Illustrazione realizzata da Alfonso Amarante
La nostra prima iniziativa letteraria ha coinciso con una data precisa in calendario: Halloween, o vigilia di Ognissanti, o Samahin, chiamiamola come vogliamo. Abbiamo chiesto ai nostri autori e anche a tutti i nostri lettori di regalarci un breve racconto a tema horror o creepy, e abbiamo dato un limite: solo cinquecento parole. Pochissime a mio avviso appena ho provato a scrivere un racconto, come si fa a spaventare qualcuno senza creare la giusta suspance? E invece ho dovuto ricredermi. Da lettrice di libri horror e appassionata di cinema di genere ho avuto il piacere di leggere racconti davvero interessanti, davvero inquietanti, niente splatter gratuito ma solo immagini d’effetto. Ancora grazie ai nostri autori che hanno arricchito il nostro “aspettando Halloween” con la giusta atmosfera. Dopo aver pubblicato la scorsa settimana il vincitore, con una illustrazione a lui dedicata, vi presentiamo tutti i nostri autori che si sono cimentati in questa piccola impresa. Buona lettura.
La direttrice, Natascia Norcia
Charles Blinsky di Giovanni Poli
C’è una cosa che, probabilmente, fa ancora più paura della morte, la pazzia, e Charles Blinsky era pazzo,
completamente pazzo, pazzo da legare.
Le strade della Vecchia Edimburgo, nel 1892, erano un dedalo di viottoli contorti, schiacciati tra malandate case di pietra, fumose e mal frequentate taverne, qualche rara bottega. La casa di Charles Blinsky era lì, in fondo al più tortuoso tra i carruggi, nel punto meno accessibile di quel labirinto che era il centro storico della città vecchia. L’atmosfera era sempre cupa e brumosa. O pioveva, una pioggia fine, persistente e malinconica, o, in alternativa, quando smetteva di piovere, si alzava la nebbia, a coprire tutto e tutti, come una pesante coperta invernale. La Vecchia Edimburgo, inquietante e misteriosa come lo erano molti degli abitanti che ci vivevano. Charles Blinsky era uno di questi. Tutti lo conoscevano, tutti lo evitavano. Le basse case, con il tetto di legno e di paglia, che circondavano la sua dimora erano ormai abbandonate da anni, nessuno voleva vivere lì, a due passi dal pazzo. Nemmeno i gatti o i cani randagi si aggiravano da quelle parti. Qualcuno diceva che era stato lo stesso Blinsky a farli sparire. Strani lamenti uscivano, di notte, dalle bocche di lupo delle sue maleodoranti cantine.
Dominika Jankowski era figlia di immigrati polacchi, arrivati in terra scozzese solo da poche settimane. Il Santa Kennera, cargo mercantile riorganizzato per il trasporto delle persone, sul quale avevano viaggiato, era ancora alla fonda nel porto di Leith, in attesa di poter ripartire con un nuovo carico di disperati. Era una ragazzina allegra e spensierata Dominika, con l’energia e la curiosità di tutte le tredicenni. Non parlava la lingua, non conosceva nessuno, non aveva dimestichezza con le strade, ma, nella minuscola cameretta che era la loro casa, mentre i suoi genitori erano fuori in cerca di un impiego, si annoiava. Era curiosa e intraprendente Dominika, e non sapeva che, in fondo a quel viottolo di sassi traballanti, viveva Charles Blinsky, il pazzo.
Prima di perdere completamente il lume della ragione, Blinsky faceva il macellaio. Era ancora tutto lì, nel laboratorio che, un tempo, era stata la sua bottega. I coltelli affilati. La mazza per le ossa. Il grosso tagliere di pino scozzese. I ganci per le carcasse. Era ancora tutto lì.
Dominika Jankowski, quella mattina di novembre, avrebbe fatto meglio, molto meglio, ad andare a giocare da qualche altra parte, ad esplorare qualche altro anfratto della città vecchia, ma, all'evidenza dei fatti, l’occhio della buona sorte doveva essere stanco, o forse troppo occupato, per potersi interessare anche di lei, in quel giorno di novembre.
