Il faro Onnigrafo Magazine

Il faro

Illustrazione di Alfonso Amarante

Era un paese intorno ad un buco, stretto e lungo tutto intorno ad una laguna trasformata in porticciolo. Tra fiume e mare, dove prima era padrona solo la palude. Nel tempo più antico le case erano piccole capanne di canne, squallide e umide, fino a quando i mattoni di fango e sabbia iniziarono a dargli un aspetto migliore, e allora diventarono lunghe file di case basse e tortuose, come bisce nella melma. Ma l’acqua continuava a incombere sulle teste degli uomini e sulle loro caviglie, una continua lotta contro le piene che arrivavano violente e prepotenti e distruggevano tutto quello che incontravano davanti al loro cammino: il fiume scorreva impavido come nel voler esprimere la sua ultima forza e la sua rabbia per un viaggio concluso, il mare si spingeva sempre più dentro a reclamare come se tutto gli appartenesse; le case si costruivano e l’acqua se le mangiava, il paese cercava di crescere e veniva ancora una volta allagato, ma l’uomo era ostinato, e alla fine vinse lui assieme ai suoi argini e ai suoi canali sempre più robusti.

Nel paese, che avevano iniziato a chiamare Goro, il pesce era l’abbondanza, dominata la costa si iniziò a sfruttare anche il mare e si cominciava già a vedere gente ben vestita che guadagnava tanto grazie ai mitili, ma erano ancora una minoranza e il mare aveva bisogno di braccia per tirare su il pesce e ancora troppa gente pativa la fame e spesso moriva. La vecchia lanterna che illuminava la strada ai marinai finì un bel giorno per spegnersi: col tempo il fiume aveva portato sabbia verso la sua foce e il faro antico si era allontanato sempre di più dal mare, così fu necessario costruirne un altro, su un isolotto dal nome romantico, da cui avrebbe potuto illuminare fino a dieci miglia davanti a sé.

Era un paese intorno a un buco con una modesta chiesa sempre mezzo vuota, con una grande casa del Popolo, con un mercato del pesce dove per comprare dovevi saper gridare forte. Un luogo dove la vita scorreva lenta e sempre uguale, noiose feste di paese, ritenute antiche anche senza nessuna vera tradizione; sagre di pesce e vongole, tanto per mangiare un giorno in più quello che si mangiava sempre, nomi strani e rapporti a volte frettolosi e finti. Era come se l’acqua lavasse via ogni cosa: buoni propositi, pensieri moderni, legami.

Si arrivava per la stagione della pesca e vi si restava per allevare vongole. Si lasciava quel pezzetto di terra in campagna per poter avere un pezzetto di mare, là si zappava e si seminava, qui si tenevano mani e piedi a mollo, alla ricerca di guadagno. Le donne rimanevano chiuse nelle case umide, annerite dal fumo delle stufe, a fare i mestieri e a crescere i bambini. Lento e uguale, tutto sempre troppo lento e uguale.

I pescatori tornavano dal mare e nel porticciolo si scambiavano due chiacchiere mentre si riannodavano con cura le nasse restando a volte anche fino al tramonto, continuavano a sciacquarsi le mani nell’acqua di mare nella speranza di mandar via quell’olezzo di pesce, e prima di tornare a casa a sentire le lamentele delle mogli, spesso passavano all’osteria a stemperare la giornata con qualche bicchiere di vino, una partita a briscola, qualche bestemmia o una puttana.

Le puttane del paese stavano a quasi tutti gli angoli delle strade, alcune avevano una piccola casa dove una donna più anziana gestiva le ragazze che arrivavano da fuori, spesso erano mondine che avevano perso la virtù stando settimane con i piedi a bagno mostrando le gambe e credendo che le molestie che alla fine avevano accettato potessero trasformarsi in vero amore, temevano di non poter più trovare marito, ormai disonorate, e allora non tornavano a casa. Era in assoluto la regione con più bordelli quella, dalla città grande di Ferrara si erano sparsi anche per i paesi e proliferavano come non mai. I protettori guadagnavano bene, le donne erano anche abbastanza curate, non era come in città, dove le caserme riempivano i bordelli e una donna poteva arrivare anche a quaranta prestazioni al giorno distruggendosi da ogni punto di vista; in paese si guadagnava meno, ma si campava molto meglio, anche se la regola era sempre la stessa, non ci si poteva rifiutare, anche se il cliente di turno puzzava di pesce da morire, ma chi gestiva in quel caso poteva chiedere di più, anche nel vago rispetto di quelle ragazze a cui avrebbe mandato il lercio di turno. Ecco perché nelle case dei vicoli stretti a ridosso del porticciolo si erano ritrovate le donne più grandi, quelle con meno vezzi e meno pretese, e per questo più a buon mercato.

