era più posto per far sostare le deportate davanti alle docce, si ammucchiavano un po’ in tutti i fabbricati del campo, facendo stare le donne anche diversi giorni senza cibo, ricevendo solo qualche bidone di caffè. Fu a quel punto che si decise di innalzare la tenda su quel terreno ancora libero. La tenda, semplicemente composta da un pavimento di mattoni e un enorme telone sorretto da picchetti, dal momento del suo innalzamento non si svuotò mai. Le prime prigioniere ad occuparla furono le polacche di Varsavia, donne di origini borghesi, elegantissime, erano stupite dal fatto di trovarsi lì, con l’assoluto divieto di uscire dalla tenda. Alle abitanti della tenda, poiché le gamelle per il cibo sono finite, vengono distribuite delle vecchie scatole per la conserva, e siccome non era stata prevista nessuna attrezzatura igienica, posarono, tutt’intorno alla tenda, nella strada, grandi scatole che ne facevano le veci. All’interno della tenda stava anche una numerosa congregazione di religiose, fuori, notte e giorno, stavano di guardia le SS con i loro feroci cani. Quando le prigioniere furono finalmente chiamate a sbrigare la formalità della doccia vennero depredate di tutte le ricchezze che avevano con loro, poi tornarono nuovamente dentro la tenda finché non fosse stato possibile alloggiarle in altri blocchi.
«I giorni passati nella tenda furono giorni di miseria. Era l’inizio di febbraio e il tempo era freddo e duro. La maggior parte di noi aveva la dissenteria; dormire su un pavimento di mattoni umidi non faceva che aggravare il nostro stato. La notte era spaventosa, la nostra situazione era inimmaginabile: una lunga tenda con un a sola piccola entrata in fondo, una tenda che ospitava alcune centinaia di povere donne, la maggior parte delle quali era ammalata di dissenteria, malattia umiliante e snervante; la notte tutte le donne erano costrette ad uscire almeno una volta, senza la minima luce per trovare la strada. Venivo svegliata molte volte da donne che camminavano su di me cercando al porta, e so che facevo la stessa cosa alle altre quando dovevo uscire. Strisciavo sopra ai corpi, tastando con la mano per cercare il posto dove appoggiare il piede, ma spesso non ci riuscivo, perdevo l’equilibrio e cadevo sullo stomaco o sulla faccia di qualcuno. Mi scusavo tra i singhiozzi. Se avevo camminato su qualcuna che mi conosceva o che riconosceva la mia voce, accettava le mie scuse, ma se era una sconosciuta, ricevevo dei calci e dei colpi che mi facevano ricadere su qualcun’altra. Era un incubo. Dominandosi in modo straordinario le donne arrivavano generalmente a raggiungere la porta, prima che fosse troppo tardi, ma, una volta fuori niente contava più. Lo spazio tra i blocchi si trovava ogni mattina in uno stato indescrivibile. Alcune prigioniere venivano scelte per fare pulizia. Durante il giorno, per andare al gabinetto c’erano file così lunghe di donne, che molte non potevano trattenersi fino al loro turno. Allora i tedeschi fecero scavare dei buchi di circa tre piedi di diametro, a intervalli regolari tra i blocchi. Là, senza alcun riparo, si trovavano a volte due donne accovacciate intorno allo stesso buco. Vivendo in condizioni così malsane, senza medicine di alcun genere, il nostro stato peggiorava sempre. Il morale andava sempre più giù. Alcune non tentarono nemmeno più di lasciare la tenda quand’era necessario, e divenne intollerabile dovervi dormire. Altre erano così deboli che non potevano muoversi, ma, dispensate dall’appello, non erano ugualmente ammesse in infermeria. C’erano dei decessi ogni notte e ogni giorno, ma toglievano i cadaveri soltanto parecchie ore dopo. Le vicine li ricoprivano con quel che trovavano. Vedevo tutte le mie amiche indebolirsi sempre più e sentivo che facevo come loro». Da quella tenda escono rumori e grida e molte donne nel campo si avvicinano per vedere cosa accada lì dentro: «La terra nuda è ricoperta di fango… e su quella terra, vinte dalla stanchezza, 2.000 o 2.200 donne coricate, ammucchiate le une sulle altre… un odore spaventoso ci prende il naso, un misto di abiti umidi e di gabinetto. Non c’è da meravigliarsi; gli impianti sono estremamente rudimentali: alcuni secchi posti in fondo alla tenda… Quelle donne sdraiate sono proprio esseri umani?»
