La condizione della donna nel Lager
Essere donna in un campo di concentramento più di settant’anni fa voleva dire lottare contro un nemico crudele e feroce. Voleva dire rischiare ogni giorno di non essere più donna, lottare contro tutte le cose che cercavano di abbruttire l’animo e il fisico. Tuttavia le donne, sopportando dolori immensi e realtà angosciose, sopravvissero più numerose ai campi in confronto agli uomini, soprattutto quelle che provenivano da famiglie di origini modeste, abituate quindi alle privazioni, ai lavori più pesanti, alla cura dei figli spesso numerosi, di anziani. Le borghesi, le donne culturalmente privilegiate erano spaventate e completamente impotenti anche solo di fronte ai pidocchi, erano incapaci di lotta, di autodifesa, di forza fisica, dopo pochissimi giorni nel Lager erano già indebolite a tal punto che «si lasciavano mangiare dai pidocchi invece di schiacciarli semplicemente tra le unghie».[1]
La violenza della deportazione si manifestava fin dall’inizio nei trasporti, obbligando ad una promiscuità a dir poco grottesca all’interno di carri bestiame privi di ogni struttura adatta a persone, come la mancanza di servizi igienici. Uomini e donne, insieme a bambini anche piccolissimi, venivano fatti viaggiare in vagoni piombati, gelando per il freddo d’inverno o soffocando per la mancanza d’aria e il caldo d’estate, ammassati, vecchi e giovani, costretti a condividere per giorni uno spazio troppo piccolo per loro, il trasporto ai campi costituisce inoltre l’ultimo momento di unione per le famiglie, all’arrivo dei convogli verranno divise per sesso. All’epoca una donna era molto più attenta a tenere ben custodita la propria intimità, e si dedicava anche a curare il proprio aspetto, facendo un’attenzione particolare agli abiti, all’acconciatura, e per questo l’esibizione della propria nudità non poteva che suscitare un imbarazzo talmente forte da essere traumatico.
Le visite ginecologiche erano talmente inusuali a quel tempo che le perquisizioni fatte nelle parti intime ai posti di smistamento, durante il trasporto o all’arrivo al campo, cominciavano quel processo di disumanizzazione fatto attraverso la negazione della persona. Ada Jerman ricorda a proposito:
«Dopo qualche tempo ci hanno fatto fare una visita ginecologica, forse per vedere se c’erano donne incinte o meno. Io non avevo mai avuto rapporti sessuali perciò ero integra e quindi temevo molto la visita. Addirittura non avevo mai visto nemmeno un corpo di donna nudo e là vedevo queste donne, magari anziane, e la cosa mi sconvolgeva: tutte in fila, come in una catena di montaggio, e questi corpi segnati dall’età. Io cercavo di girare la testa dall’altra parte, di non guardare. Io ero giovane ma mi vergognavo più per loro che per me. Soprattutto al momento della visita ho girato la testa e ho chiuso gli occhi. Ho sentito una grande puntura e dopo quella volta non ho più avuto le mestruazioni.»[2]
La disinfestazione era un altro momento particolarmente umiliante per le donne: tutte nude in fila tremanti nei cortili erano esposte al gelo. Ma quello che faceva loro più male era essere diventate in quel momento bersaglio di sguardi sprezzanti, di risate sfrenate, «di gare di sputi tra i soldati sui capezzoli e, non di rado, oggetto di scherni con dei bastoni che frugavano» [3] nei loro corpi. Di fronte alla folla delle prigioniere, indifese, con le mani vuote, stavano i signori del campo e le loro aiutanti, pochi, loro, ma protetti dai propri vestiti. Il loro disprezzo le raggiungeva ferendole. «Nude! Per farci esaminare magari le mani e gli occhi. A casa ci avevano insegnato che neanche ai fratelli ci si poteva presentare in sottana, e lì invece, nude, di fronte a tutti!»[4] ma il timore più grosso veniva dalla possibilità di essere scartata per una qualche macchia sul corpo, o per le gambe gonfie o per qualsiasi altro motivo dettato dalla decisione dei “medici” dal momento. Il DDT veniva pompato in ogni piega del corpo e, nonostante la profonda umiliazione del gesto e del contesto in cui veniva fatto, non dispiaceva alle donne, sempre alla presa con una sfrenata lotta contro i pidocchi, perché le liberava per qualche ora da quegli orribili parassiti.
I capelli, che sono da sempre considerati come segno di femminilità vengono tagliati alla radice: un freddo oggetto metallico che passa sulla cute e le ciocche che cadendo sfiorano per l’ultima volta i corpi a cui sono state tolte sono un ricordo indelebile per le deportate. Una di loro ricorda l’atto e contemporaneamente la decisione di opporsi all’umiliazione subita:
«Entrammo in una grande sala nella quale ci attendevano diverse donne barbiere (non parrucchiere). Lavorando come se fossero in corsa contro il tempo, ci tagliarono i capelli con modi rudi, lasciandoci calve e con tutto il corpo rasato… decisi di non provare vergogna, di non sentirmi umiliata, degradata, privata della mia femminilità o della mia umanità. Era un atto di sfida anche se nessuno se ne rese conto.»[5]
Dopo la prima visita all’arrivo al campo le donne, rasate e disinfestate, possono vestirsi. Spesso ancora nude venivano costrette a sfilare davanti alle SS che minacciavano armate, e anche a fare i loro bisogni in loro presenza.[6] Ricevono dei capi di vestiario logori e talvolta anche sporchi, «le mutande maschili non hanno elastici e cadono, le calze si ripiegano sulle gambe, le scarpe, spesso appositamente spaiate, rimangono prigioniere del fango spesso e sdrucciolevole e compromettono l’equilibrio»[7]. Una delle testimoni italiane detenuta nel campo di Ravensbrück come politica, Lidia Beccaria Rolfi, ricorda l’arrivo al campo sempre uguale per le detenute.
«Il cerimoniale dell’arrivo in campo si ripete con monotona precisione, d’estate come d’inverno e per tutti i trasporti. Incomincia con una sosta d’attesa che dura fino al mattino successivo. La sosta serve ad aumentare la tensione e avviene a volte all’esterno al freddo, a volte all’interno nel locale docce. Il mattino le deportate devono spogliarsi nude, ammucchiare insieme gli effetti personali ed entrare con tutto il bagaglio in un ufficio. Qui un’impiegata prigioniera elenca ogni oggetto, meticolosamente, su un foglio: il denaro, i valori, i gioielli, le lettere, le fotografie sono chiusi in una busta di carta, e subito la busta prende la strada dell’ignoto; gli indumenti e gli altri oggetti personali sono messi un sacco, che scompare anch’esso. Così sparisce il passato, spariscono i ricordi, insieme con tutto quello che lega al mondo esterno. Nude, senza più niente, le deportate varcano una seconda porta, subiscono una seconda violenza sulla persona: sono frugate, rapate, a volte, perquisite nelle parti più intime dove qualcosa può essere nascosto, poi avviate alle docce e quindi spinte all’esterno, ad asciugarsi sotto il sole o nella neve, in attesa di ricevere la divisa che le fa cittadine del campo. La divisa regolamentare a righe grigie e blu […] costa all’economia concentrazionaria e non è il caso di sprecare denaro quando è possibile rivestire le prigioniere con gli stracci che rimangono nei magazzini dopo che tutto quello che può essere smerciato è stato scelto accuratamente dal Kommando addetto alla selezione dei bagagli. Gli stracci diventano divisa: basta una grossa croce bianca dipinta sul davanti e dietro con biacca indelebile.» [8]
Ancora una volta la femminilità oltraggiata, umiliata, offesa e ridicolizzata veniva talvolta disperatamente difesa, talvolta anche grottescamente. Alcune, rischiando severe punizioni, strappavano una striscia del soprabito grigio per coprirsi la testa rasata, altre rinunciavano ad un prezioso pezzo di pane per rivenderlo al mercato nero in cambio di una spalmata di rossetto sulle labbra, arrivato non si sa da dove, o per una scheggia di specchio.[9] Riuscirono a non dimenticare d’essere donne, e cercarono di aggrapparsi con tutte le loro forze a tutto ciò che poteva restituire un po’ di femminilità.
