La brezza non portò solo
un fresco refrigerio in quella pallida mattina di ottobre. Dalla finestra
semiaperta della sua stanza, il signor Ambrosi avvertiva un richiamo
particolare. Attorno a lui tutto era come se lo ricordava, ma l’aria fresca
sembrava volergli dire qualcosa.
Un particolare attirò la sua attenzione. Sembrava essere stato sistemato lì apposta perché lo potesse vedere, per accendere la sua curiosità. Un biglietto scritto da lui, non vi era dubbio alcuno. La data era la stessa che segnava la sveglia sul comodino del suo letto, proprio lì accanto.
7 Ottobre 1949: conosciuto Maria al faro. In pochi secondi tutto fu chiaro, per l’ennesima volta. Il signor Ambrosi restò in balia dei ricordi. Una tempesta di immagini spalancò le porte del passato, sempre ostinato nel nascondersi. Ma non quella mattina. Sorrise, strinse forte il biglietto, cercando di ricordare quando lo avesse scritto. Al diavolo, si disse poi. Doveva andarsene, e in fretta.
Uscire da quella prigione non avrebbe rappresentato un problema. Fingere era sempre stato il suo mestiere. I palchi dei teatri, calcati in oltre cinquant’anni di carriera, non erano poi così diversi dai freddi pavimenti di una casa di riposo.
Seguì il copione alla perfezione, senza lasciarsi trasportare dall’improvvisazione tanto cara nei suoi anni migliori. Le inservienti non sospettarono di nulla. L’occasione non tardò ad arrivare, e così la parte a lui più gradita, quella dell’evaso, del cercatore di libertà.
Niente male per essere un nonnino, si disse con un sorriso spavaldo, attraversando il giardino senza farsi notare. Pochi passi e la strada verso il faro si aprì di fronte a lui. La brezza lo chiamava con maggiore insistenza, e così la memoria. Ogni volta era una scoperta. Ritornava tutto, e improvvisamente.
«Cosa mi stai cercando di dire?» chiese, nemmeno un’ora dopo, la voce di Eugenio Ambrosi dal telefono di casa sua. «Che papà è fuggito?»
«Non so come abbia fatto, Eugenio. Non lo so… davvero!» rispose la sorella.
«È incredibile! Una valanga di soldi ogni anno perché poi nessuno si prenda cura di lui! Ma questa volta so dove è andato!» esclamò furente Eugenio. Sotto il pianto di preoccupazione della sorella, pensava a come fare per raggiungerlo al più presto. Un’occhiata fugace all’orologio, poi la sentenza: «Vado da lui! Ti chiamo quando tutto è sistemato!»
Non avessi fatto l’attore, avrei fatto il ladro, si disse nel frattempo il signor Ambrosi, sghignazzando sulla bicicletta arrugginita, appena presa in prestito.
Gli occhi sgomenti della gente, vedendo un anziano pedalare con tale velocità, furono la più gradevole accoglienza che potesse ricevere. Il cielo, intanto, tornò a schiarirsi come quel lontano mattino di sessantacinque anni prima.
E poi il faro, finalmente. Appariva fiero ed elegante proprio come nel giorno in cui aveva conosciuto Maria. Timida e in cerca di qualcosa tra le onde d’ottobre, si era resa conto in pochi istanti di come quello che stesse cercando fosse proprio lì con lei.
Da quel momento sarebbero rimasti insieme per sessantadue anni. Li volle rivedere tutti, il signor Ambrosi. Ogni qualvolta tornava ad essere ciò che realmente sapeva di essere, Maria era lì con lui.
Com’era bello ricordare! Risentirla tra le sue braccia, stringerle la mano intensamente davanti all’altare, o vederla piangere di gioia il giorno della nascita dei loro due splendidi figli.
