Anno 1630, la malattia
che trecento anni dopo verrà rinominata Peste manzoniana, per la sua presenza
nei ‘promessi sposi’, aveva già contaminato l’Italia settentrionale, come fango
che inquina una pozzanghera durante un temporale.
Il morbo, per diffusione somigliava ai tentacoli di un grosso calamaro, o di una medusa assolutamente mortale. Partivano tutti da un corpo comune, un unico agglomerato pulsante, per poi prendere strade differenti, autonome. La malattia aveva fatto la stessa cosa, iniziando il suo prolificare a trecento chilometri dalle Alpi, forse a Lecco. Forse a Milano o Torino. Il corpo comune ormai non importava più alla gente, quello che contava davvero, adesso, erano i tentacoli e il loro rapido strisciare verso il sud della penisola.
L’Italia intera era corsa ai ripari per cercare di arrestare l’avanzamento del morbo. Cordoni sanitari vennero istituiti lungo i confini delle varie regioni, delle città, addirittura all’interno delle stesse fra le zone infette e quelle ancora sane. Le abbazie si erano chiuse a riccio e i monaci, da poveri servi di Dio, si ritrovarono a essere i più protetti dal morbo, scegliendo volontariamente di isolarsi per pregare e arrestare la malattia. In realtà tutto facevano fuorché digiunare e recitar preci, quasi tutte le abbazie disponevano di ingenti quantità di provviste, e il vino buono non mancava mai sulle tavole dei poveri frati. Avevano i propri cordoni sanitari, soldati a proteggere le entrate perché il morbo non doveva in alcun modo entrare fra quelle sacre mura. Sarebbe stato un affronto che il Diavolo faceva all’Altissimo.
E intanto i poveri cittadini, spesso a poche centinaia di metri, nei loro villaggi, morivano fra atroci sofferenze, ricoperti da bubboni che dolevano al solo strusciare con le coperte dei letti nei quali gli infetti erano costretti a rimanere isolati da tutti. Spesso venivano abbandonati dalle famiglie che, nel vedere comparire quelle escrescenze dure e molli allo stesso tempo, perdevano definitivamente la testa.
Non era raro vedere uomini e donne correre in strada nel cuore della notte nella speranza di evadere i cordoni di sicurezza e raggiungere i territori sani, che allora sembravano così vicini, a qualche passo, eppure…
Ma le guardie erano efficienti, solo i migliori soldati pattugliavano quei territori paludosi della Romagna, con le torce si liberavano del nero della notte ed una volta che la luce risplendeva, eccolo là il fuggiasco intento a traversare le acque torbide della palude. Prontamente veniva circondato da un drappello di uomini desiderosi di fargli la pelle per aver disubbidito all’unica regola che contava davvero.
Le scuse che fuoriuscivano tra il fiatone e gli schizzi d’acqua verde erano sempre uguali, così petulanti che le guardie avrebbero potuto recitarle in anticipo senza sentirle.
“Lui è malato! Ma io sto bene, potete controllarmi, se volete mi spoglio e vedrete che non ho niente!” Allora le guardie lo rassicuravano, gli dicevano di non preoccuparsi, di non avere paura, di avvicinarsi per poter vedere e decidere se farlo passare nelle terre sane. Amavano scrutare la speranza accendersi sul loro volto, come il fuoco delle torce che stringevano fra le mani e che illuminava il rapido guazzare dei piedi che uscivano dalla palude.
Poi c’era sempre lo stesso gesto fulmineo, così meccanico da essere eseguito senza che il cervello dovesse comandare il braccio. Il fuggiasco veniva accoltellato alla pancia e una volta in ginocchio decapitato senza avere la possibilità di fiatare ulteriormente. Di nuovo le fiaccole diventavano protagoniste e il fuoco si insinuava beffardo sotto le vesti logore del malcapitato. Bruciava, il fuoco purificava, estirpava la malattia una volta per tutte. Tanti erano i corpi carbonizzati lungo le sponde umide della palude di Lancimago, eppure i fuggiaschi non li vedevano, erano troppo intenti a correre per la salvezza, trovando altro ad attenderli.
Amelio era contento di non essere laggiù in basso, nel villaggio, a pochi passi dall’abbazia, perché quella struttura di rozzi mattoni marroni alle volte poteva dare alla testa. Non c’era peste fra le sue mura, così come nelle terre a sud. Il morbo sembrava concentrarsi, per il momento, solo sul villaggio, su quell’agglomerato di case ammassate le une sulle altre come il corpo ormai vecchio e moribondo di un bruco, costretto a chiudersi su sé stesso mentre decine di formiche continuano a mangiarlo.