«Quante volte cercavamo di metterci dei bigodini fatti con dei fili di ferro per renderci più presentabili! E ci sforzavamo di tenerci pulite il più possibile. Non lasciarci andare, non perderci completamente, mantenere il senso di femminilità era già, accanto all’aiutarci e al conservare la dignità umana, una cosa molto positiva».[10]
Il baratto al mercato nero era diffusissimo e talvolta aveva modo di allungare la vita di una deportata, altre la condannavano inesorabilmente, come accadeva per tutte quelle donne che cedettero troppo spesso la loro razione di pane per avere tabacco e sigarette.[11] In tutte le testimonianze, la mancanza di servizi igienici adatti porta nell’immediato sconforto, non potersi lavare, anche solo con acqua fredda è drammatico per le donne, un pezzetto di sapone diventa perciò un bene prezioso, ma presto finisce e l’impossibilità di lavarsi diventa in pochi giorni un problema enorme. Come possono trecento o quattrocento donne alzarsi rifare il proprio letto, se così si può chiamare, lavarsi in solo tre miseri lavandini ed uscire per l’appello in appena mezz’ora? Ma restare sporche acquista un significato di decadenza fisica e psicologica. Col giungere delle malattie, la dissenteria, il tifo, la rogna, e il brulicare dei parassiti nelle baracche e sulle stesse deportate, si tocca veramente il fondo.
«Ingenue, speriamo di avere della biancheria pulita, delle lenzuola di ricambio, le abbiamo aspettate tre mesi, il tempo di prendere la rogna. Me la sono presa immediatamente due giorni dopo, e ci siamo passate tutte; molte non sono mai guarite; rogna presto infetta, purulenta, alla quale è stato dato il nome di avitaminosi; le due cose si sono unite in piaghe orribili fino alla morte. Non abbiamo uno straccio per proteggere e pulire questi ascessi che sudano e si appiccicano alla nostra camicia sporca, le croste si strappano camminando. Svestite, ci facciamo orrore. Utilizziamo delle fasce di carta, ungiamo le pustole con la margarina, le portiamo a maturazione con un cataplasma di rutabaga al momento della minestra, e ci grattiamo, malgrado tutto, notte e giorno… Siamo ben presto coperte di pidocchi, nessuno ci scappa; quelle che lavorano in laboratorio non hanno un istante libero per toglierseli. La sera, quando torniamo dopo l’appello, la stanchezza ci paralizza e nel dormitorio la luce non resta accesa a lungo; e poi ci sono dei letti, in basso, in fondo, dove non ci si vede. Lassù, sotto la lampada elettrica, alcune si danno da fare per schiacciare le bestie tra le dita; sotto, gridano perché le ricevono nella gavetta…»[12] Ma non ci sono solo pulci, pidocchi e cimici, ma anche topi. «Grossi ratti così arditi da fregarci le nostre croste di pane, se abbiamo la disgrazia di dimenticarle. Ogni volta è una battaglia a colpi di zoccoli, ma quelle bestiacce non hanno paura, attaccano forte».[13]
Per rendere meglio l’idea della situazione in cui vivevano queste donne bisogna pensare innanzitutto al grande numero di esse e al fatto che lo spazio che occupavano era particolarmente scarso, i locali adibiti a dormitori, i Block, non avevano strutture igieniche e, se vi erano, erano comunque inadeguate. Dai ricordi di Lidia Beccaria Rolfi possiamo avere una visuale chiara della situazione nel campo di Ravensbrück.
«I Block sono costruzioni di legno incatramato, specie di capannoni a un solo piano, con una porta al centro, divisi in due Stube, A e B, uguali come due gocce d’acqua. Ogni Stube ha un refettorio, un dormitorio, un Waschraum con tre lavabi circolari e alcuni rubinetti che devono servire per tutte e altrettante latrine o prive di porte o con porte che devono restare costantemente aperte. Dal refettorio è ricavata la stanza della blockowa. La blockowa è responsabile del blocco intero, e ha alle sue dipendenze due stubowe, responsabili delle Stube. La stubowa ha contatti diretti con le deportate che le sono affidate, risponde della disciplina, della distribuzione del vitto, della pulizia, dell’ordine, e da lei dipende uno stuolo di Zimmerdienst, ragazze di camera, che l’aiutano nello svolgimento dei suoi compiti e sono spesso le sue spie e più spesso ancora le organizzatrici del mercato nero all’interno del blocco. Normalmente sono scelte fra deportate della stessa nazionalità della stubowa, polacche per la maggior parte. Anche la blockowa e la stubowa sono deportate. Nel refettorio all’inizio esistevano dei tavoli e degli sgabelli, uno per ogni deportata, e degli armadi per riporre gamelle, tazze e oggetti personali. Al nostro arrivo il refettorio è così affollato quando si mangia, che i tavoli sono solo d’ingombro; le deportate sono ammassate anche sotto o sopra i tavoli, pigiate in piedi come sardine in scatola, impossibilitate a fare un gesto o un movimento. Sui tavoli avviene la distribuzione del pane e soltanto quella; la minestra si consuma in piedi una contro l’altra con il rischio di versarla a ogni momento. La gamella della zuppa è distribuita al momento, non è personale e nemmeno la tazza è personale. Nei blocchi di quarantena le gamelle non sono sufficienti per tutte, occorre aspettare che il primo turno finisca per afferrarne una al volo e mettersi in coda con la gamella sporca per non rischiare di rimanere digiune. Quando distribuiscono la prima zuppa, il primo cibo che vediamo a circa ventiquattr’ore dall’arrivo, scopriamo che la «sbobba» è una brodaglia insipida e dolciastra, molto liquida, e dobbiamo mangiarla senza cucchiaio, dobbiamo succhiarla e leccarla, in altre parole. Il leccare la minestra come i cani avvilisce, fa sentire bestie più di molte altre cose è una sofferenza soprattutto psichica. «Non siamo bestie», commentano le nuove arrivate e non sanno che la logica del sistema concentrazionario vuole proprio questo: ridurre le deportate alla condizione di bestie da lavoro docili e ubbidienti. Imparo a leccare la minestra nella gamella sporca, usata prima da una sconosciuta. Ho fame e mi adatto. Lecco la zuppa immonda fin dal primo giorno. Il dormitorio è un locale vastissimo a cui si accede da un’unica porta che si apre nella parete divisoria del refettorio. È aerato da poche finestre aperte sia d’estate sia d’inverno. È completamente occupato da letti a castello a tre piani, l’ultimo dei quali si trova a poco più di mezzo metro dal soffitto. Lo spazio fra il letto inferiore è così poco che da sedute le prigioniere battono la testa contro le assi. Due corridoi strettissimi corrono da cima a fondo nel locale e dividono i letti in una zona centrale e due laterali: non potrebbero contenere tutte insieme le deportate del dormitorio. I letti, sistemati su doppia o tripla fila, non più larghi di 70, 80 centimetri, sono destinati a due o anche a tre deportate per posto; ricordano all’aspetto i ripiani dei bachi da seta, li ricordano anche nel rumore che da essi si leva, un brusio ininterrotto di larve umane che gemono, piangono, bisbigliano, pregano e si disperano per tutta la notte. Li ricordano soprattutto nella puzza insopportabile che emana da centinaia di corpi mal lavati che vivono e respirano in un ambiente solo, basso, surriscaldato e poco aerato.»[14]
Nella testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi sono nominate le “guardiane” dei Block, oltre infatti al personale SS nel campo c’è una particolare gerarchia rappresentata dalle donne Kapò, queste erano delle rare sopravvissute ad anni di Lager e obbedivano come delle macchine alla disciplina dei loro capi uomini e anche nelle loro crudeltà si mostravano più razionali, più maschili delle novelle funzionarie subito cattive, meschine, e irriconoscibili da un giorno all’altro.[15]
«Trovai nelle donne che ci comandavano una cattiveria spinta all’eccesso, forse maggiore di quella degli uomini. Una di noi che aveva rubato, al Betrieb, un pezzettino di stoffa, venne uccisa a calci nella pancia da una soldatessa, e questa è una cattiveria umana che, in una donna, è terribile. […] quelle donne, poste in una condizione e in ruoli maschili, vollero essere, anche nel male, uguale agli uomini: in realtà furono peggiori di loro, direi, perché noi non dovremmo essere cattive, dato che, per natura, siamo sempre più dolci».[16]
Blockowe, Stubowe, Kapo, responsabili dei Kommando di lavoro e Lagerpolizei godono di privilegi non indifferenti, dormono nei blocchi in camere separate, hanno a disposizione un letto individuale, tavoli, sgabelli, armadi per i loro effetti personali, non hanno problemi d’alimentazione perché ricevono razioni supplementari e possono rubare sulle razioni delle altre, possiedono ricambi di biancheria, abiti caldi, scarpe normali. Solitamente vengono scelte fra i triangoli verdi, ossia le prigioniere per reati comuni, ladre, assassine, truffatrici, provengono dalle carceri tedesche e sono state trasferite nel campo con l’intento di utilizzarle come manodopera o come funzionarie. Sono sempre tedesche, e, proprio perché tedesche, si sentono addirittura riabilitate quando sono investite di un potere che permetta di comandare e di essere al di sopra delle politiche e delle ebree. Tra le SS vi sono anche donne, destinate a svolgere il loro lavoro nei settori femminili dei Lager, esse svolgono egregiamente il loro lavoro, secondini zelanti, sebbene siano disprezzate da tutti, perfino dagli stessi compagni SS che esigono da loro una ferrea disciplina, siano pagate male e debbano sottostare ad un ritmo di lavoro duro. Tuttavia si compiacciono dei loro stivali, del loro frustino, della divisa che le fa sentire qualcuno, imitando gli uomini cercano di superarli in violenza e ferocia, e talvolta ci riescono. Lidia Beccaria Rolfi le descrive come donne dalla «maschera dura e disumana del volto, su cui non ho mai visto un sorriso, e la violenza con la quale infierivano sulle più deboli era atroce».[17] Oltre alle donne e agli uomini SS esiste una terza categoria di guardiani tanto feroci quanto incolpevoli: i cani. Sono sempre cani di razza: dobermann, alani, pastori tedeschi, splendidi esemplari addestrati perfettamente per la guardia e la caccia all’uomo, scortano i Kommando, seguono gli aguzzini, attenti ad ogni loro segnale, azzannano i polpacci e i calcagni alle deportate non appena una di loro si azzarda a fare un passo fuori dai ranghi.