Si dice che i genitori di Dominika non abbiano mai smesso di cercarla tra gli psichedelici viottoli della Vecchia Edimburgo; per loro, enorme, fortuna, mai ritrovarono quello, sgangherato ed abbandonato, che portava alla casa di Charles Blinsky, il pazzo.
Polvere cinerea di Valerio Venturi
L’uomo illuminò la lapide con la torcia del telefono.
Finalmente lo aveva trovato.
Un grosso cono di luce squarciò la notte. Nessuno lo guardava, era solo, lassù tra le colline che circondano il Lago di Piediluco.
Tornò a concentrarsi sulla lapide, mentre con una mano toglieva di mezzo polvere e terriccio.
Albio Furetti, era inciso con tremolanti lettere in stampatello. Poco più in basso, Marvin, guardò le date, e le confrontò con quelle che aveva riportato nei suoi appunti: 1895 – 1940. Era lui.
Con le braccia e le gambe gonfie d’eccitazione, si mise all’opera.
Spense la luce del telefono, e dallo zaino tirò fuori una grossa torcia marrone che posizionò a terra. La notte sparì definitivamente dal piccolo cimitero di campagna. Fece due passi indietro, e una volta recuperata la pala, iniziò a scavare spingendo la robusta lama di ferro nel terreno.
Due metri e mezzo dopo la vanga toccò la sommità del feretro. Ci aveva messo poco più di trenta minuti. Marvin fu lesto a togliere di mezzo la terra in eccesso, e solo allora si rese conto che la bara era, in realtà, una cassa di legno. Albio era stato seppellito in tutta fretta.
Abbatté l’estremità della pala sulla cassa finché non riuscì a sfondarla. Una nube grigiastra uscì dal buco. Del corpo, là dentro, non c’era più traccia. Era morto da ottant’anni e di lui restavano solo vestiti ammuffiti e cenere.
Eppure Albio era esattamente lì. La sua essenza viveva racchiusa dentro a quella polvere cinerea.
Marvin ne afferrò una manciata generosa con le mani, l’avvicinò al viso, poi la sniffò. Le narici si riempirono e il ragazzo cadde di lato in preda alle convulsioni. La sentiva gravare sul cervello. Le immagini arrivarono, come flash intermittenti.
Albio che scattava in piedi. Albio che prendeva un coltello. Albio che sbudellava a morte sua moglie e suo figlio. Lo vide uscire di casa e aggirarsi per il paese. Attendeva nell’ombra. Quel luogo era pieno di demoni pagani, lui li avrebbe tolti di mezzo. Vide una giovinetta con le zampe da caprone, portare a spasso il cane, la seguì, l’accoltellò fino a separare il busto dal corpo. Poi, stanco di aspettare, entrò furtivo nella casa del finto sacerdote, discepolo di Satana, non di Cristo.
L’attaccò mentre l’uomo era inginocchiato a pregare gli spiriti maligni. Maledetto! Non riuscirai a convertirci tutti! Io li libererò, la morte li purificherà.
La lama lo colpì in mezzo alle spalle e l’altro scattò in piedi. Albio venne raggiunto da una gomitata inaspettata e il sacerdote riuscì a uscire dalla casa, a urlare, prima di stramazzare a terra.
I paesani accorsero. Trovarono Albio intento a infierire sul cadavere del poveretto. Un colpo, due, tre! Il sangue zampillava dagli squarci. Quegli occhi non avevano più niente d’umano. Fermo!
Albio si lanciò contro di loro con il coltello. Lo fucilarono. Lo seppellirono. Provarono a dimenticarlo.
Marvin, ancora in estasi, continuava a godersi quelle atroci visioni, con la bava alla bocca e un sorriso nel cuore.
L'ultima prova di Giobbe di Francesco Lumine
Lui è qui. Mi ha trovato. Ho tentato, in tutti i modi, ma non ce l’ho fatta. Da quella notte maledetta tutto è cambiato. Avevo una famiglia, degli amici. Avevo soprattutto la mente libera, il pensiero di poter fare tutto quello che desideravo.
È solo un gioco, mi aveva detto lui, incontrato per caso in uno dei tanti siti ai quali venivo trascinato dal mio istinto macabro. Gli ero piaciuto subito. Mi ha chiamato Giobbe, non so perché. Aveva notato del coraggio in me, e io avevo ricambiato con dedizione. Una dedizione che presto si era trasformata in schiavitù.