Amelio aveva visto le case pian piano svuotarsi, e quando queste erano sufficientemente lontane da quelle abitate, venivano bruciate per sanificare il villaggio, con il risultato di lasciare grosse macchie nere di macerie e cenere. Amelio odiava vedere salire il fumo grigiastro dalla valle del villaggio verso il cielo, verso la sua casa e quella di suo cognato. C’era sempre puzza, un odore strano; legna, fieno, disperazione. Egli era certo che se questa potesse avere un odore sarebbe stato di sicuro quello. E quando vedeva quel miasma accorparsi, come la nebbia che tante volte circondava la palude, chiamava il figlio a rientrare in casa. Suo cognato faceva lo stesso con il suo, per nessun motivo dovevano respirare il fumo, perché la peste poteva essere ovunque, in ogni cosa.
Era felice di vivere in collina, a tre chilometri circa dal villaggio, lì non c’era peste come nell’abbazia. Sembrava passato un secolo da quando quelli in basso gli avevano dato del pazzo per la scelta di andare così lontano; le pecore potevano pascolare anche laggiù, i maiali avrebbero avuto comunque lo spazio necessario per crescere e ingrassare. Per non parlare dei polli, delle uova.
Lui e suo cognato avevano comunque deciso, ispirati da qualcosa, ora benedetti da un’assoluta premonizione, non c’erano dubbi. Non ne avevano.
Era felice di avere un proprio cordone di sicurezza che si occupava esclusivamente di quelle due case sulla cresta della montagna, non era importante quanto piccole fossero le zone sane, andavano tutelate ugualmente e i modi discutibili con cui agivano le guardie diventavano necessari, se volevano salvarsi dal morbo.
Vivevano senza contatti, lontani.
Incredulità, era questa l’unica parola che continuava a ripetersi, mentre impietrito fissava il bubbone sulla fascia lombare sinistra, una decina di centimetri sopra la natica del figlio. Il bambino, di otto anni, continuava felice a fare il bagno nella tinozza di legno messa a riscaldare al sole. Faceva su e giù con la testa, emergendo piano, prima solo i capelli bruni uscivano fuori come se fossero le braccia di una bizzarra stella marina. Poi comparivano gli occhi, il naso e il bambino ruotava su sé stesso. Guardava il padre nascondendo sott’acqua un sorrisetto furbo e tornava sotto come se la tinozza fosse più profonda del mare che non aveva mai visto.
Amelio notò il bubbone, per il momento simile alla puntura di una vespa, nel momento in cui aveva deciso di aiutare il bambino a lavarsi con il sapone fatto in casa. Gli aveva passato il miscuglio di grasso e cera sui capelli, massaggiandoli, poi era passato alla schiena e per poco non aveva toccato l’escrescenza.
Sobbalzò all’indietro e suo figlio se ne accorse e chiese se fosse caduto dallo sgabello. Fece finta di niente, ma le mani erano appena diventate di pietra, insensibili, così rigide da spezzarsi alla minima pressione. Non era riuscito a fare altro se non starsene zitto mentre il figlio si asciugava, indossava i vestiti puliti e andava a chiamare il cuginetto di due anni più grande per giocare.
Se l’è presa.Pensò lui accasciandosi sulla sedia della sala, immerso nello sconforto di una casa vuota. Ora… ora…aveva paura a formulare quel pensiero, riuscì comunque a definirlo con contorni precisi: Ora infetterà tutti. Suo cugino, i suoi genitori. Oddio… Angelica che devo fare? Aiutami! Sua moglie però era morta otto anni prima dando alla luce il suo erede, e rievocarne il ricordo in quella situazione lo fece sentire ancor più solo, mentre senza volerlo andava incontro all’ignoto.
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Era incredibile come la malattia progredisse rapidamente, esattamente come sentiva dire. Le chiacchiere però restano tali finché non ci si sbatte la faccia contro. In quel lasso di tempo, Amelio vide prima gonfiarsi quello sulla schiena, il primo, poi altri comparvero tutt’intorno, come i petali di un fiore che abbracciano il pistillo.
E il bambino, che stupido non era, più volte chiese al padre se avesse qualcosa là dietro, magari un taglio perché iniziava a sentire fastidio, una pressione calda, come se un pezzo di brace gli fosse finito sotto la maglietta.
Amelio diceva di no, che non c’era niente, una parte di lui non voleva rassegnarsi ad un destino già scritto, gli diceva che suo figlio non poteva essersi preso la peste, era impossibile perché il villaggio era troppo lontano e il cordone di sicurezza sempre sorvegliato. Pronto. Attento. Pur sempre umano e, come ripetevano quegli invasati dei frati, quest’ultimo è imperfetto, pieno di peccati, spesso fallibile. Qualcuno doveva essere passato e ora si nascondeva nel bosco, fra gli alberi. Magari aveva chiesto un pezzo di pane ai bambini, li aveva fatti avvicinare, contagiandoli inevitabilmente.