Assistere ad episodi di violenza gratuita era una cosa quotidiana, talvolta i pretesti per infierire su qualcuno erano inventati, solo per poter soddisfare il bisogno di fare del male. Ada Jerman ricorda:
«Le punizioni erano frequentissime. Ho visto tante ammazzate a suon di botte. Una volta il blocco era stato accusato di qualche cosa. Il fatto è che nessuna aveva capito esattamente di cosa potesse trattarsi. Era una domenica e dopo l’appello, invece di andare in baracca ci hanno fatto stare quattro ore in appello, ferme sull’attenti, con la neve che scendeva. Tante hanno cominciato a cadere per terra stremate.
Ma una delle scene più crude alle quali ho assistito è avvenuta alla fine della guerra. Ormai il campo era in disarmo, c’erano pochissime SS. Mi ricordo che le russe sono entrate in cucina con l’idea di portar via qualcosa, anche se la cucina era già stata smobilitata. In quel momento dalla baracca dei comandati esce il comandante, come un forsennato, come impazzito. Comincia a gridare con la pistola in mano e le russe cominciano a correre verso le baracche e lui a rincorrerle. Nell’impossibilità di prenderle tutte prende di mira una tra le tante. Le è corso dietro in baracca. Noi, atterrite, eravamo tutte quante nel corridoio. Questa ragazza è corsa nella camera e si è buttata sotto un letto. Il comandante l’ha raggiunta e la freddata con un colpo di pistola alla testa. Poi è uscito fuori ed io mi ricordo ancora questa ragazza russa, l’ho vista con i miei occhi... Ma come si fa ad ammazzare questa ragazza gli ultimi giorni? Aveva due, dico, due patate in mano e mi ricordo che le sono scivolate tra le dita in mezzo alla baracca.»[18]
Gravidanza e maternità
Un problema veramente penoso per le donne è rappresentato dal ciclo mestruale: non concede tregua alle donne, non c’è in giro nessun materiale adatto a tamponare le perdite, «chi è fortunata trova in terra uno straccio, se è costretta a lavare le mutande deve indossarle bagnate»[19]. Le mestruazioni aggravavano fortemente la sporcizia generale. Quando con la mancanza di un’alimentazione adeguata, la fatica, lo stress le mestruazioni non compaiono più ci si libera di un fardello gravoso, ma allo stesso tempo si ha la sensazione d’essere diventati asessuati. Diverse testimoni ipotizzano che le mestruazioni scomparissero subito per la somministrazione di qualche medicina. La fame in fondo non basta a spiegare un fenomeno così immediato, e nemmeno lo shock che l’ingresso nel campo produceva: esso avrebbe potuto bloccare ad una donna le mestruazioni, ad altre far venire delle emorragie. Tutto questo invece non accadde. Le mestruazioni in un luogo dove mancava l’acqua, sarebbero state un problema igienico in più.
In un primo momento le donne incinte venivano subito eliminate, poi si decise di tenerle per continuare ad usufruire del loro contributo lavorativo. Il bambino era soppresso alla nascita con iniezioni di fenolo, o soffocato in una tinozza d’acqua e quindi bruciato insieme agli altri cadaveri nel crematorio. I bambini non avevano diritto di vivere nel Lager, non lavoravano e quindi erano bocche inutili, così all’arrivo d’ogni convoglio erano direttamente mandati alle camere a gas o in ogni modo isolati in attesa di “essere trasferiti”.
«Le mamme hanno accompagnato i bambini nelle camere a gas con i loro balocchi in mano e hanno sollevato i piccoli più in alto possibile a carpirne l’ultimo respiro, per poi ricadere con loro, nell’informe e osceno mucchio delle vittime della gassazione»[20].