Un taglio ai polsi. Manda foto. Un disegno di te che spaventi a morte un compagno. Un video, girato dal tuo stesso telefono, con la sua testa tra le tue mani, le grida ad implorarti di fermarti, e una ciocca di capelli come ricordo.
Io non sono mai stato violento, ma obbediente, terribilmente obbediente, quello sì. E lui è stato un maestro per me. Ha capito quanto vivo mi sentissi di fronte alle sfide. E le mie sfide preferite sono diventate le sue, le più pericolose che si possano chiedere a un ragazzo di tredici anni.
Sono arrivato al limite. Mi chiedeva di svegliarmi in piena notte, di vedere il suo materiale di tortura, sottomissione, morte. Io l’ho seguito, ma poi mi sono fermato. Non so, però, se ho fatto la scelta giusta. Perché lui sa chi sono, dove abito. Mi prenderà. Diverrò uno dei suoi filmati da inviare ad altre vittime.
Sento che sta per arrivare. La notte è perfetta: papà è fuori per lavoro, mamma dorme in camera. Niente ci può salvare. Io veglio da tre ore, ma non basterà, e quando sarà il momento di chiamare la polizia lui avrà già finito. I traditori vanno puniti, era una delle sue prime regole, e stanotte la imparerò a mie spese.
Un rumore. Falso allarme. Oddio, no! Proviene dalla soffitta. Con la torcia mi illumino il cammino. Chiudo a chiave la porta della camera di mamma, non si sa mai. Dal telefono nessuna notifica, nessun messaggio. A piedi nudi salgo le scale, la torcia in mano.
Un battito sordo. Un altro ancora. Ho portato con me un coltello, e sento che lo userò. Il telefono vibra: ci siamo. Dice che mi sta aspettando. È proprio lì.
Apro la botola, il coltello tra i denti, il cuore in gola. Con un balzo sono su, cerco di farmi luce, ma l’angolo della soffitta è già illuminato. Un pc acceso, una scrivania e una sedia, occupata da una sagoma. Non può essere!
«Papà?»
«Il tuo maestro, Giobbe.»
«Papà… sei tu? Non puoi essere stato tu!»
«Sono sempre stato io, piccolo. Ti ho fatto nascere per questo. Siamo arrivati alla resa dei conti. Tua madre dorme già del sonno eterno, ed ora… tocca a te!»
Gli alberi di Daniele Maranzano
Gli alberi si sono mossi verso di me.
«Mastro Craig, non penso sia una buona idea» e vorrei non averlo detto a voce così alta.
Il bastardo non si volta nemmeno. «Smettila di frignare» poi raschia la gola prima di sputare.
Ingoio un boccone di saliva. Sono al limitare del bosco e a stento ho fatto un passo avanti. Mantobianco è dietro di me che scalcia. Nitrisce. Diamine e se fa chiasso quella dannata bestia! Mia nonna diceva che un cavallo, certe cose, le sente prima. Le avverte di più. E il ronzino, da quando abbiamo messo piede in questo villaggio dimenticato da Dio, non è stato zitto un momento. Rabbrividisco. Non lo voglio sapere cos’è che lo spaventa. Anche perché ser Craig di Casa Brann procede senza preoccupazione alcuna.
E deve avermi letto nelle budella, perché si gira e mi fa cenno di muovere le chiappe.
«Allora, vuoi restare lì tutto il giorno?» bercia. Madre Santa, perché non la smette di urlare? La sua voce echeggia nel bosco.
«Arrivo, arrivo!» borbotto. Non avrei dovuto arruolarmi. Al diavolo la paga!
Sospiro. A testa bassa metto un piede davanti all’altro, ma non faccio certo la stupidaggine di guardare dritto a terra. Tengo le pupille ben fisse in avanti anche se non vorrei. D’altronde, se qualcosa dovesse sbucare dall’erbacce, io devo essere sicuro d’agire in tempo. E per agire intendo darmela a gambe.
Mi fermo. «Mastro Craig?» Sposto lo sguardo a destra e a manca. Non c’è. Come scomparso.
