Furono molte, purtroppo, le donne italiane deportate nei campi di sterminio nazisti: circa 2.750. In questo contesto cercheremo di analizzare la situazione di queste donne deportate, deportate per fattori politici, sociali, ma anche razziali, come nel caso di donne ebree, parlando delle loro condizioni al momento dell’arresto, del trasporto, della detenzione nel campo con le atrocità viste e vissute, del loro rientro a casa ad una vita che cerca d’essere normale. I documenti relativi alla deportazione femminile non sono purtroppo ampi come quelli scritti da uomini, ma per la sensibilità e l’interesse mostrato nel raccontare le loro vicissitudini, le poche donne che hanno testimoniato il dramma dei campi di concentramento hanno saputo rendere nel migliore dei modi la loro esperienza rendendola un valido insegnamento di vita e soprattutto di solidarietà squisitamente femminile.
Le giovani donne deportate per motivi politici potremmo dire che sono di due tipi, quelle cresciute in un ambiente prettamente antifascista, e quelle invece che hanno avuto una chiara visione della politica italiana solo allo scoppio della guerra, e hanno quindi rifiutato gli insegnamenti fascisti fino ad allora ricevuti, soprattutto dalle istituzioni scolastiche. Vorrei riportare l’esempio di Lidia Beccaria Rolfi, nata in una famiglia di estrazione contadina, ultima di cinque figli, avrà un’infanzia serena, senza condizionamenti familiari, la prima lettura che imparerà a scuola è Duce, ti amo, sarà “imbevuta di educazione fascista fino alla punta dei capelli”. Quando scoppia la guerra vede i suoi fratelli partire; la guerra fa maturare molto in fretta e dalla comprensione del dramma che si sta vivendo al diventare collaboratrice dei partigiani il passo è breve, e Lidia si troverà poi deportata a Ravensbrück dopo qualche mese di carcere.
La donna italiana fu la linfa della Resistenza, senza la donna essa non sarebbe potuta esistere. È alle donne che i partigiani dovettero tutto. Non potevano certo ricevere aiuto dagli uomini poiché non ce n’erano più, erano le donne ad aiutare, che portavano da mangiare, offrivano le proprie case come protezione, li curavano, li avvisavano in caso di pericolo, li sottraevano alla cattura. Il contributo della donna si può perciò definire analogo a quello dell’uomo, se non addirittura maggiore in alcune circostanze, e talvolta gli uomini si sono dimenticati che alle loro spalle c’era tutto un mondo di donne, che lavoravano accanto a loro e per loro e che pagarono allo stesso modo. Con l’ingresso dell’Italia in guerra, infatti, e soprattutto dopo l’occupazione tedesca, le donne cominciarono a muoversi come poterono per partecipare attivamente al conflitto, dando aiuto ai militari sbandati, offrendo loro cibo, un riparo, abiti borghesi, e dando soprattutto modo alle formazioni partigiane di restare in contatto con i centri abitati grazie al ruolo di staffetta, uno dei più importanti ingranaggi della guerriglia partigiana.
La maggior parte delle internate italiane a Ravensbrück erano partigiane o comunque militavano nelle file di qualche associazione, famiglie intere si ingegnano per compiere atti di sabotaggio all’esercito tedesco occupante, si dedicano alla propaganda, basta pensare, oltre alle donne partigiane vere e proprie del nord Italia, alle giovanissime che fecero parte dei gruppi romani di resistenza, lo stesso attentato di via rasella, che costò la vita a più di trecento uomini alle Fosse Ardeatine, vedeva come protagoniste delle donne. Il contributo quindi delle azioni compiute dalle donne durante la resistenza è, come già detto estremamente importante, soprattutto lo è il fatto che, solo dopo molti anni, si è riconosciuto a queste “politiche” i loro reali privilegi, sebbene solo simbolici. La maggior parte delle testimonianze riportate in questo contesto vengono dalle memorie di donne “politiche”, che arrivano dunque nei campi con una vera etichetta. Il fatto più angoscioso che esse raccontano riguarda il loro essere italiane: per quanto siano delle politiche e indossino anche loro il triangolo rosso, le altre internate, francesi e greche soprattutto, non portano loro rispetto. Sono delle politiche, è vero, ma vengono pur sempre da quel paese alleato con la Germania, sono le donne di Mussolini, e ci vorrà molto tempo, solo alle più ostinate, per far capire che se loro sono lì, è perché andavano contro il fascismo. Di esempi e di testimonianze da fare ce ne sono moltissime, riporto l’esperienza di Ondina Peteani, internata ad Auschwitz come politica:
«Nella primavera del ‘43, con una compagna, spesso venivamo a Trieste a prendere dei giovani per portarli in montagna. Inoltre facevamo volantinaggio: il primo maggio distribuivamo volantini con la frase: “Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Avevamo anche un timbro: Partito Comunista Italiano, Comitato del Litorale di Trieste. A Ronchi dei Legionari recitavamo la parte di un gruppo di ragazze un po’ scemotte che ridevano e scherzavano e così giravamo per le strade e alla vigilia del primo maggio abbiamo timbrato tutti i muri del paese. Conoscevamo tutto il paese e andavamo a buttare i volantini in alcuni cortili dei caseggiati più grandi. E poi abbiamo cominciato a raccogliere materiale per i partigiani in montagna: da mangiare, medicinali, carta, tutto quello che si poteva, anche qualche arma. Ma in quel periodo sono stata utilizzata soprattutto per i collegamenti tra Ronchi e Trieste. Comunque per la prima volta sentivo parlare in maniera molto diversa della condizione della donna. Noi avevamo la “biblioteca delle signorine”, c'erano dei romanzetti che leggevamo. Non erano grandi cose, ma noi le discutevamo e i compagni mi avevano dato dei libri diversi da leggere, Il tallone di ferro e La madre di Gorki ad esempio [...].»