Doveva per caso informare il cordone? No assolutamente no, altrimenti correva il rischio di vedersi bruciare la sua casa e quella del cognato, con loro dentro magari, così da risolvere due problemi in un colpo solo. Nessuno avrebbe sentito la mancanza di quelle due catapecchie in mezzo al nulla. Doveva aspettare, pazientare.
Era mattina presto quando suo figlio vide il primo bozzo su un braccio, e il grido che quella visione aveva generato, sarebbe stato impossibile da dimenticare. Era infantile, acuto, ma assolutamente consapevole.
Corse da lui e lo trovò seduto sul letto, con le lenzuola ferme a coprirgli le cosce nude. Teneva il braccio rigido come se su di esso stesse camminando un insetto troppo brutto e minaccioso per essere scacciato via. C’era solo una bolla molliccia piena di malattia, d’infezione, nessuno osava toccarle o avvicinarsi, ma non lui. Amelio si ritrovò a fissarlo negli occhi mentre con le mani gli teneva le spalle.
“Aiutami Babbo! Aiutami!” Piangeva come un pazzo mentre continuava a fissarsi il bubbone.
“Calmati Petro. Calmo.”
“È la cosa brutta. Me l’ha detto Giuseppe che ti fa venire le bolle!”
“No, no. Ora stai buono e rispondi a quello che ti chiedo.”
“Ho la malattia, babbo? Dimmelo!” Voleva saperlo eppure gli occhi speravano in una bugia.
“È impossibile. Ora dimmi, hai incontrato qualcuno giocando nei boschi con Giuseppe? Un uomo anziano magari, o una donna?”
Il bambino scosse la testa immediatamente.
“Sei sicuro? La verità, non ti sgrido.”
“Lo giuro sulla mamma!” Fece lui cancellando ogni dubbio paterno. Suo figlio non la nominava mai, gli faceva male, se poteva evitava di parlarne e ora l’aveva tirata in mezzo con assoluta sincerità.
“Bene, allora non può essere lei.” Disse ritrovando per un momento la serenità necessaria ad affrontare quella situazione. Ma se aveva ragione, allora cos’era? I sintomi erano corretti, negarlo sarebbe stato da ciechi e presto sarebbero peggiorati, sperava di no, ma non lo escludeva, tutt’altro. Era stato lui in fondo a dire che la peste poteva essere in ogni cosa.
“Il fumo delle case!” Disse il bambino destandolo dai mille pensieri. “L’ho respirato.”
“No, non l’hai respirato.”
“Sì, mi è entrato nel naso!”
“Allora dovrebbe essere entrato anche nel mio e a quest’ora dovrei avere le bolle anche io.” Fece serio l’uomo.
“Ce le hai?”
“No, e se fosse peste me la sarei già presa. È qualcos’altro, non so cosa; un’infezione magari, ma non grave come quella.” Vide il volto del figlio schiarirsi come cielo dopo un temporale. La tempesta però era pronta a tornare, carica di fulmini.
Non mangiava né dormiva da settantadue ore. Gli ultimi tre giorni erano stati i più duri dalla morte di sua moglie. La casa era rimasta completamente immobile, ferma a quando la situazione non era ancora precipitata.
Sbrigò delle faccende, Amelio, trascinandosi per casa come la brutta copia dell’uomo che era stato. Per prima cosa fu costretto a respingere suo nipote che come se nulla fosse veniva a chiedere se Petro poteva uscire a giocare. Non raccontò la verità, nessuno doveva saperla, non poteva fidarsi neanche dei parenti, non sapeva come questi avrebbero potuto reagire, erano probabilmente già tutti infetti e la paura è cattiva consigliera. Il cordone sanitario era pur sempre a un tiro di schioppo. Petro aveva mal di pancia e non poteva uscire a giocare, suo nipote si fidò della bugia. Lo vide andare via, stava bene, senza sudori freddi su tutto il corpo o bubboni, naturalmente.
Il suo bambino invece peggiorava a vista d’occhio e ciò che aveva ipotizzato gli crollò addosso. Adesso non riusciva più a stare seduto, sdraiato, in nessuna posizione perché i bubboni erano ovunque. Sulle spalle, fra le natiche, sotto i piedi, sulla cute.
Da settantadue ore c’era una sola costante in quella casa. Le urla. Suo figlio non faceva altro che disperarsi dal dolore. Si fermava solo per vomitare o quando la gola era troppo secca per far passare qualsiasi suono. Allora respirava come se fosse sul punto di esplodere.
Urla. Pianti. Lamenti. Strepiti. E suo padre dopo ore di veglia crollò in un sonno involontario.
Si svegliò quando il sole era già tramontato.