Sono i suoi abiti quelli? Non so come sia possibile, ma c’è un albero con addosso i vestiti del cavaliere. Lo avvicino adagio.
«Mastro Craig?» ma il mio urlo non riceve risposta.
La sua corazza è sparpagliata tutt’intorno. La sua spada incastrata in un ramo. Mi accingo a chiamarlo ancora, ma ci ripenso. La vecchia l’aveva detto che questo posto è maledetto. Ser Craig è stato preso. E io, se resto qui ancora per molto, sarò il prossimo! Devo andarmene.
Giro i tacchi. Impietrisco. Che ci fa una bambina nel bel mezzo della boscaglia?
Curvo in avanti e allungo una mano. «Sei tu Margareth?» chiedo. La piccola non si muove. «Non aver paura, voglio aiutarti» incalzo, poi accenno un sorriso. Non uno dei migliori.
La bambina muove il capo a lato. Lunghe ciocche bionde scendono senz’ordine fino ai bordi dell’abito sgualcito. Se è davvero la figlia del mugnaio, deve essere stata nel bosco a lungo. Troppo. Ma, almeno, ora che l’ho trovata posso filarmela in fretta.
«Andiamo via, forza» continuo con voce bassa e calma. «Prima che la strega ci raggiunga!»
La piccola alza la mano e indica qualcosa. Alle mie spalle?
Mi volto e, dietro un tronco, c'è un’ombra. Striscia ondeggiante verso di me.
Balzo all’indietro. O, almeno, ci provo. Che fine hanno fatto i miei piedi? Riesco a malapena a girare il viso.
La bambina mi sorride. «Il bosco domanda un sacrificio» cinguetta.
Ho la pelle che diventa corteccia. Lentamente risale. Mi costringe in una posa eterna. Sarò presto un albero.
Lobotomia di Carmela Loria
Il responsabile di questa piccola storia è una mano che canticchia.
C'era una volta...
Oh, scusate forse pensate che io abbia sbagliato l'articolo determinativo nell'incipit, no non è così. Ora mettetevi comodi indeterminatamente.
In un tempo imprecisato, su di un pianeta qualunque, tra case simili, con tristi tegole dritte su ordinari tetti, in una stanza insignificante, seduto ad un tavolo comune, c'era qualcuno che canticchiava. Tutto intorno era ombra e rumori sordi e l'unica cosa che poteva scorgersi nel cerchio di luce - che si apriva come un sinistro tuorlo albino su quella porzione di scrivania - era una mano.
E la mano canticchiava.
La- lallá - lallalalaá.
Era frenetica, si muoveva su e giù e poi di lato, sotto di lei un foglio sopra il quale segnava piccoli cerchi impazziti che seguivano la melodia di quella cantilena che si riversava come un'onda tra le stanze buie per poi scontrarsi con la sua fine e venire risucchiata al suo inizio e ricominciare.
Avete letto senza fiato?
La- lallá - lallalalaá
Ricominciava.
La mano era costretta a canticchiarla ancora e ancora mentre cercava di catturarla, ma sfuggiva di continuo e ricominciava il viaggio per fermarla sul foglio. In certi momenti pensava di averla afferrata. Tutto inutile. Eppure era convinta che (oh no non era, ma sì forse era proprio quella, Dio ecco che riprende daccapo).
La- lallá - lallalalaá.
La stessa comunione di suoni, le stesse dissonanze, lo stesso punto in cui interrompersi per poi (forse ci sono, se potessi ricordarmi una sola parola).
La- lallá - lallalalaá
Il tuorlo di luce col tempo si affievoliva, giunta l’oscurità tutto si sarebbe perduto, non lo avrebbe ricordato mai più fuori dalla luce.
Aveva fatto tutto quello che c'era da fare: una mattina si era svegliata, ricordava di essere attaccata a un corpo. Avevano fatto colazione, lei e quel corpo. Ricordava che dopo il caffè, sotto la cascata di acqua calda che scivolava giù veloce, aveva avuto inizio tutto. Era arrivata.
Dapprima sorda e lontana.
La- lallá - lallalalaá
Ricorrente.
Insistente.
Fissa.