In Italia, come già detto, alla fine della guerra a differenza di altri paesi, la memoria non fu dominata dalle vittime del conflitto, le internate politiche nei lager nazisti e le partigiane, non furono messe in evidenza né prese in minima considerazione. La deportazione e la Resistenza femminile assumono lo stesso carattere in merito all’opinione pubblica, sono avvenimenti che, proprio perché riguardanti la sfera della donna, non hanno acquisito quell’autorevolezza tale da renderla il luogo incontestabile del riconoscimento nazionale.
Ma cerchiamo di far luce sul motivo per cui si sono verificate alcune cose, i motivi delle scelte fatte da quelle donne, le cause, i loro ruoli. In un ambiente imbevuto di dottrina fascista si manifesta nelle giovani italiane una sorta di malessere generazionale, un malessere dovuto alla forte modernizzazione degli anni Trenta, al fascismo imperante in ogni aspetto della vita quotidiana e della cultura, a uno stato di disagio dovuto alla posizione sociale talvolta precaria, soprattutto quest’ultimo fattore emerge laddove la povertà e l’isolamento fanno da padroni. In Italia prima e durante la guerra le differenze si mantengono soprattutto sul piano politico, questo divide le donne italiane in due fronti opposti: le fasciste, una minor parte, e le partigiane, le resistenti, le politiche. Sul piano della Resistenza questo malessere può essere riassunto dall’esperienza, simbolo come molte altre, di Iris Versari: una giovane di Forlì che venne impiccata nel 1944 per appartenenza a un gruppo partigiano. Iris proveniva da una povera famiglia di campagna, dopo la terza elementare fu mandata a servizio in diverse città, la resistenza apparve offrirle un’arma di riscatto per cambiare. La politica, la scelta di partecipare alla Resistenza sono una ribellione all’orrore. Il significato che queste donne danno alla resistenza è quello di combattere per eliminare la violenza e la sopraffazione che vengono dal fascismo. Si tratta della “difesa della vita e della sua dignità, è un agire non in obbedienza a regole apprese o innate, quanto in risposta a una domanda tutta interna: se, commettendo certi atti o rifiutandone altri, si potesse restare in pace con se stessi” è dunque una questione di responsabilità personale di fronte al sistema totalitario che istiga e presuppone l’irresponsabilità dei propri atti, il silenzio dell’omertà e la totale passività di fronte a ciò che si ritiene ingiusto.
Alcuni, fra cui ricordiamo Anna Bravo, hanno insistito sul fatto che le motivazioni che hanno spinto le donne a scegliere di partecipare alla Resistenza sono da collocarsi nel “Maternage” quale orizzonte culturale. Tuttavia è questa una concezione inadeguata se la si intende come valorizzazione dell’idea della maternità. Questa definizione riguarda più che altro il senso della giustizia nell’accezione di “donna giusta”, termine usato in Israele per definire coloro che salvarono la vita ad ebrei. Costituisce comunque un gesto di disobbedienza, quindi implica un processo di autoriflessione che conduce ad una scelta, di cui ha riportato numerosi esempi Pavone. In merito a questa situazione femminile una testimonianza esauriente è quella di Vittoria Gandolfi: «Ero stata sempre molto repressa: il collegio, la famiglia, le zie, la mamma, i cugini più vecchi di me…, sempre questa atmosfera di repressione e la resistenza è stata per me proprio come una liberazione, come il ritrovare me stessa, una scelta di vita, direi, piena per me.» le donne che entrano nei gruppi partigiani scoprono nuovi valori, i rapporti paritari fra donne e uomini sono importantissimi per un inizio di emancipazione, avendo nuovi compiti e nuovi doveri giungono attraverso di essi al diritto di indipendenza morale e materiale, «attraverso il lavoro e la lotta acquisteranno capacità ed esperienza. Abbiamo nelle nostre file tante donne intelligenti, tante donne capaci, basterà metterle in condizione di poter esplicare le loro attitudini.»