A Ravensbrück arrivarono molti convogli di bambini con le loro madri e ancora più spesso soli. I bambini, come le donne incinte non dovevano esserci, stando ad un decreto del 1943, ma molte testimonianze e anche qualche documento salvato accertano che nei campi dell’est i bambini erano soppressi alla nascita. A Ravensbrück le donne tedesche non ebree internate, al momento del parto potevano andare nella maternità all’esterno del campo, lì venivano assistite da personale competente con misure di igiene idonee e il bambino, essendo comunque di razza ariana, veniva consegnato a qualche casa d’educazione per Gioventù Ariana. Negli altri casi i medici del Revier procuravano aborti, anche in situazioni di gravidanze avanzate, senza la minima norma igienica, oppure, come accadeva anche in altri campi, i neonati erano strangolati o annegati alla nascita. Ci furono anche casi di parti clandestini, ma i bambini non avevano in ogni modo nessuna possibilità di sopravvivere, nonostante i tentativi delle madri aiutate anche dalle altre donne. Dal settembre del 1944 a Ravensbrück si decise di far vivere i neonati, e non è chiara la motivazione. I neonati erano collocati nella Kinderzimmer, una stanzetta nel blocco delle ammalate, una testimone ricorda:
«I bimbi sono molto sporchi, perché possiamo cambiarli solo molto raramente. Assumono in fretta l’aspetto di vecchi. Ogni giorno ce ne arrivano di nuovi, poiché numerosi convogli di donne provenienti dai campi e dalle prigioni evacuati a causa dell’avanzata degli alleati si riversano nel campo. In mezzo a loro si trovano delle donne incinte che partoriscono in una stanzetta del Revier, in condizioni disumane. I neonati sono portati subito al Kinderzimmer, vestiti con un camicino, un pannolino e avvolti in uno scialle. Hanno solo un pannolino di ricambio».[21]
Le donne del campo venute a conoscenza dell’esistenza della Kinderzimmer si mobilitano nella raccolta di panni e stracci per fare pannolini per i neonati, mattonelle di carbone per riscaldare meglio l’ambiente in cui stavano i piccoli, di bottigliette per fare poppatoi in sostituzione delle madri che non potevano allattare. I biberon erano riempiti con una mistura fatta di latte misto a semola, l’intruglio era accettato tuttavia solo dai più grandi, ma pochi riuscivano ad arrivare ai tre mesi, quasi tutti morivano molto prima. I neonati erano deboli e riuscivano a mangiare con molta lentezza, per questo la prima poppata terminava in pratica quando era ora di cominciare la seconda. Alcune donne, anche dopo la morte del proprio figlio restavano al blocco per allattare gli altri bimbi quando avevano ancora latte. Quando le madri muoiono a volte le infermiere adottano i loro bimbi. I neonati potevano essere cambiati solo se veramente sporchi, non venivano lavati e i pannolini erano asciugati dalle madri stesse sui loro corpi. Nella Kinderzimmer lavorava la dottoressa Sdenka Nedvedova, la quale riuscì ogni giorno a far avere alle infermiere che si occupavano dei neonati un barattolo di latte in polvere. Le bottigliette raccolte al campo diventavano biberon e le tettarelle venivano fatte da un paio di guanti di caucciù sottratti al capo medico. Ma le condizioni dei bimbi erano veramente tragiche, persino i pagliericci su cui erano adagiati erano invasi dai topi, e molto spesso i bimbi erano feriti e graffiati da quelle immonde bestie. Nel campo di Ravensbrück, dal settembre del ’44 all’aprile del ’45, ci sono state almeno 509 nascite per le quali sono state annotate le date di nascita e di morte del bambino, il nome e il numero della madre, aggiungendo le nascite dei gemelli, che venivano registrate insieme, e le nascite registrate sui fogli del registro in causa che sono stati strappati, dovrebbero essere stati circa 550 i bimbi nati nel Lager. Un quarto dei bambini registrati risultavano sopravvissuti, per poi concludere la propria esistenza assieme alle madri con un convoglio a Bergen Belsen dove hanno trovato la morte nelle camere a gas. Nel ’45 sono state registrate 365 nascite, parte deceduta al campo, parte spedita a Bergen Belsen. L’ultimo periodo d’esistenza del campo presenta numerose testimonianze soprattutto di polacche arrestate al momento dell’insurrezione di Varsavia, 200 delle quali erano incinte. Giunte a Ravensbrück quando il campo era ormai colmo sono state sottomesse a duri lavori nonostante la gravidanza avanzata, molte di loro hanno testimoniato sulle proposte imperative d’aborto del personale del Revier, del loro parto disumano e della morte immediata del loro bambino.
Normalmente una donna guarda alla propria gravidanza come ad una garanzia per il futuro. Anche ad Auschwitz era pericoloso essere incinte, era l’anticamera per il gas. Le donne partorivano nei blocchi in cui dormivano, alla luce di un pezzetto di candela, con l’aiuto delle altre donne che avevano il compito di sopprimere il bambino appena nato per salvare la madre. Nell’assurda situazione del campo della morte, un omicidio poteva significare salvare la vita di una persona. La gravidanza di una donna determina poi all’interno del blocco la formazione di una “famiglia provvisoria”[22], alcune donne si prendono cura della gestante, sottraggono cibo dalle loro magre razioni per darlo a lei, fanno in modo che partorisca di nascosto e, nel caso dell’esperienza raccontata da Karmel, sistemano le cose per far uscire la neonata dal campo e metterla in salvo: per loro la sopravvivenza della bambina simboleggia il trionfo sulla macchina della morte. Allo stesso modo la vittoria morale viene ridimensionata dall’episodio di un bambino nato nel campo ma lasciato morire di fame. Gli ordini del dottore nazista erano chiari, non deve essere nutrito, neppure con acqua, ma le donne, mosse a compassione, nutrirono il piccolo con acqua zuccherata assumendosi grandi rischi personali, riuscendo però a prolungare solo la sua agonia.
Tra i deportati la categoria dei bambini costituisce senz’altro un dato straordinario. Nella storia delle persecuzioni etnico-razziali e religiose, è tutt’altro che raro che i bambini siano stati colpiti con la stessa determinazione che si riservava agli adulti. Nel caso delle persecuzioni razziali i motivi che possono aver dettato questo atteggiamento sono facilmente comprensibili: la “necessità” di annientare biologicamente un intero gruppo umano, al di là di ogni convincimento politico o religioso. In questo senso lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, è senz’altro l’esempio più eloquente. Ma più in generale ai persecutori non sfuggiva il pericolo che la sopravvivenza di alcuni membri del gruppo potessero in qualche modo rappresentare in futuro il nucleo di una possibile riscossa e rinascita, soprattutto se i bambini erano in grado di ricordare i traumi subiti con la scomparsa dei loro tessuto sociale e familiare d’origine.
Per quello che riguarda la deportazione nei Lager nazisti va tuttavia ricordato che, accanto alla deportazione massiccia di bambini ebrei (su sei milioni di ebrei eliminati, si calcola che circa un milione fossero bambini dei quali 800.000 adolescenti), esiste una deportazione di bambini non ebrei, di solito qualificati, al seguito dei genitori arrestati, come politici. Si tratta di adolescenti di poco superiore ai dieci anni.
Sono moltissime le donne che hanno perso i propri figli nei Lager, nessuna esperienza più dolorosa, quando le donne non possono nutrire e accudire in modo adeguato i loro figli, proteggendoli dal dolore e dalla morte poi lo stesso amore materno diventa uno strumento di tortura per sé stesse. Sono madri disperate che appena riacquistata la libertà vogliono poter riaffermare quel ruolo che le è stato strappato con tanta violenza, ma molto spesso hanno voluto che i nuovi nati fossero il più possibile simili a quelli perduti condannandoli in questo modo ad essere le “candele della memoria”[23] ossia creature destinate a celebrare, come le candele, il ricordo dei familiari scomparsi. Per queste donne e per i loro figli, è questo un fenomeno che si è evidenziato maggiormente nelle donne ebree, si sono dovute approntare terapie di gruppo e cure mediche specializzate. Ma ci sono anche donne che hanno avuto la forza di combattere solo per sé stesse rifiutando il figlio che portavano in grembo, è il caso di una donna belga internata ad Auschwitz, anche se incinta sperava che le fosse concesso di vivere e mise tutte le sue forze nel lavoro che svolgeva. Partorì una bambina che venne immediatamente uccisa, disse di non aver voluto vedere sua figlia, di non averla amata neppure un momento; che avrebbe trovato marito e avrebbe avuto degli altri figli.[24]
Ma c’è anche un altro aspetto della maternità vissuto nei Lager che non va dimenticato ed è quello che unisce madre e figlia, adulte entrambe. Vi è una specularità particolare che unisce madre e figlia, tra loro permane allo stesso tempo una segreta sintonia, un’affinità che le sospinge alla confusione e una forte spinta all’individuazione che le estranea e le allontana.[25] L’attaccamento intenso e profondo di una figlia alla propria madre è sempre accompagnato da rivalità, lacerazioni, opposizioni, talvolta l’amore per la madre, con la comprensione e la giustificazione per le sue debolezze e dei suoi errori viene drammaticamente recuperato dalla figlia solo dopo che la madre è morta, e molti altri aspetti prima biasimati e sconosciuti vengono appresi solo quando si diventa madre.
