Esperienze, Parte Quinta Onnigrafo Magazine

Esperienze, Parte Quinta

[da le "Storie dei Regni Unificati"]

Era in una pozza di sangue, eppure muoveva quel braccio e digrignava i denti come se fosse ancora tutto d'un pezzo.

Raggiungemmo i limiti del campo di battaglia in poco tempo. E già da lì, a quasi quattrocento passi dalle mura, l'odore di sangue e morte era insopportabile. I medici e i maghi Cerusici erano già in azione da più di una clessidra, dando conforto ai moribondi prima che esalassero il loro ultimo respiro, e prodigandosi al massimo per quei soldati che erano stati così sfortunati da non morire per i colpi inferti dai nemici. Il giuramento dei Cerusici imponeva loro di salvare la vita di ogni uomo sul campo di battaglia, a prescindere dalla gravità delle condizioni mediche, e dalla loro collocazione nell’uno o nell’altro schieramento: se il paziente, alleato o nemico, ancora respirava, il loro mestiere poteva e doveva essere fatto. Se non altro, avrebbero reso il loro trapasso il più indolore possibile.

Ricordo di aver visto un uomo a cui mancavano tutt'e due le gambe e le braccia all'altezza di metà avambraccio, una donna rimasta con metà volto, un altro soldato a cui era stata levata l'armatura e girato supino, con la spina dorsale completamente spappolata e gli arti inferiori ridotti in poltiglia.

Infine, riuscii a vedere anche il cadavere di uno dei difensori del primo archetipo, quelli dal busto mostruoso. Da lontano non era decifrabile, ma adesso vedevo quanto le spalle di questi esseri fossero possenti, rese ancor più mastodontiche da spallacci di cuoio e rinforzati in ferro; erano lunghe almeno una volta e mezzo quelle di un uomo normale. E sotto seguivano le braccia, spesse come tronchi di alberi centenari. Le mani erano così grandi e deformi che avrebbero potuto cingere la testa di un cavallo in un palmo. A questo, in particolare, erano state tranciate gambe e scalpo, e in una delle mostruose mani portava ancora il cranio di uno dei nostri Incursori.

Le due mezzelune, che andavano da gomito a polso, erano completamente imbrattate di sangue, e i bordi fortemente intaccati dai colpi di spada e bucati dalle nostre frecce.

Poco più avanti, assistetti a un'altra visione orripilante. Uno di questi byestiani dal torso enorme ancora si muoveva. Gli era stata recisa tutta la parte inferiore del corpo al livello del pube, e un braccio all'altezza della spalla. Doveva essere stata opera di un uomo dalla forza altrettanto sovrumana, o di uno dei nostri maghi. Con le viscere visibili, usava l'unico arto sano per cercare di allontanare i Cerusici della Fuoco I che cercavano di placarlo.

E come prima, notai di nuovo quel bagliore sinistro dietro al collo.

Fermai il mio cavallo per studiare meglio la situazione, mentre i miei colleghi continuavano la loro corsa verso le mura. Il mio viso si era rigato di nuovo di lacrime già da quando eravamo scesi dalla nostra collina di avvistamento, dove avevo assistito al macabro spettacolo di alcuni dei miei compagni di viaggio morti o moribondi. Le mie maniche erano fradice di muco e non sapevo più dove asciugare il mio pianto, ma cercai di farmi forza e, per amore della verità e del mio lavoro, mi avvicinai per studiare meglio la situazione.

“Attenta, mia cara”, mi avvertì un Cerusico con una voce calda e calma, come se stesse guardando un campo di fiori invece che un campo di sterminio, “il soggetto, come puoi vedere, è ancora nel pieno delle sue forze. Questi costrutti sono tenuti insieme dalla magia e non riusciamo a capire come possano essere fermati”.

Ora il soggetto, come lo aveva chiamato il medico, si era girato prono con il solo movimento delle spalle, e si era rivolto alla fonte di quelle parole. Essendo il Cerusico di fronte a me, il difensore del Campo I ora mi stava dando le spalle. Allora notai quella macchia nera all'altezza della prima vertebra cervicale, che emanava sinistri bagliori intermittenti. Era rimasta scoperta probabilmente per colpa dei continui spostamenti del mezzobusto ormai menomato che, strisciando a terra, aveva completamente sciolto i lacci della gorgiera che teneva gli spallacci.

Non so cosa mi prese allora. Ricordo solo vagamente che stavo in piedi vicino al cavallo; un battito di ciglia, e la mia corta spada era infilzata, per metà della lama, in quella macchia nera all'inizio della schiena dell'energumeno. Quando mi accorsi quel che avevo fatto, mi cominciarono a tremare braccia e gambe. Scesi dalla schiena mastodontica e posai il mio stivale in una pozza formatasi dal sangue di quel corpo, ora cadavere. Guardai il mio piede affondarvi. E poi divenne tutto nero.

