Porte chiuse Onnigrafo Magazine

Porte chiuse

Io mi rassegno. È stata dura, ma ce l’ho fatta. Rassegnazione è la destinazione finale di un lungo percorso. Mi trovavo in un salone ampio, immenso. Attorno a me, decine di porte. C’erano porte ovunque. Cominciai ad avvicinarmi alla prima. Chiusa, niente da fare. Feci lo stesso con la seconda, poco più in là. Non si apriva. Lo stesso per la terza, la quarta, e così via. Continuavo, in preda all’ansia, a perdere un’assurda battaglia con delle maniglie d’ottone.

A un certo punto, stanco e sconsolato, avvertii il bisogno di fermarmi. Andai al centro della sala, con la ferma intenzione di sedermi a terra, con le braccia conserte. Fu lì che tutto cambiò. Nel bel mezzo di quel luogo, sopra un pavimento lucido, e sotto un lampadario di vetro pregiato, vidi cosa mi aspettava: una tavola, ricca delle migliori prelibatezze.

Vi era ogni genere di leccornia. Cominciai a mangiare, senza che nulla, all’interno del mio corpo, mi suggerisse di farlo. Salmone affumicato, caviale, calamari, carpaccio e ostriche su un letto di ghiaccio. A me nemmeno piacevano le ostriche, fino a quel momento. Un sorso di bianco per digerire, e poi ricominciai.

Ricordo che mi chiesi perché lo stessi facendo. Era come se la voglia matta, che avevo avuto per superare una qualsiasi delle porte, si fosse impadronita della tavola. Non mi interessava più varcare una soglia, mi interessava sentirmi appagato.

Mischiai il pesce alla carne. Gamberetti in salsa divisero lo spazio del mio esofago con bocconcini di pollo, tartare di manzo, qualche fetta di pane con prosciutto. E il bianco divenne il rosso, un ottimo rosso. Non badavo a nulla, se non a inghiottire. All’inizio, ricordo di essermi preoccupato per la mia improvvisa voracità, poi non ci feci più caso.

Assaporando i gusti, rivedevo la mia vita. Il patè mi fece ritornare a quella volta in cui presi un ceffone a cinque dita da mia madre, per aver ridotto la mia sedia a un porcile. Una fetta d’anguria mi riportò alla mente mia sorella: Sara mi aveva detto che, ingoiando i semi neri, sarei morto. Ovviamente, io l’avevo fatto. Trascorsi una mezz’ora nel panico più totale, consolato e salvato poi da mio padre.

Mangiare era stata la risposta anche al mio primo quattro in pagella, alle superiori. Latino, maledetto latino! Ricordai anche il due di picche di Carlotta. Le avevo confezionato un tema di italiano con i fiocchi. Avevo pensato che il mio lavoro sarebbe stato ripagato, o avesse destato comunque una sorta di stima, da parte sua, nei miei confronti.

«Grazie Marco», mi aveva detto. «Sei un tesoro!»

Un sorriso accennato, nessun bacio, nemmeno sulla guancia. Era tornata dalle sue amiche, e io nel mio mondo, vale a dire un panino con la porchetta, con tanti morsi di frustrazione.

Frustrazione, già! Lei è venuta prima. Di Rassegnazione, si intende. Mi sentii frustrato anche a diciotto anni. Come, direte voi, è una bellissima età! Non per me, miei cari. A diciotto anni cominciai a ingrassare. Persi i primi capelli, a diciotto. Ricordo che un giorno pensai che il mio destino fosse quello di diventare ripugnante. Credevo che mi sarei svegliato un mattino, mezzo calvo, con la pancia a nascondere il mio… Già, fa sorridere… Fa sorridere…

Non credevo di dirvelo, ma anche quello è stato un problema. Ero ancora vergine. Pensavo che la mia vita fosse incompleta, dato che aspettavo invano la mia prima volta. Ci sarebbe stato un prima, e un dopo, mi dicevo. Lo spartiacque arrivò qualche anno più tardi, ma non vado fiero di quel ricordo.

Nel frattempo, avevo continuato a mangiare. Test all’università, respinto. E io mangiavo. La scomparsa di mia madre, e giù a mangiare! Al lavoro le stesse facce, e tanti spuntini! Amici? Sempre meno. Così al diavolo Carlotta, al diavolo i semini di Sara, al diavolo l’università, il cuoio capelluto, e anche la buon anima di mia madre, di cui ancora conservo il ricordo di uno schiaffo al patè di tonno! Al diavolo tutti, io mangio!

Ho trovato una mano che non mi schiaffeggia, ma mi accarezza: è Rassegnazione. Sì, perché con lei non devo scusarmi, a lei non devo portare i compiti a casa! Da lei non ricevo né sì, né no. E soprattutto lei non muore, lasciandomi solo!

Ora, non ricordo neppure perché vi abbia detto tutto questo. So solo che premere una maniglia, aprire una porta, e fare un passo in avanti mi è dannatamente difficile. Ciò che mi riesce bene è arrivare alla frutta, lasciando ancora un angolo vuoto per il dessert.

Io mi rassegno e, se volete scusarmi, mi è venuta fame.