Tra gli ebrei e gli zingari deportati ci furono milioni di madri e figlie, spesso queste erano ancora piccole o piccolissime e quindi furono immediatamente uccise con le madri nelle camere a gas. Ma anche la persecuzione politica ha conosciuto esempi di famiglie intere, quindi di madri e figlie adulte. Si tratta di donne che arrivano al campo quando hanno circa cinquant’anni con le proprie figlie appena ventenni, le prime dunque destinate a soccombere, le altre invece con possibilità maggiori di farcela. Oppure di donne sui trent’anni costrette a lasciare le loro figlie ancora bambine. La madre soffre per sé stessa e per la figlia fin dal momento dell’arresto, quando sa che il suo amore di madre non può far nulla per salvare sua figlia, quando si accorge che quella sua funzione di cura, protezione, aiuto e salvezza le è stata tolta cominciano a vacillare le sue certezze. Le sofferenze fisiche sono immense e sempre amplificate nel vedere la propria figlia, anche se ormai grande, sottoposta a simili atrocità. C’è un momento nella vita, quando le madri si ammalano o arrivano ad una certa età o si indeboliscono, mentre le figlie sono giovani e forti, in cui i ruoli e le funzioni si capovolgono: la madre torna ad essere bambina, la figlia assume i compiti di madre. Non è un cambiamento indolore neppure nell’ambito di una vita normale. La trasformazione è gravosa per la figlia la quale vuole essere madre, ma in proprio, non della sua stessa madre, ”divenire madre della propria madre vuol dire perdere la madre”[26], significa dover affrontare gli ostacoli e le insidie della vita con le spalle scoperte: si ha sempre bisogno di una madre. Alcune di queste figlie riuscirono ad uscire dal Lager e attraverso la loro voce possiamo affermare che parlino anche le loro madri.
A mio parere l’esempio più straziante della maternità vissuta in un campo di concentramento è dato dal libro di Cynthia Ozick[27], in cui racconta la storia di una madre deportata con la figlia lattante. Il suo seno è prosciugato, e la bimba succhia uno scialle che le serve anche da copertura, da nido. La madre riesce miracolosamente a tenerla nascosta nel buio della baracca e la bimba cresce. Benché denutrita impara a camminare a stento sulle sue gambette esili. Un giorno esce dalla baracca, nella luce, una SS la vede, se la carica in spalla e poi la getta sul reticolato elettrico che cinge il campo. La disperazione della madre è letta attraverso la marea delle sensazioni e degli impulsi che le percorre il corpo.
Triangoli rosa
Tra le deportate, che potevano essere di diverse specie, deportate per motivi razziali, politici, religiosi o sociali c’erano anche omosessuali, sia uomini che donne, distinti all’interno del campo da un triangolo rosa.
Nel 1871 nel Codice Penale del Reich bismarckiano, al paragrafo 175, si legge: “Un atto sessuale commesso fra due persone di sesso maschile è punibile con il carcere e con la perdita dei diritti civili”. Nel 1933, con l’avvento dei nazisti, l’applicazione della legge è resa più severa; viene proposto un suo inasprimento, e dopo solo un anno, il 30 giugno 1934, Ernst Röhm, apertamente e notoriamente omosessuale, capo di Stato maggiore delle SA nonché braccio destro di Hitler e Goebbels nella conquista del potere, è arrestato da Hitler in persona a Weissee, incarcerato e immediatamente ucciso. Il paragrafo 175 viene rivisto in senso esplicitamente e aspramente persecutorio nei confronti dell’omosessualità maschile: “Un uomo che commette un reato sessuale con un altro uomo sarà punito con la prigione fino a 10 anni”. Le persone condannate a causa del paragrafo 175 sono costrette ad indossare un triangolo rosa. Nel 1933 vengono inoltre promulgate misure per la protezione dai “crimini sessuali” e la relativa prevenzione: i giudici potevano ordinare la castrazione di chi fosse colto a commettere atti sessuali in pubblico, inclusi gli atti omosessuali. Himmler stesso autorizzò, nel ’39, che i prigionieri dei campi di concentramento potevano essere costretti alla castrazione.
Negli anni 20 Berlino si era trasformata in un noto e apprezzatissimo Eden omosessuale: le lesbiche e i gay potevano vivervi apertamente e dichiaratamente, partecipi di un autentico fervore culturale underground d’artisti e intellettuali. Con l’avvento dei nazisti al potere la vita omosessuale della capitale tedesca fu brutalmente oscurata e cancellata. Dal 1933 al 1945, a causa del paragrafo 175, centomila uomini furono arrestati e accusati della propria omosessualità: alcuni furono incarcerati, altri internati nei campi di concentramento. Ne sopravvissero circa quattromila.
Le lesbiche tedesche soffrirono socialmente le stesse “pene” inflitte agli omosessuali maschi: la distruzione di club e d’associazioni culturali, la messa al bando di pubblicazioni e riviste lesbiche, la chiusura o la sorveglianza poliziesca dei luoghi d’incontro. I gruppi visibili d’amiche si smembrarono e si riaggregarono in “circoli” privati. Molte interruppero i contatti sociali e cambiarono addirittura luogo di residenza.
Gli stili di vita di un’ampia comunità urbana, che favoriva l’estrinsecazione di diverse identità lesbiche, avevano cominciato a diffondersi agli inizi del Novecento: con l’avvento al potere dei nazisti se ne perse ogni traccia percorribile. Gli effetti di questa silente comunità lesbica berlinese continuarono anche nel clima del dopoguerra, nella Germania democristiana.
La Gestapo e la Kriminalpolizei, fin dai giorni dell’assassinio di Röhm (1934), concentrarono le proprie aberranti energie sui maschi omosessuali poiché “nemici” dello Stato. La scarsità delle fonti reperibili non offre una sufficiente documentazione circa la persecuzione giudiziaria delle lesbiche e di come questa avvenisse, per esempio in seguito ad una denuncia alle autorità. Alcuni rari documenti indicano che la polizia conservava nei suoi archivi rapporti sulle lesbiche, come d’altronde facevano altre organizzazioni del Partito Nazionalsocialista, del tipo “Dipartimento di polizia razziale”.
Solo pochi casi sembrano indicare arresti che, con il pretesto d’altre offese alla legge, siano riconducili ad una decifrabile matrice lesbica.
In una scheda burocratica del campo di concentramento di Ravensbrück l’omosessualità femminile viene indicata quale motivo di detenzione. Il 30 novembre 1940, la lista dei nuovi indica che l’undicesima iscrizione del giorno è quella della “non-ebrea Elli S. di esattamente 26 anni”. La parola “lesbica” appare nel foglio d’ingresso come ragione dell’internamento.
Elli S. fu rinchiusa tra le prigioniere politiche. Non si conoscono altri dettagli circa la sua permanenza nel lager e sulla sua sorte.
Si conoscono anche altri casi in cui le lesbiche furono punite come “disfattiste delle risorse militari”. Dove esistevano cosiddette “relazioni di dipendenza” fra superiori e subordinate, o fra insegnanti e alunne, poteva essere applicato il paragrafo 176 del codice penale, che puniva la “pedofilia”[28].
«Avevano ragione tutti tranne noi, le lesbiche».[29] Esorcizzate, arrestate, emarginate. Private di qualunque forma di legittimità, relegate nei labirinti della malattia mentale. Per le donne lesbiche, il fascismo è stato questo. Questo il destino di quante, pur nascondendosi, non hanno deciso di uccidere il loro amore. «Avevano ragione tutti, il prete, il vescovo, l’insegnante, il catechista. Avevano ragione tutti, fuorché noi ».[30]
I preti erano i più accaniti a non riconoscere alle
lesbiche nessuna ragione. Sostituti religiosi del duce, si scatenavano
nell’esorcizzare le amanti, nel cancellare i “segni del demonio”. I preti, da
una parte. Gli psichiatri dall’altra. Il divieto del lesbismo non era penale,
l’identificazione non fu nel reato.
«Per i maschi era diverso, Dopo il ’38 l’omosessualità maschile divenne crimine
politico, punito con l’arresto e il confino».[31] Il divieto lascia aperta, tra le infinite difficoltà,
l’eventualità della trasgressione. «Ci fu comunque per gli omosessuali maschi
la possibilità di una vita, seppur clandestina. C’erano locali, c’erano luoghi
di incontro ».[32]
L’interdetto per le lesbiche fu molto più invasivo. Era la loro mente ad essere malata: erano isteriche.