Nella seconda metà del 1944 arrivò una circolare in cui si diceva, senza altro commento, che la mortalità era troppo debole. Sempre verso quell’epoca tutte le donne ammalate, vecchie o stanche, furono invitate a prenotarsi per l’invio in un campo di convalescenza chiamato Jugendlager, sorto per la rieducazione di giovani tedesche, a qualche centinaio di metri dal campo principale: il sottocampo di Uckermark. Uckermark, in mezzo al bosco, aria più salubre, più luce, più pace… riposo. Al primo trasporto di circa 150 prigioniere ne seguirono molti altri al ritmo di tre alla settimana, alle prigioniere vengono continuamente promesse migliori condizioni di vita e le prigioniere dal canto loro, rafforzano la facoltà di ignorare l’orrore. Ad Uckermark vi erano cinque baracche una delle quali era l’infermeria, il blocco 6 era la palestra, gli alloggi non era sistemati e all’arrivo le prigioniere che potevano muoversi dovettero trasportare nelle baracche i sacchi di paglia lasciati nella neve dalle SS. L’ottimismo non durò a lungo: le razioni di cibo furono dimezzate, le pause di lavoro e le ore di sonno accorciate, la vita stessa abbreviata. Le prigioniere avrebbero dovuto morire di fame siccome non ricevevano quasi nulla da mangiare, avrebbero dovuto morire di freddo dato il clima rigido e l’obbligo appena entrate al campo di consegnare calze, cappotti e abiti pesanti. Giacevano in due o tre sotto una leggera coperta che poi venne loro tolta. Spesso le malate in infermeria morivano tutte insieme in una sola notte, ad ucciderle erano le infermiere con iniezioni velenose e “polvere bianca”. Molto spesso le prigioniere non ricevevano nulla da mangiare, e quando alla sera arrivava ormai fredda la zuppa avanzata dal campo principale perché andata a male, si accalcavano avidamente al bidone e la ingoiavano con foga, sebbene dopo stavano male, avevano diarrea e vomito. L’infermeria non aveva alcun tipo di medicinale e, anche se ne avesse avuto qualcuno, non era suo compito curare le ammalate, semmai poteva anticipare la loro morte. Le donne qui ricoverate si piegavano dai dolori, stravolte fino ad essere irriconoscibili, debilitate e desolate giacciono in agonia. Verso la metà di febbraio gli appelli, che si era detto alle donne non ci sarebbero stati in questo campo, diventano sempre più massacranti: le donne, stiamo parlando di donne malate e gravemente debilitate, devono restare in piedi nel freddo per molte ore. Anche le condizioni igieniche sono adeguate a tutta la disperazione del posto: per lavarsi c’è solo uno stanzino in tutto il campo ed è aperto solo un’ora al mattino ed alla sera, i gabinetti sono all’aperto.
«Tutto è assolutamente inimmaginabile. Le donne più malate, tubercolotiche, paralizzate, affette da foruncolosi, giacciono incapaci di aiutarsi da sole, sono distese nei propri escrementi e le SS le lasciano putrefare da vive».
Le donne che sono selezionate dai medici quasi ogni giorno, sono raccolte nella palestra, qui gli viene ordinato di spogliarsi e di restare in camicia, alla sera vengono poi caricate sugli autocarri anche con la violenza se qualcuna rifiuta di salirvi, sulla lista del trasporto viene annotato “Sanatorio di Mittwerda”
A Ravensbrück gli omicidi con il gas, a confronto degli altri grandi campi di sterminio, furono abbastanza limitati, circa diecimila vittime in tutto: innanzitutto le donne ritenute “pazze”, che furono liquidate periodicamente dal ’39 al ’45, poi le donne malate, quelle sfinite dal lavoro, le anziane e le ebree. Le “pazze” erano rinchiuse, nude, in una stanzetta del blocco delle tubercolose, con il numero dipinto in viola sulla schiena, si potevano vedere dalle finestre e offrivano uno spettacolo allucinante; qui stavano senza cibo e senz’acqua, sporche di rifiuti di ogni genere, urlando continuamente, una testimone riferisce:
«Nulla di ciò che ci si può immaginare poteva assomigliare allo spettacolo di questa prigione immonda, sporca da cima a fondo: corpi nudi aggrovigliati in pose rese rigide dalla morte ormai vicina, braccia e gambe che si agitano, occhi stralunati che mi trafiggono, lamenti e improvvisi urli provocati dalla mia presenza. Nulla di umano!»
Periodicamente, quando arrivavano ad essere cinquanta o settanta, venivano portate fuori dal campo di notte, probabilmente venivano condotte al castello di Hartheim, vicino Linz, dove era uno stabilimento psichiatrico e qui gassate secondo il provvedimento Aktion T4. Il medico incaricato delle selezioni al campo era il dottor Fritz Mennecke, che dirigeva peraltro l’ospedale psichiatrico per bambini di Eichberg. Le donne destinate alla gassazione erano le minorate mentali, le epilettiche, le invalide, le incurabili, le incontinenti; ma a queste si aggiunsero anche, per raggiungere i numeri voluti dai superiori di eliminazioni, le tubercolotiche, le sifilitiche e numerose ebree. A Praga vive ancora un ex prigioniero del campo maschile di Ravensbrück che lavorò all’installazione della camera a gas provvisoria e che ha visto come le donne asfissiate dovevano essere separate con una zappa, per come si erano irrigidite una sull’altra nella loro lotta con la morte. I cadaveri delle donne asfissiate vengono bruciati insieme con molti altri nel crematorio, l’ultimo anno i forni del crematorio risultavano insufficienti a smaltire tutti i cadaveri del campo e dei sottocampi, per questo furono mandati con maggiore potenza con il risultato che uno di essi scoppiò.
