La porta che non voleva stare chiusa. Onnigrafo Magazine

La porta che non voleva stare chiusa.

Accadeva ogni volta quando si avvicinava Halloween.

Di solito, d’improvviso vedevo, o immaginavo di vedere, visi senza occhi e bocche uscire da quella porta. Vedevo mani che mi tiravano dentro oltre l'ingresso, verso l’ignoto e il buio. Dovevo scappare, respingerle, fare percorsi tortuosi per sfuggire loro e tentavo, a volte invano, a volte riuscendoci, di chiuderle dietro quella porta. E tentavo, infine, di chiuderla con una chiave. Il mattino dopo non riuscivo mai a ricordare se quella porta venisse chiusa davvero con la chiave…

Di giorno era una porta normalissima, dava sull’armadio a muro dove stavano appesi i vestiti. E me ne dimenticavo quasi per tutto l’anno, come fosse una cosa di poco conto e non angosciasse invece le mie notti prima di “quella” specifica.

La prima di esse, dieci, quindici giorni prima del trentuno ottobre di ogni anno, quando tutto era avvolto nel silenzio, quando pensavo di starmi addormentando, ecco che arrivava quel suono di gola, quel richiamo basso e gracchiante. Era improvviso o dovrei dire lo è stato?

Avevo iniziato a pensare di starmi immaginando tutto e che le giornate dalla psicologa fossero solo un’aggravante, nel quadro già disastrato della mia angoscia notturna e della mia ansia quotidiano Che quello fosse solo un sogno e che l’ansia non potesse mai andare via. Lo era davvero? Era davvero un sogno, mi domandavo?

Halloween Oggi solo una festa commerciale o così sembrava: la festa delle streghe e di dolcetto o Scherzetto, la festa di Halloween. Per mia nonna materna, che lo chiamava Samonios, era sempre stato considerato Capodanno. Finiva del tutto l’autunno, cominciava l’inverno ed era occasione, nella mia famiglia materna di grandi feste e gioiosi raduni. In quelle notti pre Halloween, per mia nonna paterna, invece, presso la quale dormivo alcune notti di quella settimana, era la notte del diavolo. Il fatto che io ci fossi nato, in quel giorno, proprio al tramonto, dopo le sei, non aiutava a distaccarmene. Quelle notti temevo che da sotto il letto venissero fuori demoni e diavoli di vario tipo. E l’unico modo che vedevo per difendermi era nascondere la testa sotto le coperte e rimanere lì finché il suono non fosse andato via e dalla porta avessero smesso quei rumori. Credevo che qualunque cosa fosse stata, se non mi fossi avvicinato, avrebbe pensato non esistessi. Mia nonna, nella sua “saggezza”, morta e buona dov’è, diceva sempre: “Non ti toccare lì, anche se ne senti l’urgenza. Tutte quelle cose si fanno solo da sposati, con tua moglie e unicamente per avere figli! Altrimenti, viene un demone e ti succhia tutta la vita. Se sei fortunato muori, altrimenti diventi cieco.” Intensa, come stesse parlando di cose reali o scientifiche perfino. Da adulto, cancellavo queste cose come scemenze. Demoni, dei. No, ti costruisci la tua strada da solo. Anche se devi sudare sette camicie per farlo. Non esistono Dei o demoni, solo tu. Ora che mi ero trasferito del tutto fuori Italia, ora che vivevo finalmente solo, lontano dalla famiglia d’origine, con tutti i problemi delle famiglie, quella porta iniziò ad aprirsi sempre più spesso e a volte prima di quella fatidica settimana e diventava sempre più difficile chiuderla. E l’apice era la notte del mio compleanno: immaginate quanto amassi festeggiarlo!

L’anno che tutto cambiò, era come al solito l’ultima settimana di Ottobre, quella del mio quarantesimo compleanno. Era appena passata la paura di una pandemia, terribile stato di vita chiusi in casa, dove tutte le paure, i desideri, le persecuzioni che causiamo a noi stessi, tornavano a tormentarci. Come gli spettri che atterrivano gli antichi in questa notte e potevano essere placati solo rimanendo in casa, accecati dalla paura, spaventati dal minimo rumore e lasciando mucche e doni per questi mostri, orrendi mostruosi nemici, fuori delle porte. Come al solito, la notte dell’inizio di tutto, arrivò senza che io ne avessi sentore o memoria. Ero in biancheria, dentro il letto con le solite due coperte.

La porta riprese ad essere percorsa da unghie come su una lavagna di legno, poi quel suono, come di un respiro rauco incessante e infine la porta, lentamente, prese ad aprirsi, su quei cardini cigolanti. Fu soltanto quando quelle mani, quei corpi umani reali ma oscuri, pervasi dall’ombra mi tirarono fuori dalle coperte e infine, lentamente, dentro la porta che iniziai a percepire, in ordine, come al solito: l’orrore del riconoscimento e l’ansia che precede la paura di non riuscire a fuggire. La porta sembrava più lontana del previsto e io sicuramente non sono il tipo o la tipa dei film d’azione, che è in grado di prendere a calci i propri nemici con un addestramento da marine o militare esperto, sono solo un ragazzo normale. Avevo la chiave in mano e mentre cercavo disperatamente di infilarla nella toppa, nel frattempo, con una spalla contro la porta e in mutande, la spingevo tentando di chiuderci dentro le solite mani, avvolte nell’oscurità e fatte di oscurità.