Mi ritrovai improvvisamente distesa lontana da quello spettacolo, con uno dei medici che mi passava una strana boccetta dal forte odore che mi fece rinvenire.

“Sei venuta meno, mia cara” Sentii di nuovo la voce calma del Cerusico parlare poco lontano da me. “Questo deve essere stato il tuo primo affondo mortale, dico bene? Beh, complimenti! Ci hai reso un gran servizio: non solo la tua prima vittima è di notevoli dimensioni, ma ci hai anche permesso di scoprire cosa tiene in piedi questi costrutti!”

In quel momento non ero in vena di lusinghe. Le parole di quel mago mi stavano facendo realizzare, poco a poco, quello che avevo fatto.

La mia prima vittima. Una morte. Per mano mia.

Mi voltai di fianco per non vomitare sui piedi del medico che cercava di calmarmi.

Quando riuscii a riprendermi, mi asciugai gli angoli della bocca con le maniche luride, e chiesi al ragazzo che mi assisteva quanto tempo fosse passato da quando ero svenuta. Fortunatamente, mi rispose che si trattava di poche decine di battiti di cuore.

Con il cuore greve, mi alzai in piedi e mi avvicinai verso il cavallo. Appesa ad una delle bisacce c'era una borraccia di pelle di capra contenente acqua, con quale mi sciacquai bocca e viso. Dopodiché feci per risalire in groppa alla mia cavalcatura.

“Non dimentichi niente, mia cara?”, mi domandò il Cerusico dietro di me.

Mi voltai, e vidi che il mago indicava con lo sguardo la schiena del costrutto, in particolare la mia spada, ancora infilzata in quella macchia nera.

“Dentro alle mura potrà tornarti utile. E non credo che riprenderà vita, una volta tolta”, continuò l'uomo brizzolato, fissando i suoi occhi grigi nei miei. “Inoltre, mi sarebbe non poco d'impiccio quando dissezionerò questo esemplare. Fammi il favore, estraila e riprendila con te”

Il mago e i suoi tre aiutanti mi stavano fissando, aspettando che facessi quanto mi era stato ordinato. Quei lunghi passi che feci verso quel cadavere mi stavano allontanando dalla Mariniana che ero. Adesso, quella che stava afferrando quella corta elsa, estraeva con forza la lama da quel corpo e puliva il filo sul proprio mantello, bene, quella era una donna diversa.

Non direi malevola, non lo sono mai stata. Non direi nemmeno più forte, perché comunque sono sempre stata minuta, anche in quel periodo della mia vita, durante il quale mi allenavo tutti i giorni a tirare di spada.

Ma da quel momento, come dire, mi potei definire consapevole. Della guerra, della vita e, soprattutto, della morte.

Una volta rinfoderata la spada, il Cerusico si avvicinò e mi porse i miei occhiali. Non mi ero nemmeno accorta di averli persi!

Erano lindi e tinti, non una macchia.

È strano come certe cose di routine possano passare in secondo piano, come parlare con un collega o con un famigliare, senza essere in grado di ricordare di cosa abbiamo parlato o cosa abbiamo mangiato una clessidra prima, mentre invece ricordiamo determinati momenti e sensazioni, o minuscoli dettagli.

Quel gesto nel ridarmi gli occhiali, così puliti in mezzo a quel lezzo immondo, mi è rimasto conficcato nei ricordi. Ricordo altrettanto bene lo sguardo soddisfatto del Cerusico, seguito da un gesto di assenso.

Tornai quindi al cavallo e ripresi la mia corsa, senza voltarmi indietro.

Guidai il mio baio verso quella cupola semi-luminescente che era la gabbia magica in cui il Primo e il Secondo della Fuoco I avevano imprigionato i byestiani fuoriusciti dal cancello principale del Campo I. I maghi erano ancora sospesi in aria, concentrati a mantenere quella prigione impenetrabile.

A pochi piedi dalla barriera, trovai ad aspettarmi Mud; aveva di nuovo tirato fuori il suo piano d'appoggio portatile e stava disegnando dall'alto del suo cavallo uno degli esemplari appartenente al quarto archetipo, quelli dalle braccia che terminavano con una lama. Uno di loro era rimasto con la propria arma incastrata in quella barriera e cercava di liberarla spasmodicamente, con sommessi sbuffi dal naso. Non poteva emettere altri versi, dato che collo e mandibola erano sigillati da un lembo di pelle.

Le lame erano fatte completamente d'osso, affilate e molto lucide; cominciavano poco dopo il gomito, nel punto in cui pelle, muscoli e tendini andavano scomparendo fino a far rimanere solo quelli che pensavo fossero ulna e radio, fusi insieme e dalla forma leggermente ricurva. A una più attenta osservazione, potei notare che mentre un arto terminava a punta, come una spada, l'altro terminava con uno sperone, forse da usare come accetta.