«Ogni giorno vedevamo morire centinaia di persone, ogni giorno il forno crematorio bruciava tanto che non potevamo neanche mangiare all’aperto il pane, perché altrimenti la cenere si posava su di esso. E l’odore, l’odore dei morti bruciati, mamma mia!, era talmente acre che faceva ribrezzo».
I cadaveri durante il giorno venivano ammassati nell’obitorio in attesa d’essere bruciati, questo locale era un rifugio sotto terra, in cemento armato, era un carnaio senza nome, una visione da incubo:
«Corpi nudi, o piuttosto scheletri, vere mummie senza bende, gialle incartapecorite o viola o blu, spesso già macchiate di verde… ventri tumefatti, le ossa del bacino così evidenti da perforare le anche… un braccio tagliato, una gamba sanguinolenta, carne da macello. […] I ghigni spaventosi, i grandi occhi aperti, l’espressione contratta dei volti, i denti scoperti che sembravano mordere la terra poiché i corpi erano gettati alla rinfusa, come capitava. Donne morte durante il parto, con il bambino ancora attaccato al cordone ombelicale, il piccolo cadavere tra le gambe, seduto come una bambola e con gli occhi aperti pure lui. Tutto questo, in alcuni mucchi, piedi dell’una nella bocca dell’altra, mani storte, gambe in aria o accartocciate, tutto questo conservava, nell’ultima difesa, l’espressione di una sofferenza spaventosa, di una disperazione senza nome. I volti, troppo spesso giovanissimi, che avessero almeno una parvenza di serenità erano molto rari; e, su tutti i petti, si scopriva il numero scritto con l’inchiostro, unico nome che rimanesse, lasciando alla povera spoglia questa sembianza di identità. Non eravamo che un pezzo…ein Stück, come dicevano le SS. Quello spettacolo innominabile era veramente una visione d’inferno. Non si poteva nemmeno più, dopo questo, aver paura di qualcosa, ogni sensibilità sembrava annientata […]. Ci sentivamo ben poca cosa, in quel campo maledetto; ma in quell’obitorio, sottoterra, rischiarato da una lampada elettrica che gettava la sua luce così fredda su quegli innumerevoli scheletri, ci sentivamo ancora meno di niente. Quella macabra esposizione richiamava l’idea del nulla assoluto». Spesso capitava che l’obitorio fosse troppo pieno allora i cadaveri venivano lasciati fuori, e capitava di doverli staccare con qualche mezzo di fortuna perché nella notte, con la neve, i corpi si ghiacciavano e si attaccavano saldamente fra di loro: «Il triste scricchiolio prodotto dallo strappamento del cadavere era una cosa molto dolorosa».
Quando le agonizzanti non morivano abbastanza in fretta al Revier, non sempre aspettavano che esalassero l’ultimo respiro e, spesso purtroppo, alcune terminavano la loro agonia nel gruppo di cadaveri ammucchiati. Le tedesche svolgevano inoltre un orribile lavoro; quando i carri depositavano i cadaveri, subito i becchini si precipitavano, spalancavano loro la bocca, con una rozzezza e una brutalità inconcepibili, e strappavano i denti d’oro, poi «terminato il loro sporco lavoro, sferravano una pedata nel ventre della loro vittima e passavano alla seguente vomitando rabbiosamente parole del genere: ” Porcheria, Schweinerei…”, orazione funebre tanto inattesa quanto lugubremente fuori posto».
Il camino del forno crematorio era visibile da ogni punto del campo. A partire dall’estate del ’44 fuma notte e giorno, «al buio è ancora più sinistro: sulla cima brilla una fiamma verdastra e il vento, quando spira da Nord, porta fino in campo l’odore della carne bruciata e scorie e cenere che cadono addosso, imbrattano i visi e le mani, impregnano gli abiti». Sono i triangoli viola, le testimoni di Geova, le addette allo smaltimento della cenere dei forni; questa viene trasportata con delle carriole al lago, e qui gettata nell’acqua. Durante i mesi estivi le mogli e i bambini degli ufficiali SS, che abitano nella zona residenziale appena fuori del campo, vanno a fare il bagno al lago e si divertono a sguazzare nell’acqua, le donne spesso, al passaggio delle file di deportate sputano con supremo disgusto e insultano. E fanno il bagno nelle ceneri dei morti. Altre volte le deportate di corvée al campo vengono scelte per compiere uno dei lavori più umilianti e degradanti del Lager: quello della Scheisskolonne (colonna della merda), le deportate devono pestare gli escrementi con i piedi, assolutamente nudi, e poi impastare gli stessi con la cenere del crematorio per ricavarne un ottimo fertilizzante.
Orrori, che sembrano usciti dalla mente contorta di un regista di film discutibili. E invece sono stralci di orribili realtà quotidiane che è bene conoscere per provare quel giusto senso di orrore che permette di non dimenticare. Perché non si deve dimenticare.