«Il lesbismo non era una devianza sessuale, perché nessuna sessualità era riconosciuta alle donne, solo il ruolo riproduttivo. Era, invece, una forma di pazzia. La difficoltà più grande nel parlare di lesbismo nel ventennio è dovuta al fatto che i divieti si respiravano nell’aria, erano striscianti, subdoli, onnipervasivi».[33]
Il lesbismo non era considerato dalle autorità una minaccia o un “sabotaggio socio-sessuale” dei fondamenti del Terzo Reich, perciò, a patto che non dessero pubblico scandalo le lesbiche non furono formalmente perseguitate. D’altro canto la condizione femminile nella Germania pre-nazista era tale che alle donne era vietato aderire a partiti od organizzazioni politiche. Fu per questo che, anche negli anni nei quali il movimento omosessuale ebbe maggiore forza, le lesbiche si limitarono a frequentare i locali della Berlino omosessuale senza esporsi ad un impegno politico palese. Ciononostante alcuni luoghi di ritrovo lesbici a Berlino come il “Dorian Gray” e il “Flauto Magico” divennero luoghi nei quali l’omosessualità femminile incominciò a organizzarsi. Spuntarono opere letterarie che destarono un certo scalpore come “Frauenliebe” (Amore femminile) e “Die Freundin” (L’amante donna). Già nel 1928, a causa della reazione conservatrice, gli spazi di libertà per le lesbiche vennero a restringersi: con l’avvento del nazismo anche questi limitati spazi di “libertà” scomparvero. La censura si abbatté sulle pubblicazioni “immorali”: “Die Freundin” venne messo all’indice in base alla “Legge sulla protezione della gioventù dalle pubblicazioni oscene”, vi furono richieste in parlamento di una legge che perseguisse esplicitamente il lesbismo e numerosi attacchi sulla stampa vennero dal più impegnato conservatore dell’epoca su questo fronte: Erhard Eberhard che sostenne che il movimento per i diritti civili delle donne era un movimento di facciata per promuovere la corruzione dei costumi femminili in Germania. Quando nel 1933 i nazisti arrivarono al potere proprio in virtù della loro convinzione che la donna fosse inferiore all’uomo, si disinteressarono al problema. Ciò non significò che essere lesbiche fosse consentito come stile di vita. All’indomani della presa del potere i nazisti chiusero tutti i locali di ritrovo e crearono un clima di costante timore incoraggiando le azioni di polizia e le denunce anonime contro le lesbiche. Bastava la lettera anonima di un vicino di casa per ritrovare alla propria porta la Gestapo. Molte lesbiche cambiarono città per rompere i legami con i circoli che avevano frequentato, altre si sposarono con omosessuali maschi per ridurre la loro visibilità. Ciononostante i nazisti continuarono a sorvegliare con particolare attenzione le lesbiche. Se anche l’omosessualità femminile non era considerata un reato esplicitamente vietato dalla legge, le lesbiche vennero ugualmente perseguitate non in quanto tali ma perché “asociali”. Così ufficialmente non vi furono arresti per lesbismo ma per comportamenti personali contrari all’ideologia nazista.
Ci sono noti solo cinque casi di lesbiche internate a causa della loro sessualità e non per motivi razziali. Nel paragrafo 175 della legge nazista contro l’omosessualità non è menzionato il “crimine sessuale” del rapporto fra donne. Sulla non-menzione del rapporto lesbico nei codici penali moderni, e quindi sulla sua non-punibilità a livello meramente legale - le esclusioni sociali, come ben si sa, sono altra cosa - è interessante considerare quanto in un fondamentale saggio di storia dell’omosessualità femminile:
«La concezione della sessualità umana […] pare basarsi sul postulato secondo il quale non esiste sessualità all'infuori di quella maschile, o di quella che si figura come complementare a quella maschile. Circoscritto il discorso entro questi confini, l’omosessualità fra donne, quando non venga negata o ritenuta poco più di un gioco magari un po’ troppo licenzioso, deve essere formulata con proposizioni tendenti a ricondurla entro i limiti del modello prestabilito e non potrà configurarsi che come un’imitazione dell’atto penetrativo maschile. Ma poiché tale atto viene assunto come segno “naturale” della superiorità dello status virile, solo chi è investito di tale status potrà seriamente compromettere la validità del suo fondamento legittimante e agire contro natura ovvero contro l’ordine sociale. Il suo sarà un tradimento consumato all’interno delle mura stesse del palazzo, un rinnegamento volontario che incrina quella immagine speculare su cui gli uomini costruiscono la loro identità.».[34]
Pochissimo perciò è dato di sapere sul modo in cui, di fatto, esse vivessero i loro amori o su cosa ne pensassero, e neppure possono essere indicativi sulla loro diffusione le asserzioni di inesistenza o i lunghi periodi di assenza dell’argomento dai discorsi ufficiali, essendo la negazione e il silenzio, oltre che indice di disinteresse, anche la forma più efficace di repressione e tolleranza insieme.
Abbiamo una sola testimonianza italiana nell’ambito dell’intera memorialistica sull’internamento lesbico, l’autrice fu rinchiusa nello stesso Block dove erano tre lesbiche, nel campo di Dachau:
«Su due pagliericci in alto vivevano tre triangoli rosa, lesbiche danesi (o norvegesi?) che ignoravano l’universo intero, sempre intente a lavarsi e pettinarsi tra di loro, pulitissime per quell’ambiente, fini, smunte, si coprivano di premure e di carezze fino a notte alta, consumate da un ardore vicendevole che le faceva apparire felici ai nostri occhi, al di là della fame e dalla brutalità, completamente immerse nelle reciproche tenerezze. Interpellate, rispondevano educatamente ma a monosillabi, affrettandosi a rifugiarsi sul loro pagliericcio. A volte le vedevo imboccarsi a turno tutte e tre dalla stessa gavetta».[35]
Nei campi di concentramento gli omosessuali erano ben distinti dagli altri: gli uomini dovevano indossare un triangolo rosa, le donne uno nero. Il triangolo nero stava a significare l’asocialità, in questo caso la sottrazione fisica all’unica socialità considerata degna di valore, quella con il maschio. Di loro si può fare solo una stima, forse circa 50mila, le cifre sono controverse. Sono piuttosto rare, le testimonianze su questo genere di internati, di cui solo due quelle letterarie. La prima, di Heinz Henger, fu pubblicata da una piccola casa editrice tedesca nel 1972 e diventò un grande successo a cominciare dai primi anni Ottanta. L’autore preferì nascondersi dietro uno pseudonimo, il suo vero nome era Josef Kohout, cosa che gettò un’ombra sull’autenticità del racconto, il quale metteva ben in luce il sistema di sfruttamento sessuale all’interno dei campi. Lo stesso Kohout sopravvisse in cambio di prestazioni sessuali pretese dai kapò.
Le lesbiche deportate nei Lager non furono catalogate come omosessuali, ma come pervertite alla stessa stregua delle prostitute. Questa distinzione era marcata dal fatto che per loro nei campi vi fu l’obbligo di indossare il triangolo nero, simbolo delle prostitute. Si deve aggiungere che la politica del lavoro nazista danneggiò ulteriormente le lesbiche. Poiché il lavoro femminile era guardato con sospetto e i posti di responsabilità negati alle donne, le lesbiche, perlopiù non coniugate, si trovarono a dover combattere con drammatici problemi economici. La mancata persecuzione esplicita del lesbismo non toglie nulla alla repressione generalizzata che queste persone subirono ed al clima di paura nel quale vissero per tutta la durata del regime.
Uno dei pochi casi di deportazione di lesbiche è documentato dal “caso Schermann”. Henny Schermann era nata il 19 febbraio 1912 a Francoforte sul Meno in Germania. Di origine ebrea, era la prima di tre figlie. Dopo il 1938 venne imposto alle donne ebree di far apporre sui propri documenti un secondo nome distintivo di origine ebraica che potesse evidenziare ancora meglio le loro appartenenze giudaiche. Henny, all’epoca ventiquattrenne commessa in un negozio, non faceva mistero della propria omosessualità e mostrava un atteggiamento non conforme alla legislazione repressiva nazista. Non si adeguò all’ordine di apporre il nome ebreo sui documenti, e continuò la sua vita come sempre frequentando, laddove possibile, i luoghi di ritrovo illegali delle lesbiche di Francoforte. Nel 1940 venne arrestata e deportata al campo di concentramento femminile di Ravensbrück. Sul dorso della fotografia segnaletica che le venne fatta durante la registrazione nel campo, il funzionario nazista scrisse: «Henny Sara Schermann, nata il 19 febbraio 1912 a Francoforte, non coniugata, commessa di negozio. Lesbica licenziosa frequentatrice di bar omosessuali non ha adottato il nome “Sara”. Apolide ebrea». Dopo due anni di campo di concentramento Henny morì nelle camere a gas di Berneberg nel 1942. Il caso di Henny Schermann mostra tutta la difficoltà nel registrare e documentare la persecuzione delle lesbiche.