A volte capita però che anche una puttana esca fuori dal suo solito lavoro e perda la ragione e il senso della realtà per quello che le accade. Viveva a Goro un pescatore abbastanza giovane ma vecchio a guardarlo bene, era sporco e maleodorante già all’inizio del lavoro in barca, diventava indolente non appena metteva piede sulla terra ferma e procedeva inesorabile lungo la strada del suo abbrutimento. Aveva ricevuto troppi rifiuti da parte di una moglie già vecchia dopo appena il terzo figlio, oppure semplicemente stufa di quelle maniere frettolose e squallide di cui era capace, delle sue mani lerce. Andare a bere  e poi alla ricerca di uno sfogo animale era ormai diventata tappa fissa dopo la pesca e la vendita al mercato: lavorava sodo e guadagnava tanto da potersi permettere quello che a casa non aveva da tempo, alla fine alla famiglia non faceva mancare nulla. Pagava abbastanza per non ricevere rifiuti, semmai solo qualche sguardo di dissenso che si rivolgeva verso il piccolo lavandino, lui si sforzava appena, faceva quel che doveva e non si fermava certo a far due chiacchiere. Una donna bionda però aveva iniziato ad accoglierlo senza chiedere più nemmeno il minimo gesto di pulizia, e questo aveva conquistato la sua fetida pigrizia. E poi aveva anche iniziato a baciarlo, e questa cosa era come un ritorno alla gioventù spensierata. Luzio aveva i pantaloni incrostati di grigio di squame di pesce, sangue ittico rappreso ai bordi della camicia logora e sudicia, le unghie nere e sporche sotto e ai lati delle dita, tipiche di coloro che per lavarsi usano solo acqua. Luzio aveva i capelli ingrigiti ai lati sulle tempie, più che per l’età, per la vita faticosa che conduceva da quando era poco più che un ragazzino, la barba e i capelli erano sempre troppo lunghi e unti e in testa portava un cappellaccio più sformato delle scarpe che portava ai piedi. Ai baffi era facile trovargli rimasugli di sugna e cibo e avevano un odore misto di vino e tabacco masticato.

Adua invece era giovane ancora, anche se attorno ai suoi occhi si potevano vedere profondi solchi che se fossero stati i cerchi di un albero sarebbe stata centenaria, la sua giovinezza si era dissolta in pochi anni nei bordelli in cui era vissuta e insieme ad essa aveva sicuramente perduto la capacità di sorridere; i soldi che guadagnava se li beveva senza troppo ritegno e il suo addome era ormai flaccido e i seni vi ricadevano sopra. Cercava di apparire piacente ma la mancanza di sorriso e di espressività la rendevano oscura e i clienti non la sceglievano se non quando tutte le altre erano occupate.

Adua e Luzio erano una coppia perfetta di rifiuti di loro stessi, si trovarono un giorno e continuarono a trovarsi e ritrovarsi senza quasi mai dirsi nulla. L’appuntamento del venerdì divenne anche quello del lunedì, e poi del mercoledì, fino a diventare quello di ogni giorno, e Luzio si ritrovò a fare i conti con i soldi che iniziavano a scarseggiare in casa e con una moglie che non smetteva di gridare, stava spendendo con una puttana togliendo cibo di bocca ai suoi figlioli.

Ma Adua non aveva nessuna voglia di rinunciare a lui, a un cliente perfetto, o a qualcos’altro che lei si era costruita in testa, e cominciò a offrirsi senza nemmeno voler soldi in cambio, lei voleva solo lui, voleva Luzio e basta, ma il pescatore non era proprio stupido e capì che c’era qualcosa di malato in quel rapporto e decise di tenersi le braghe allacciate e gli strilli della moglie. Adua iniziò a seguirlo, a fare scenate di fronte a gente curiosa e pettegola, e le voci arrivarono in fretta all’orecchio della moglie di Luzio, che non era indignata per il tradimento subito, quanto per la vergogna dei pettegolezzi su suo marito, perché in quel paese si andava parlando troppo di quella storia.

Luzio decise di non farsi più vedere da quella puttana ma dopo pochi giorni iniziò a sentirne la presenza attorno. Andava a coricarsi nello stanzino di casa sua e sentiva rumori ovunque. Luzio usciva fuori per andare al gabinetto e si sentiva osservato, sentiva rumore di passi dietro di lui. Sentiva le assi del legno scricchiolare come se qualcosa di grosso vi si fosse appoggiato sopra. Luzio in piena notte partiva da casa per andare alla sua barca e sentiva piccoli sassi arrivargli sulla schiena. Adua intanto era sparita dal bordello, era scappata via lasciando lì quel poco che possedeva, passava le notti al porticciolo acquattata dietro i barili e aspettava di veder arrivare la barca di Luzio, poi di giorno era come se si dissolvesse senza farsi vedere mai da nessuno.