Ma il signor Ambrosi sapeva che tutto sarebbe presto tornato tra le sabbie dell’inevitabile. Lo avrebbero soffocato, ancora una volta, facendogli dimenticare la vita. O la morte, quella di Maria, appena tre anni prima. Sembravano tanti, ma il tempo non è un concetto che appartiene a un malato di Alzheimer.
Fu allora che, sedutosi su uno scoglio per dare conforto al suo cuore, si ricordò dei primi sintomi della malattia. In principio era sembrato a tutti una normale reazione per la scomparsa di sua moglie. Poi le cose erano peggiorate, e la sua identità aveva cominciato a svanire lentamente.
Scese una lacrima tra le rughe di un volto che, per alcuni minuti, era stato felice di aver rivisto i suoi giorni migliori. In fondo, pensò, era insensato sprecare quel momento, conquistato dopo tanta fatica, nella commiserazione. E allora ecco una voce, che subito riconobbe, venire in suo aiuto.
«Papà!» esclamò Eugenio. «Grazie al cielo ti ho trovato!»
Gli occhi tristi tornarono a brillare di luce propria. Il significato della vita, quello che il signor Ambrosi cercava non appena un barlume di memoria tornava per tentare di riconsegnarli la sua anima, gli apparve in tutto il suo splendore.
«Sarebbe orgogliosa, lo sai?» disse.
«Me lo chiedo ogni giorno, papà, da tre anni ormai», rispose suo figlio. Papà continuava a guardare il mare. Lo sguardo impassibile.
«So cosa stai pensando», disse poi. «Credo che ogni volta sia la stessa storia, non è così? Dio solo sa quanto sia dura per te accettarlo! Sono stato tuo padre per cinquantotto lunghi anni, e ora non so più chi sono.»
«Sei lo stesso di sempre, papà.»
«Dici?» chiese allora lui. «Ogni giorno cerco di capire dove mi trovo, da dove vengo e, soprattutto, chi sono stato. E poi c’è quel maledetto specchio!» esclamò con rabbia.
«Spesso non vedo nulla. Altre volte, come oggi, torno ad essere il ragazzo felice di una volta.
La mia ultima battaglia è questa, Eugenio, ma non esiste difficoltà che possa abbattermi, solo il rimorso di dover coinvolgere te e tua sorella in tutto questo. Ogni volta che torno ad essere me stesso mi rendo conto di come le vere vittime siate voi due, e non posso darmi pace.»
«Faremo sempre di tutto per stare al tuo fianco, papà. Non ti abbandoneremo mai!» rispose, quasi in lacrime, suo figlio.
«Che ne sarà di me domani, Eugenio?»
«Domani?» disse allora lui, con un filo di voce. Incapace di rispondere, Eugenio fece una lunga pausa, mentre lo sguardo di suo padre tornava a perdersi nel grido del mare.
«Non lo so, papà», rispose. «Io non lo so, davvero.»
E chi poteva saperlo? Il signor Ambrosi sarebbe tornato nella sua stanza, e per tutti sarebbe sempre rimasto il signor Ambrosi. Non un marito, non un padre, né un uomo alla costante ricerca della sua esistenza.
Per questo decise di rimanere lì, quel 7 ottobre. Seduto a fianco di suo figlio, si ricordò di quante gliene aveva fatte passare durante la sua infanzia, e dei litigi con sua sorella. Ma anche delle splendide giornate a pesca insieme, e di quanto in fretta fosse diventato un uomo, in buona parte grazie ai suoi insegnamenti.
Risero, per diverse ore. Fu un lungo abbraccio, che condivisero con orgoglio, perché sentirono di meritarselo pienamente. Tra una conversazione e l’altra, entrambi lo pensarono. Si chiesero quanto avrebbe fatto male tornare alla solita situazione. Eugenio avrebbe ricordato quella giornata, suo padre invece no. Ma non doveva avere importanza.
Il faro, la scogliera, il mare, la brezza d’ottobre. Nessun palcoscenico migliore per un anziano attore. E la scena era tutta per lui.