La- lallá - lallalalaá
Non voleva andare via, prima erano passati solo una manciata di minuti poi ore, forse sono giorni oramai. Sapeva cosa fare: il problema era nella testa lo aveva capito, ma doveva fare qualcosa.
Sì, non poteva essere altrimenti, la mano doveva scavare, aprire un varco nel cervello per far uscire la risposta perché era lì: aveva provato con la lingua all'inizio, ma quando l’aveva tagliata via per leggerla non c'era scritto niente sulla sua punta.
Stupidi modi di dire, sono fasulli, fasulli!
Di nascosto dal corpo afferrò una matita, la infilò con precisa inclinazione nell'angolo dell'occhio.
Un solo colpo deciso. Doveva essere precisa. In fondo lei era una mano, sapeva cosa fare.
Toc.
Il corpo era rimasto lì. Un leggero sollievo.
Forse aveva funzionato. ForsLa- lallá - lallalalaá
Più forte, rimbalzava dappertutto.
Niente era perduto.
Doveva solo pulire quella bava che colava di continuo e ricominciare a provare.
C'erano i cerchietti. I cerchietti.
La- lallá – lallalalaá
Il ritorno di Miriam Palombi
Hai atteso lì dove le foglie morte creano un morbido giaciglio e l’odore di muschio selvatico solletica le narici. Nel punto in cui il bosco si infittisce e il sentiero è segnato solo da una quercia sbilenca.
Cerchi di alzarti, ma le gambe non ti reggono. Sei stato fermo troppo a lungo. Abbassi lo sguardo e cerchi di sbirciare tra le fessure, tra la trama lisa della stoffa.
Ti sfili il cappuccio. È la maschera che la mamma ha cucito per te. Ti ha aiutato a indossarla, fermandola attorno al collo con un fiocco ordinato, così che non potesse scivolare.
Ora, senza il cappuccio, puoi sentire l’aria gelida pizzicare il palato e la gola, penetrando nei polmoni.
Adesso ti accorgi del perché non riesci ad alzarti. È il nodo a cappio che ti stringe le caviglie a impedirti di muoverti. Lo allenti con le dita intirizzite.
La mamma non voleva che perdessi il sacco di iuta e così l’ha assicurato alle tue gambe. Se lo avessi smarrito tutti i bimbi avrebbero avuto i loro dolcetti tranne te.
Sciogli i nodi. Finalmente puoi alzarti e ripercorrere il sentiero fino al crocevia che ti riporterà a casa. Due occhi gialli sono apparsi nel buio e un grido acuto ha riempito il silenzio della notte. La civetta appollaiata su uno dei rami piega il capo di lato, un istante dopo fugge via spalancando le ali.
Devi sbrigarti, la mamma ti starà aspettando. Ma le gabbie di metallo che ti serrano le ginocchia gemono, le viti sono arrugginite e i legacci di cuoio logoro, che le tengono bloccate alle cosce, sono lenti. Le porti da sempre, tanto che la pelle intorno ai fori è dura e callosa. Devi camminare piano.
La mamma sa che sei lento a fare le cose. Dice sempre che non esiste in paese un altro bambino come te. Ti chiama «inetto». Non sai bene cosa significhi, ma deve essere una cosa bella; mamma è buona con te.
I tronchi degli alberi sono così vicini tra loro che solo pochi raggi di luna riescono a passare la fitta chioma. Il suolo accidentato è un tappeto di aghi di pino e muschio scivoloso, avanzi cercando di non inciampare. Ritrovi il sentiero e raggiungi il crocevia. Il bosco alle tue spalle sibila e sussurra.
Ecco la zucca illuminata, sei a casa. Vedi tre fiammelle accese. Sembrano crescere d’intensità mano a mano che ti avvicini.
Riconosci il sorriso sghembo di Jack O’Lantern. Tu e il giovane Jack delle leggende avete lo stesso nome, e quella è un po’ anche la tua festa.
Sali i gradini, le gambe rigide e le staffe che cigolano. È passato un anno esatto e la mamma sarà in pensiero.
Apri la porta. Il fuoco è acceso, la vedi di spalle, il collo nudo e i capelli raccolti sulla nuca. Ora la abbraccerai, la stringerai tanto forte da mozzarle il fiato.