Ufficialmente Henny era ebrea e questo sarebbe stato sufficiente per condannarla a morte in un campo. Tuttavia le autorità tedesche sottolineano il suo essere omosessuale come un ulteriore aggravante, segnale questo di come l’attenzione e la vigilanza sull’omosessualità femminile fosse decisa e costante.
La sperimentazione medica
Proprio mentre le donne non hanno più il ciclo mestruale a causa del freddo, della scarsa alimentazione e dello stress, in numerosi luoghi, ma soprattutto a Ravensbrück e ad Auschwitz medici e scienziati fanno oggetto non solo di studio, ma anche di sperimentazione dell’apparato genitale delle deportate. Si prelevano campioni di tessuto dell’utero per studiare il modo di diagnosticare tempestivamente i tumori, si compiono numerose operazioni di sterilizzazione delle ovaie, attraverso l’uso dei raggi X, si pratica l’uso dell’isterectomia o s’inietta nell’utero un liquido, nitrato d’argento o formalina, a detta dei medici sterilizzante. Il 7 giugno 1943 il prof. Clauberg scriverà a Himmler che uno dei metodi adottati al blocco 10 di Auschwitz per la sterilizzazione, consiste nel praticare “...una sola iniezione alla bocca dell’utero [che] può essere applicata in sede di normale esame ginecologico...”. Sappiamo che questo metodo fu senz’altro usato in altri campi di concentramento, sicuramente al Lager femminile di Ravensbrück. La sterilizzazione è un tipo d’intervento che coinvolge soprattutto le donne non ebree per quest’ultime era infatti prevista, più o meno a breve termine, la brutale eliminazione fisica. Resta tuttavia difficile stabilire quante donne furono coinvolte e a quale gruppo etnico o nazionale esse prevalentemente appartenessero. In stato di cattività, dovuto alle gravi privazioni materiali, il mestruo tende spontaneamente a bloccarsi, è quindi difficile poter stabilire se ci furono altre cause (in questo caso la sterilizzazione), a determinare la scomparsa del ciclo che dura anche dopo la fine della guerra.
A Ravensbrück esisteva una particolare categoria di deportate su cui venivano compiute operazioni chirurgiche e esperimenti, erano detenute nel lager “Kroliki”, che in polacco vuol dire cavie umane, le francesi le chiamavano con somma pietà “le lapins”, la loro baracca era designata con la sigla NN (Nacht und Nebel, notte e nebbia), sigla che stava ad indicare un decreto che rinviava a particolari procedimenti e forme di liquidazione. Era proprio in base al decreto stesso e quindi alla necessità di far sparire delle donne “scomode”, come politiche soprattutto, che queste cavie umane venivano scelte, erano destinate fin dal loro ingresso nel campo ad essere eliminate senza lasciare alcuna traccia, ma prima di farlo si pensò di utilizzarle in qualche modo, un modo, quello della sperimentazione medica, che garantiva il loro isolamento dalle altre deportate. Mediamente ogni giorno morivano trecento donne, di dissenteria, tubercolosi, febbre tifoidea e infiammazione dei tessuti connettivi, tutte al campo, sapendo comunque a quale fine erano destinate le NN, facevano di tutto per aiutarle, per poter dare a quelle povere donne, perché per le compagne del campo erano ancora donne, un briciolo di umanità ancora. Le NN dovevano scomparire dalla faccia della terra senza lasciare nessuna traccia, quindi non dovevano lavorare, altrimenti sarebbero potute venire in contatto con le altre detenute, la funzione più adatta a loro era quindi quella di cavie umane. Stanislawa Czajkowsa-Bafia era una di loro. E si è salvata. Le prime notizie riguardanti l’utilizzo di cavie umane nel campo di Ravensbrück vennero trasmesse dalla BBC, queste notizie riportavano addirittura nomi di donne appartenenti al gruppo delle NN e questo fu possibile grazie a due polacche che riuscirono a far avere dei messaggi all’organizzazione clandestina in Polonia. Le detenute potevano mandare a casa una volta al mese una cartolina, ovviamente questa doveva passare un’accurata cesura, ma le donne polacche appartenenti alla resistenza sapevano quali metodi usare per non essere scoperte, così anche gli uomini che ricevettero le loro notizie per decifrarle: utilizzando succo di cipolla o urina scrissero fra le righe le orribili notizie.
Per fare da cavie furono scelte, oltre alle NN, ragazze giovani e forti, dopo la selezione vennero visitate in modo strano, guardarono mani e gambe.
«Dopo l’operazione venne Himmler in persona. Eravamo legate al tavolo e le nostre gambe non erano fasciate, in modo che si vedevano le ferite. Coprirono le nostre facce con coperte. […] Una ragazza che parlava correttamente il tedesco gridò… è contro il diritto internazionale».[36]
La spiegazione ad un simile comportamento stava nel fatto che il blocco aveva violato alcune disposizioni e che quindi le donne che lo abitavano dovevano essere punite, dieci di loro furono prese e gettate in prigione, lì vennero operate e per punirle maggiormente le loro gambe non furono lavate prima dell’intervento. Il 9 dicembre 1946 si apriva il processo di Norimberga ai medici nazisti, durante il quale gli imputati in questione spiegarono che gli interventi chirurgici avevano lo scopo di testare batteri producenti pus, le cavie per questo furono infettate con lo stafilococco aureo, con i batteri del tetano e della cancrena gassosa. Dalle gambe sane delle cavie sono prelevate porzioni di muscolo, di osso, di nervi e nelle ferite sono iniettate culture di bacilli diversi per ricreare condizioni di infezione simili a quelle che si verificano in caso di incidenti o di ferite da arma da fuoco. Venivano eseguite fratture, impianti e raschiamenti. Le donne subivano interventi di raschiamento delle ossa, con la conseguenza che le gambe si storpiarono, e dovettero passare molto tempo ingessate, per poi avere comunque le gambe straziate. Le operate restarono al Revier per mesi, fra sofferenze atroci, e sottoposte a cure con medicinali diversi, spesso inutili, a volte mortali, oggetto di interesse e di curiosità “scientifica” da parte dei loro torturatori. Quando curiosità e interesse finiscono, le poche sopravvissute, così come si trovano, vengono dimesse e sistemate al blocco 32. Nelle cliniche venivano curati gli uomini delle SS con trapianti d’ossa di quelle donatrici sfortunate. Gli interventi erano traumatici e la convalescenza talvolta era ancora peggio:
«Mi hanno ingessato le gambe, tutte e due. Non potevo più muovermi… Mi sono svegliata nella stanza delle pazze. C’era una stanza in cui finestre e porte erano sempre sprangate… Queste malate mentali venivano operate alla colonna vertebrale, amputavano loro le gambe. Subito dopo le liquidavano.»[37]
La tragedia delle lapins era conosciuta nel campo di Ravensbrück: un crimine come questo, anche all’inizio, al momento degli esperimenti, non può passare inosservato, specie alle dottoresse prigioniere, alle infermiere, alle compagne che le hanno viste trasferire in Revier e non più tornare, ma diventa di pubblico dominio dal momento che sono inviate al blocco 32. Le politiche del campo si preoccupano di diffondere la notizia e di mettere in guardia le nuove arrivate dal pericolo di farsi curare al Revier, dove è sempre possibile essere usate come cavie. Le impiegate degli uffici, oltre alle documentazione sugli arrivi dei trasporti al campo, i decessi e le nascite, hanno salvato le stesse lapins, scambiando il loro numero di matricola, segnato nel gruppo delle NN, con quello di altre deportate decedute, scampandole così dalla fucilazione; queste donne sono inoltre riuscite a far trapelare all’esterno del campo notizie precise sulle selezioni e sugli esperimenti chirurgici, sono riuscite a sottrarre parte della documentazione su di essi, sullo Jugendlager, sui trasporti neri, che le SS hanno tentato di far sparire incendiando gli uffici e gli archivi, la sera prima dell’evacuazione.