Ma una notte prima di andare a pesca Luzio stava chiuso nel gabinetto. Seduto sull’asse di legno sobbalzò ad un colpo alla porta, forse un calcio. “Io sto qui Luzio, io sto sempre qui, e tu devi stare con me, sempre con me”. Era Adua, con un sussurro inquietante aveva appena dichiarato le sue intenzioni, ma era solo una donna, oltre a dire cose senza senso non poteva fare altro. O almeno era quello che pensava Luzio. Salito sulla sua barca quella voce sibilante lo accompagnò nella testa per diversi minuti, Luzio slegò le nasse e annodò le reti in modo metodico fino a riuscire a tornare a tuffarsi con la mente nel suo mare. La barca si muoveva leggera mentre la salsedine gli entrava nei polmoni con respiri profondi, respirava e annodava, mentre la barca si muoveva lentamente guidata dal suo gomito appoggiato al timone. I gesti erano meccanici, il timone stesso era spostato senza quasi dover guardare dove andare, Luzio buttò le reti in acqua con precisione mentre le poche luci in lontananza si riflettevano sul mare. L’uomo orribile che era diventava un maestro sulla sua barca. Si era appena arrotolato una sigaretta e l’aveva stretta tra le labbra quando il chiaro bagliore del fiammifero acceso illuminò appena poco più avanti: immobile, nel suo lungo vestito scuro c’era Adua, i capelli incollati al viso stravolto. Luzio trasalì e balzò all’indietro, ma Adua apparve molto più agile e pronta, e gli balzò addosso come una bestia famelica. Riverso sul legno della sua barca Luzio non riusciva a parare i colpi, Adua era come impazzita, con una mano si appoggiava al pavimento, mentre con l’altra pugnalava quello che voleva fosse il suo uomo, e lo fece senza alcun timore. Al viso, al collo, al petto. Luzio si dimenava, sanguinava, gridava. Adua continuava con quel coltello, ancora al viso, al ventre, al cuore. Luzio scalciava, spingeva, piangeva. E Adua continuava la sua opera: il coltello entrava e usciva rapido, dai polmoni, da un occhio, da una guancia. E Luzio morì. Mentre Adua lo osservava morire.La donna capendo che ormai non poteva più farle resistenza, si sollevò e riprese fiato solo qualche istante per poi ricominciare ad infierire sul suo corpo, ancora e ancora e ancora, fino a quando non ebbe più forza di alzare quel braccio. La barca intanto continuava ad andare da sola fregandosene del suo capitano che muore e soprattutto del grande fascio di luce che continua a colpirla. Adua restò indifferente proprio come se fosse di legno come la barca, restò impassibile anche quando il legno si accartocciò  sugli scogli dell’isola dell’amore e si spezzò sotto il peso delle onde. “Luzio è immobile Adua, perché è morto, inutile colpirlo ancora, inutile prenderlo a calci, non ti può rispondere, ed è colpa tua, lo hai ucciso tu, lo volevi per te, ora prenditelo è tutto tuo, un sacco di sangue ed escrementi sotto i tuoi piedi, che quasi l’odore di pesce sembra svanire, ora lo hai tutto per te Adua, ma così, senza vita alcuna.”

Adua riuscì a scendere dalla barca ormai distrutta arrampicandosi sugli scogli, le unghie strappate sulla roccia nell’intento folle di salvarsi, alle sue spalle il faro ignaro di quanto fosse appena accaduto. Adua si era appena salvata da un naufragio, Adua aveva appena ucciso un uomo, Adua era impazzita e l’unica cosa sensata che le venne in mente di fare fu di girare attorno al faro come una bestia feroce, avrebbe potuto gettarsi sull’erba umida in attesa del mattino, ma era inevitabile che trovando la barca avrebbero trovato anche Luzio e lei era inequivocabilmente colpevole, era su un’isola e non poteva scappare. Una rete abbandonata ai piedi del faro parve darle la soluzione: una rete e un albero. 

Adua morì impiccata. La mattina dopo il guardiano del faro lanciò l’allarme. La puttana appesa all’albero, la barca distrutta da una corrente quasi inesistente su scogli bassi e innocui, il pescatore accoltellato centinaia di volte, il tutto sull’isola dell’amore.

Trovare guardiani del faro da quel momento divenne abbastanza difficile, soprattutto perché di notte le porte scricchiolavano anche senza vento e senza nessuno dietro, le chiavi dondolavano appese alle toppe, senza che nessuno le toccasse, ma soprattutto sembrava sempre di sentire puzza di pesce e uno strano bisbiglio dietro le spalle lungo le stradine di Goro.