Ma quali sono i ruoli della donna partigiana? Vedremo più avanti come buona parte delle politiche finite nei campi di concentramento svolgessero attività illecite particolari: dalla stampa e diffusione di volantini, alla protezione in casa di militari scappati, alla distribuzione ancora di cibo, vestiti e armi. Spesso intere famiglie collaborano all’interno della propria casa, del proprio quartiere, spesso sono proprio dei vicini troppo impauriti dall’occupante nazista a rivelare l’identità dei resistenti, i loro traffici e a farli arrestare. Consideriamo una figura importantissima della Resistenza: la staffetta. In quasi tutte le memorie delle staffette si parla di situazioni pericolose scampate recitando un ruolo, ai posti di blocco le partigiane cercavano di confondersi con le altre donne alla ricerca di cibo, ma le loro borse nascondevano ben altre cose, materiale di propaganda antifascista e armi, facendo ricorso al sentimentalismo e a gravidanze simulate, agendo sole o in coppia e puntando soprattutto sul loro potere seduttivo trovandosi di fronte al nemico. L’attività partigiana portava queste donne a considerare la propria femminilità come un bene prezioso da manipolare ed erano per questo spinte dalla situazione a realizzare nuove immagini di sé. Sotto l’aspetto femminile si celavano dunque qualità speciali: lucidità e istinto, coraggio nell’emergenza e capacità di mediazione e, nonostante la cattiva reputazione che comportava una vita fuori casa, non desistettero dalle loro intenzioni.
Dei “militari” armati solo della loro bicicletta, immagini inedite di donne giovani, spavalde, in atteggiamento di sfida, pronte a rimuovere ogni gerarchia fra i sessi. Diverse testimonianze mettono in evidenza come le donne sapessero usare consapevolmente la propria femminilità e ricoprire i ruoli maschili e femminili ma anche come vi fosse una forte attrazione per l’universo maschile. Le partigiane delle bande somigliano per stile più agli uomini, i capelli corti, la divisa militare, il fucile imbracciato; alcune si trovarono anche nella necessità di sparare. L’abito è in relazione con il corpo, di cui condiziona posture e gesti, ma per le partigiane non era solo questione di comodità, nelle brigate l’abito diventò sinonimo di asessualità, per facilitare la convivenza in una promiscuità soprattutto maschile e sentire ancora più viva la fratellanza nella lotta. Alle partigiane, come già detto, il riconoscimento alla fine della guerra non arriva. Bisognava tornare alla normalità evitando troppi clamori, evitando che si potesse continuare un processo di rinnovamento ormai già avanzato. Ma per molte donne fu difficile uscire dalla resistenza per tornare alla vita”, molte, infatti, continuarono a coltivare la passione politica. Dopo la guerra tornano spesso sui luoghi che le hanno viste combattere, tornano soprattutto deluse di quel poco che hanno ottenuto con il loro grande sforzo, il ritorno alla normalità con la fine dell’occupazione e del conflitto comportava che le donne “tornassero al loro ruolo”, smorzando di colpo quel processo di emancipazione femminile che si era venuto formando. Invitate, non con molta libertà di scelta a dire il vero, a rientrare nei loro panni di mogli, madri e figlie, restarono in silenzio per molto tempo, all’inizio solo le partigiane coinvolte in processi per fatti avvenuti subito dopo la liberazione hanno potuto ricostruire il proprio passato facendolo conoscere agli altri. Tuttavia per molte di loro un’arma di riscatto è stata poter scrivere, garantendosi così un’uscita all’altezza della Resistenza. Le donne si sono sentite in diritto e in dovere di scrivere: il partigianato ha avuto per loro la forza scatenante che avevano avuto per gli uomini delle classi popolari la Prima guerra mondiale o l’emigrazione.
Gli scritti femminili nati dalla Resistenza per la loro consistenza e per l’autoconsapevolezza che vi si esprime, vanno collocati nell’ambito delle scritture private “per la fortissima carica immaginativa che anima il loro narrare dilatano e problematizzano i quadri storico-letterari, vistosamente segnati dalla loro assenza”. Nel passaggio dalla vita troppo piena del tempo di guerra a una vita che, lentamente per alcune, di colpo per altre, si è svuotata, è nata la necessità di scrivere; talvolta alla base di questa necessità c’è stato un lutto, una malattia, in altri casi scrivere rappresenta una forma di ribellione, o finalmente la capacità di urlare al mondo quanto era stato patito.