Le tenebre però erano la cosa di minor conto. C’era… c’era... silenzio. Vero e autentico, così denso da essere assordante al pari delle urla.
È morto, non ha retto.Si disse spaventato. Decise ugualmente di andare a prendere il corpo. Con il favore della notte avrebbe potuto raggiungere indisturbato il bosco e dare al figlio una sepoltura migliore, degna. Petro aveva già sofferto abbastanza e l’idea di vederlo bruciare lo portava sul bordo della pazzia. Non doveva perdere la testa, non ancora almeno.
Fece capolino nella piccola camera e fu allora che lo vide. Suo figlio era cambiato, non era più umano. Una matassa di fili neri l’avvolgeva tutt’intorno, come piccole corde scure uscite da chissà dove. Era fermo ai piedi del letto mentre quegli spaghi si muovevano per lui, con lui, in una danza macabra di fibre sparse.
Stanchezza e orrore. Paura e incredulità. Amelio non resse e vide la vista appannarsi, farsi sbiadita e ovattata. La casa iniziò a vorticare, i muri sembravano liquefarsi e avvolgerlo, crollargli addosso e tornare rigidi un istante prima di travolgerlo. E quel mostro, con quelle sue strane escrescenze filamentose continuava a fissare dritto davanti a sé, senza occhi, senza bocca, senza volto, senza espressione.
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“Babbo! Corri babbo, vieni a vedere!” Quelle parole giungevano da lontano, quasi da un altro mondo, eppure furono sufficienti a svegliarlo. Era svenuto fuori dalla camera, oltre la soglia. Sentiva la testa ancora gigante, piena d’eco, dolorante sulle tempie. Gli fu sufficiente allungare il collo per vedere. C’era suo figlio.
“Sto bene! Non mi fanno più male!” Eppure i bubboni erano esattamente lì, lo ricoprivano, lo deturpavano. Ma lui sorrideva sereno.
“Come… come.” Iniziò a dire, ma c’era qualcos’altro che si stava facendo largo, qualcosa che non sarebbe riuscito a trattenere troppo a lungo. Non voleva sapere. No, no! Eppure sentiva il bisogno di chiedere. Fu come l’argine di un fiume impotente di fronte ad una piena d’acqua, le parole sgusciarono autonome dalle labbra: “Cosa sei?” Chiese.
Il bambino sembrò stupirsi della domanda: “Sono io babbo, e sono guarito!” Allargò le braccia come a chiedere un meraviglioso abbraccio.
“Tu non sei lui. Ti ho visto. Ridammelo.” Barcollava combattendo con le vertigini.
“Vuoi vedermi ancora?”
“Zitto e dimmi chi sei.”
“Sono l’evoluzione, sono colui che può salvarvi dalla malattia che vi sta uccidendo. Tuo figlio mi ha trovato nel bosco insieme a suo cugino. Hanno deciso di toccare il fluido. Hanno toccato il fungo nonostante fosse più alto di loro. La curiosità dei bambini è incredibile. È così che sono entrato.” Disse scendendo dal letto con un piccolo balzo senza curarsi del bubbone appena schiacciato, né del liquido che da questo usciva.
“Vattene.”
“Tuo figlio mi vuole. L’ho fatto soffrire, ma ora è libero e quando cambia il dolore non esiste più.” Mosse un passo verso l’uomo che lì rimase, immobile.
“Mio figlio ha la peste. E suo cugino sta bene.” Fece massaggiandosi la fronte con il palmo freddo.
“La peste è cosa primitiva. Alcuni di noi sono più lenti di altri, ma voi siete gli unici ad avere davanti agli occhi la cura. Vuoi vedere?” Ora le labbra si sollevarono in una risatina beffarda.
Non gli diede il tempo di rispondere e iniziò a mutare. Dai bubboni, dalla carne, si fecero largo i fili neri. La pelle si lacerò e le piccole corde presero a danzare nel sostituirsi ai tessuti del corpo. Non c’erano più, solo fili, qualcosa che somigliava ad una matassa di spago, come quella che sua moglie usava per rattoppare i vecchi pantaloni.
“Si sta davvero bene così, babbo! Quel fungo era così bello, sembrava chiamarci a sé, era ipnotico e toccarlo è stata la cosa migliore da fare! Dobbiamo dirlo a tutti, noi possiamo salvare molte persone dalla malattia. Basta stare vicini, respirare la stessa aria, contagiarci per salvarci, come ho fatto con te.” Disse quella cosa con la voce di suo figlio. Poi alzò un’estremità traboccante di fibre nere, vive, libere, nella sua direzione come ad indicargli qualcosa.
Vide il bubbone sul dorso della sua mano. Era grosso, bianco, gonfio e fu certo di scorgere dei fili neri muoversi a pochi millimetri dall’epidermide.