Settimia Spizzichino, unica superstite della razzia degli ebrei di Roma del 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, dopo qualche tempo passato al campo cede alla richiesta della sorella di essere trasferita in infermeria, Settimia è ancora sana, ed è per questo che viene portata ad Auschwitz I, nel Blocco degli esperimenti. Le vengono iniettate il tifo, la scabbia ed una dozzina d’altre malattie, per poi provare i medicinali conseguenti. Settimia ricorda come il giorno del compleanno dell’infermiera polacca che si occupava del reparto degli esperimenti, decise di farsi trovare in piedi, per fare una sorpresa alle compagne:
«Pian piano mi alzai dal letto e sorreggendomi con la sedia mi trascinai fino al lavandino. Mi aggrappai al bordo con tutte e due le mani, perché la testa mi girava. Alzando gli occhi vidi una sconosciuta, uno scheletro sparuto coperto di piaghe. Pensai: “Dio, com’è ridotta questa!” E portai le mani al viso. La sconosciuta fece lo stesso gesto. Allora capii con orrore che stavo guardando la mia immagine allo specchio. Non mi ero specchiata da quando avevo lasciato la mia casa. Dio, quanto piansi! Eppure ce la feci. Quando smisero di iniettarmi microbi, riuscii a rimettermi e a camminare»[38].
Fra le donne che subirono interventi del genere molte non si sono riprese, hanno ferite inguaribili, sono storpiate e non possono muoversi normalmente. Alcune soffrono di nevrosi, e molte hanno disturbi mentali e psichici.
Oltre a donne e bambini anche molti uomini nei campi furono scelti per sperimentazioni mediche, l’assillo era di trovare una cura efficace per sterilizzare tutti quelli di razza inferiore. La situazione maschile nel campo non era tuttavia molto diversa da quella delle donne, ricevevano gli stesi trattamenti all’arrivo, gli stesso indumenti e le stesse calzature, la stessa razione di cibo, le stesse punizioni. A differenza delle donne però gli uomini morirono in maggior numero, non conta quindi il fatto di avere un fisico più forte, la differenza nel numero dei deceduti sta nel fatto che l’uomo non riusciva a difendersi come la donna: non ha alcun ingegno particolare per proteggersi dal freddo, non pensa a mantenersi umano e dignitoso, anzi, la sua ricerca spasmodica per il cibo, lo porta ad una tale avvilimento e abbrutimento che il declino per lui si fa sempre più vicino. La donna sopporta meglio la fame, e con parti del suo cibo ottiene il modo per lavarsi, per sistemarsi, l’uomo non fa nulla di questo, la sua sola preoccupazione è il cibo. Ma forse l’aspetto più importante è costituito dal fatto che la donna si aggrappa con speranza all’ultimo filo della sua vita, spera di tornare per qualcuno, per i genitori anziani, per i figli piccoli che l’aspettano, e adempiendo alle regole del Lager con la maggiore resistenza possibile, si occupa anche delle compagne, si cura di chi sta male; l’uomo invece diventa dopo poco tempo un essere singolo in mezzo alla moltitudine, persi i familiari o i compagni conosciuti fatica a creare una sorta di nuova famiglia nel campo, come invece fanno le donne, scheletri ambulanti anche loro, piagati e sofferenti, riescono a cancellare molto spesso anche l’ultimo barlume di dignità e di forza dai loro occhi. Le donne, invece, continuano a lottare contro tutto e, con nel caso del campo per famiglie di Terezin, continuano ad occuparsi degli uomini.
[1] E. Bruck, Le mie esperienze con le donne, in La deportazione femminile nei lager nazisti, op.cit., p.69.
[2] Marco Coslovich, Racconti dal lager,op. cit..
[3] E. Bruck, Le mie esperienze con le donne, in La deportazione femminile nei lager nazisti, op. cit., p.69.
[4]Testimonianza di Bianca Paganini Mori , in L. Beccaria Rolfi, A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, op. cit., p.164.
[5] Lidia Rosenfeld Vago, Un anno nel buco nero del nostro pianeta terra. Un racconto personale. In Donne nell’Olocausto, a c. di, Dalia Ofer e Lenore J. Weitzman, Firenze, Le Lettere, 1998, p. 289.
[6] Rapa Maria Suklje, le donne slovene nei campi di concentramento nazisti, in La deportazione femminile nei lager nazisti, op. cit., p. 99.
[7] G. Fiorentino Tedeschi, Caratteri specifici della deportazione femminile, in La deportazione femminile nei lager nazisti, op. cit., p.29.
[8] Lidia Beccaria Rolfi, Le donne di Ravensbrück, op. cit. pp. 25-37.
[9] E. Bruck, Le mie esperienze con le donne, in La deportazione femminile nei lager nazisti, op. cit.., p.68.
[10] Testimonianza di Bianca Paganini Mori , in L. Beccaria Rolfi, A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, op. cit., p.189.
[11] E. Bruck, Le mie esperienze con le donne, in La deportazione femminile nei lager nazisti, op. cit., p.68.
[12] Rosane: Terre des Cendres, 1946, in Christian Bernadac, Il lager delle donne, Ginevra, Ferni, 1977, p. 82-83.
[13] Testimonianza di J. Brun, in Christian Bernadac, Il lager delle donne, op. cit., p.117.
[14] Lidia Beccaria Rolfi, Le donne di Ravensbrück, op. cit. pp. 25-37.
[15] Edith Bruck, Le mie esperienze con le donne, in La deportazione femminile nei Lager nazisti, op. cit. p.67.
[16] Testimonianza di Bianca Paganini Mori , in L. Beccaria Rolfi, A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, op. cit., p. 189.
[17] Lidia Beccaria Rolfi, Donne di Ravensbrück, op. cit. p.41.
[18] Marco Coslovich, Racconti dal Lager. Testimonianze dei sopravvissuti ai campi di concentramento tedeschi,
[19] G. Fiorentino Tedeschi, Caratteri specifici della deportazione femminile, in La deportazione femminile nei lager nazisti, op. cit., p. 29.
[20] Ivi., p. 30.
[21] Marie-José Chombart de Lauwe, Testimonianza sul Kinderzimmer, la camera dei bambini, in La deportazione femminile nei lager nazisti, op. cit., p. 79.
[22] Ilona, Karmel, An Estate of Memory, Boston, Houghton Mifflin, 1969.
[23] Cfr. Dina Wardi, Le candele della memoria, Firenze, Sansoni, 1993.
[24] Lidia Rosenfeld Vago, Un anno nel buco nero…, in Donne nell’Olocausto, op.cit., p.295.
[25] Cfr. Silvia Vegetti Finzi, Parole e silenzi nel rapporto madre-bambina, in Centro documentazione donna di Firenze (a cura di), Verso il luogo delle origini, Milano, La Tartaruga, 1992.
[26] Anna Maria Bruzzone, Madri e figlie, in La deportazione femminile nei lager nazisti, op. cit., p. 115.
[27] Cynthia Ozick, Lo scialle, Milano, Garzanti, 1990.
[28] Cfr. G. Grau, (a cura di), Hidden Holocaust, trad. ingl. di P. Camiller, Cassell, New York, 1995.
[29] Gabriella Romano a “Immaginaria” di Delia Vaccarello - L'Unita'5 marzo 2002.
[30] Ibidem.
[31] Ibidem.
[32] Ibidem.
[33] Ibidem.
[34] Paola Lupo, Lo specchio incrinato, Venezia, Marsilio, 1998, p. 12-14.
[35] Luce D’Eramo, Deviazione, Mondadori, Milano 1979, p. 256.
[36] Stanislawa Czajkowska-Bafia, Notte e nebbia, in La deportazione femminile nei lager nazisti, op. cit., p. 172.
[37] Stanislawa Czajkowska-Bafia, Notte e nebbia, in La deportazione femminile nei lager nazisti, op. cit., p. 173.
[38] Settimia Spizzichino, Gli anni rubati, op. cit., p. 37.