«Mammina sono a casa…»
La fuga di Oriana Turus
Sto tremando. Ho freddo nonostante io stia correndo da più̀ di mezz’ora per sfuggire a quella terribile sensazione. Mi stanno inseguendo. Sento nelle viscere il terrore, sento i brividi percorrermi il collo e poi scendere lungo la spina dorsale. Non posso fermarmi o loro mi prenderanno.
Mi inoltro nel fitto bosco sperando che il buio mi accolga nel suo grembo, nascondendomi all’interno del suo abbraccio oscuro, le nuvole stanno coprendo un cielo già̀ sgombro di stelle. Non c’è luna, solo le tenebre intorno a me e il rumore dei miei passi sulla strada impiastricciata. Ristagni d'acqua rendono il mio passaggio tortuoso, mi rallentano.
Mi sto cagando sotto ma continuo a correre. Non posso fermarmi, non adesso. Inciampo in qualcosa che pare un ceppo, avverto un sapore metallico attraversarmi le labbra, sono ferito, sento il sangue lasciare la mia bocca e scorrermi sul mento. Un forte torpore al braccio mi impedisce di riprendere la fuga, non riesco a liberarmi. Merda.
Sento chiamare il mio nome. L’eco si avvicina sempre più̀ e io sono fermo, immobile. Paralizzato da un ceppo che si è incastrato
sulla mia caviglia e rimbalzando mi ha colpito la guancia, lanciandomi una sfida difficile e rendendomi quasi sicuramente un essere informe.
Non devo farmi trovare. Tento di spostarmi ma sento che ormai è troppo tardi. Una luce puntata sul mio viso indica la mia fine. Mi hanno trovato. Sono ufficialmente spacciato.
«Ecco dove ti eri cacciato. Ora torna a casa, la cena è appena iniziata»
Mia moglie e mia suocera mi hanno scoperto, ora mi toccherà̀ tornare a casa e passare la serata con loro. Sono a dieta, cazzo.
E mia suocera, che è napoletana, ha fatto le polpette.
Non aprire quella porta di Elisabetta de Michele
Quella porta scricchiolava producendo un suono che era pura tortura per l'orecchio umano,
ma a Gill questo non importava.
La porta era un antro verso il buio più fitto di sempre,
ma a Gill non importava.
La porta era il confine che nessuno mai avrebbe voluto oltrepassare,
ma anche questo a Gill non importava.
Da quando ne aveva varcata la soglia pochi giorni prima, non riusciva proprio a farne a meno: ogni notte,
nulla poteva dissuadere la sua voglia di ripetere il piacere e il tormento provato dall'altra parte di essa, la voglia di rivedere il lato ossessivo verso cui conduceva.
Al di là della soglia era come osservarsi di traverso, nel vero senso del termine; era come vedersi continuamente ed ossessivamente riflessi in due specchi angolari posti ai propri lati, destro e sinistro. Non so se vi è mai capitato di specchiarvi in questo modo, ma vi consiglio, se non troppo impressionabili, di provare a farlo, e con insistenza: è un'esperienza straordinariamente raccapricciante in cui sembra di scorgere la parte più oscura del proprio essere. È lì, tacita, che ti osserva, e tu finalmente la vedi, ti accorgi di lei.
Al di là della porta non ci si ferma però a questo: non soltanto si vede la propria parte oscura, ma si può vedere con i suoi occhi, si vede quello che lei vede e, soprattutto, ci si vede come lei ci vede.
Chi sono io? Quale? Cosa devo guardare? Come devo guardare? E come devo guardarmi? Gill sentiva queste domande scorrerle nella testa e nelle vene ogni volta che si trovava al di là di quella dannata porta, e ora le sente anche al di qua.
Vede innumerevoli occhi puntarle addosso: gli occhi di ciò che è, di ciò che è stata, di ciò che avrebbe potuto essere, di ciò che ha sempre negato di essere.
-Chi sei tu- sembrano domandarle tutte quelle improbabili se stesse. Nessuna risposta.
E come accadrebbe se in cielo ci fosse più di una stella polare, il marinaio ha perso la sua rotta; così Gill si è persa. Ha perso sé stessa, o forse, ne ha ritrovate molte di più.
Di sicuro noi abbiamo perso Gill. È rimasta al di là della porta.