La mattina dopo la prima notte, mi svegliai in terra, avvolto nelle mie braccia dal freddo che veniva dal pavimento. Per fortuna non urlai o nessuno dei vicini parve notarlo perché quando uscii di casa, mi risposero i soliti sguardi e saluti distratti.

Le notti successive durante il mio delirio non arrivavo mai a quella porta perché crollavo in un sonno profondo e il cinguettio degli uccellini, che segnava il mio risveglio prima della sveglia, mi riconduceva sempre alla realtà.

La settimana prima del trentuno notte passò così, a volte con sogni vividi, altre senza alcun ricordo. Pensavo che fosse infine passata quando scattò la mezzanotte della notte precedente al mio compleanno. Ero a letto, da almeno mezz’ora, stremato da un’altra lunghissima giornata di lavoro. Quando il sonno arrivò, lo accolsi a braccia aperte, ignorando o fingendo di ignorare cosa sarebbe accaduto, come al solito, beandomi dell’illusione del non voler ricordare.


Nel passare alla veglia, il demone torreggiava su di me e mi guardava, senza occhi, senza bocca ma ne percepivo angosciante la presenza e il desiderio, come fosse reale e tangibile. Un mostro dall’oscuro corpo di donna mi sovrastava con i lunghi capelli sciolti, avvolto nell’oscurità. Ero paralizzato dalla paura. Lo capii subito: ero di nuovo dentro la porta! Mi divincolai, sfuggii dalle sue mani sul mio corpo, dal suo sguardo senza occhi che mi inseguivano incessanti e, come molte altre volte la notte prima del trentuno, mi convinsi di essere riuscito a chiudere la porta. Stavolta la chiave entrava nella toppa ma… mi svegliai.

Il giorno del trentuno, era il giorno del mio compleanno. Mia madre mi chiamò e questo causò i soliti discorsi sul fatto che non la chiamassi mai e che quando lo facevo era per lamentarmi del lavoro. Un discorso che si ripeteva quasi a macchinetta e del tutto condivisibile ma una cosa che disse, mi colpì profondamente quella volta e rimase in mente: “se non ascolti i tuoi demoni e li accetti, non riuscirai mai a dimenticare o ad andare oltre.”

E non aveva assolutamente idea dei sogni ricorrenti. Perché la psicologa ed io eravamo d’accordo che quelli fossero sogni. Anche se iniziavo a temere che non fossero solo quello e che ci fosse qualcos’altro dietro. La sera uscii a bere insieme ad alcuni amici e uno di loro mi disse: “questa è la notte del diavolo. Non uscite oppure accettate l’idea che sarete dannati. Per sempre.” Io e l’altro amico lo prendemmo in giro. Alla fine ci dovettero cacciare dal locale e ci salutammo sulla porta. Mi concessi di prendere un taxi e mi ritrovai come al solito, a casa, da solo e con i miei pensieri.

Preso dalla solita angoscia, feci partire un cd con un raccolta dei Fleetwood Mac e, mentre partiva Dreams, mi infilai nella vasca, per rilassarmi con un meritato bagno. Mi svegliai con un rumore di sottofondo, era il gracchiare continuo di un corvo, fuori dalla finestra. Lo insultai, scuotendo la testa, uscii dalla vasca e, avvolto nell'asciugamano, mi diressi alla mia camera. L'orologio nel corridoio, segnava l’una di notte.

Non riuscivo a togliermi dalla mente una frase di un racconto di Edgar Allan Poe: “Siamo destinati per sempre a stare in equilibrio sul confine dell’eternità, senza il tuffo definitivo nell’abisso.”

Mi domandai, stremato: “E se mi concedessi questo tuffo nell’abisso?” Nel solito rituale notturno, presi i miei ansiolitici e andai a dormire. Una lacrima mi cadde dal viso e la scacciai, senza pietà, con un gesto secco della mano.

Quando mi svegliai, il solito suono angosciante gravava su di me e stavolta erano più mani a toccarmi, più corpi nudi e reali a tenermi giù. Ed ero ancora dentro la porta. Urlai e mi agitai fino a liberarmene. Uno di loro, un uomo, cercò di trattenermi e dirmi qualcosa con quel viso intenso, senza labbra o occhi, oscurità dentro l’oscurità, senza fare gesti violenti o inconsulti. E questo mi distrasse a sufficienza per concedermi quell’attimo di lucidità, che mi permise di andare via e afferrare la porta per uscire e tentare ancora, disperatamente di tenere dentro quella porta quelle figure oscure che non identificavo ma iniziavo, forse, a comprendere. Scossi la testa, le parole modificate dell’ultima poesia dei Fiori del Male di Baudelaire, riecheggiavano nella mia mente ed esitai, pensando “E se cedessi verso lo sconosciuto, per trovare del Nuovo?”

Non so se fu una decisione cosciente ma infine riaprii la porta quanto bastava per fronteggiare i miei demoni, annuii e vi entrai mentre calde lacrime cadevano dai bordi del mio viso. La porta, lentamente, si chiuse dietro di me. Mentre venivo accolto da quelle braccia, forse, iniziavo a vedere degli occhi su quei visi. Erano il mio?

Sconvolto, presi ad urlare. Mi svegliai, le mie labbra non si erano mosse in alcun urlo. Di nuovo il sole, di nuovo gli uccelli, ma il suono stavolta era un gracchiare sommesso e sulla finestra, un corvo mi guardava dall’esterno con sguardo fisso, ebete, nell’oscurità dei suoi occhi. E sul mio viso, prese ad apparire un sorriso.


Here comes the sun? Ed ecco che arriva il sole?