Gill è pazza?! Pazza o no non importa, di sicuro non a lei.
Certamente però Gill è qui, almeno fisicamente, dalla nostra stessa parte dell'uscio; soltanto non è più in sé. È pronta a tutto pur di passare la soglia, e questa volta non vuole farlo da sola. Il suo scopo è portare chiunque alla perdizione, quella dell'io. Anche te, che ora ne sei a conoscenza.
Gill vuole per il tuo cielo le due stelle polari.
La sua missione è portarti al tuo sguardo di traverso.
Inutile non crederci.
Inutile nasconderti.
Gill ti troverà.
È pazza?! Non importa, o almeno non a lei. A te dovrebbe.
Non salvare Gill. Per lei è tardi. Salvati. Forse, se hai letto queste righe, sei ancora in tempo. O forse faresti bene a perderti.
Asylum di Natascia Norcia
Se c’era una cosa che Rebecca detestava era fare sempre la voce fuori dal coro, detestava sentirsi additare come diversa, ma così era: in un gruppo di giovani adulti lei era sempre troppo attenta, troppo posata, tropo scrupolosa.
Le uscite con gli amici erano sempre un sacrificio per lei, preferiva restare in camera sua a leggere arrotolata in una coperta che odorava di polvere, piuttosto che sentire le risate assordanti delle sue amiche o le battute idiote dei ragazzi.
Sua madre non faceva che dire che era una ragazza difficile.
Il 31 ottobre sembrava la serata perfetta per fare quella gita tanto programmata. Il vecchio ospedale psichiatrico era ormai incustodito da anni e il gusto di vedere cosa ci fosse rimasto dentro tormentava tutti i ragazzi della zona. Saranno stati almeno tre i gruppetti che quella sera si erano ritrovati sullo stesso cancello. Il silenzio spettrale non apparteneva certo all’occasione per tutto il caos che riuscivano a fare quei giovani anche sufficientemente riempiti di alcool e droghe.
Rebecca era stata obbligata da sua madre ad uscire, le aveva anche contestato l’abbigliamento così poco adatto alla serata e l’aveva aiutata a cambiarsi di corsa mettendo addosso un assurdo vestito di tela bianca, fin troppo leggero. Aveva freddo, si guardava le gambe violacee al vento gelido della sera.
Sua madre non faceva che dire che era una ragazza difficile.
Il cancello venne forzato e anche il portone si aprì facilmente. I giovani si spingevano lungo i corridoi vagamente illuminati dalla luce notturna. Nessuna sedia a rotelle abbandonata che gli veniva incontro, nessun balzo, nessuna luce o ombra. Solo file di vecchi scaffali pieni di polvere, stanze con letti vuoti e pareti sufficientemente pulite, nessun vetro rotto o rifiuto umano negli angoli.
Rebecca camminava insieme agli altri senza trovare nulla di divertente o di emozionante da questa squallida visita. C’erano solo stanze vuote e silenzio rotto dalla loro caotica confusione, nel grande salone c’erano solo panche di legno e tavoli, le risate si fecero sempre più alte, qualcuno gridava fingendo di aver visto qualcosa, si spintonava, allungava le mani.
Rebecca cercava di scostarsi da quelle mani avide che cercavano di toccarla, detestava certe attenzioni squallide, si portò le mani al ventre come a difendersi, poi alle orecchie per non sentire quel vociare fastidioso, intorno continuavano a urlare, a ridere in modo indecente; voleva la sua coperta polverosa, non voleva stare lì.
E le gambe gelide si scaldarono all’improvviso, bagnata fino alle calze di lana scese lungo le gambe magre, le scarpe inzuppate, Rebecca si accorse di non indossare nulla sotto quell’orribile vestito, si vergognava, si copriva anche se nulla si poteva vedere. Poi la presero, gridando qualcosa forte nelle sue orecchie che lei non capì, la misero su una sedia a rotelle e la legarono, mentre lei farfugliava qualcosa sbavando, e in pochi minuti si ritrovò finalmente avvolta dalla sua coperta polverosa, in una stanza bianca e morbida.
Sua madre non faceva che dire che era una ragazza difficile. Anche i medici dicevano la stessa cosa.