Gli occhi non avevano pupille, solo sclera, e la maggior parte degli esemplari che potevo vedere muoversi dentro la barriera erano calvi, o comunque con pochissimi capelli. Si muovevano nell'arco di pochi passi, e ogni tanto provavano un assalto alla barriera, che comunque resisteva, non importava dopo quanti tentativi.

Gli esemplari del terzo archetipo, quelli dagli occhi velati da una patina nera, al contrario, si erano acquietati e si muovevano poco o per niente. In compenso si lamentavano parecchio, emettendo versi gutturali o urli strazianti.

“Tolmodeo è già dentro”, mi disse Mud, riferendosi allo Storico della Fuoco I; nel parlare, come al solito, non aveva alzato gli occhi dal proprio foglio, “mi ha detto che sarebbe andato sopra le mura e a est per prendere nota di quanto succederà da quella parte. Io, finito qui, me ne andrò a ovest. È un problema per te seguire il grosso dell'esercito tra i vicoli?”

Il settore più pericoloso, insomma, pensai, guardandolo mentre finiva di raschiare via dell'inchiostro che si era ormai seccato e che era di troppo.

Accettai, non tanto per spavalderia, ma perché ero sicura che, potendo entrare negli eventuali edifici che avrei trovato lungo il mio cammino, avrei sicuramente trovato qualche spiegazione a quello che il regno di Byest stava facendo ai propri compatrioti, uomini o donne che fossero. Nonché ai nostri popolani di frontiera, di cui ancora non avevamo notizie.

Il cancello principale era occupato dalla massa di byestiani imprigionati e le scale d'assedio erano parecchio più a est di dove mi trovavo io, quindi augurai a Mud che il Fato gli fosse benevolo e andai verso quella parte di esercito che stava cercando di entrare dalla breccia.

La squadra che trovai faceva parte della Verità IV e, quando dissi chi ero, uno dei soldati, un ragazzotto senza elmo, perso chi sa dove nel campo di battaglia sotto le mura, mi disse che ormai l'Aquila IX era entrata tutta, e che solo la sua legione doveva ancora prendere posizione e cominciare a bonificare il campo.

Abbandonai il cavallo con una carezza e la promessa che sarei poi ritornata a prenderlo, nel buono e nel cattivo Fato; presi lo zaino con poche pergamene, penne e calamaio e cominciai la scalata dei detriti. I ragazzi che stavano salendo furono così gentili da rallentare il proprio assalto per darmi una mano quando non riuscivo, così come io cercai di aiutare loro come potevo.

Dopo quella che mi sembrava un'eternità, finalmente riuscii a raggiungere la cima della breccia, a circa un terzo dell'altezza complessiva della cinta muraria.

Lo spettacolo che mi si parò davanti e sotto di me non era dei più invitanti. Subito vicino alle mura c'erano alcune macerie di palazzi, demoliti, probabilmente, dai tiri delle nostre armi d'assedio, quindi totalmente inagibili. Laddove le sorprese avevano fatto il loro mestiere, si potevano vedere volute di fumo alzarsi verso il cielo. Queste, poi, venivano come assorbite dalla coltre che non ci permetteva di vedere dalle alture intorno. Quest'ultima, nonostante mancasse ancora mezza clessidra al tramonto dell'astro diurno, rendeva la scena all'interno del Campo I più lugubre e ombrosa di quanto ci si poteva aspettare per quel momento del giorno.

Cominciai la discesa dalla breccia e, una volta arrivata in fondo, intercettai una portaordini, una ragazza più alta di me, i bei tratti del sud induriti dallo sporco, dal sudore e dal terrore. Non avevo né la prontezza di spirito né il grado per ordinarle alcunché, ma le chiesi comunque un rapporto su quello che aveva visto e su cosa stesse succedendo in quel momento. Sarà stata la concitazione del momento, o la paura che le leggevo negli occhi verdi, ma la povera ragazza mi rispose immediatamente che era stata mandata dalle squadre di pulizia in loco, quelle che dovevano trovare un punto sicuro per il centro di comando, e che la lotta lì era stata sanguinosa quanto quella avvenuta fuori dalle mura. Lei adesso stava andando oltre la breccia per guidare il più velocemente possibile gli ufficiali di alto grado verso la loro destinazione. Mi feci indicare la struttura, che si affrettò a mostrarmi, aggiungendo che la strada era sgombera da pericoli; poi, con un augurio di buona sorte, la lasciai ai suoi ordini.

La seguii con lo sguardo per un po'; quella povera ragazza aveva a malapena sedici estati.

Mi riscossi e mi avviai verso dove mi era stato indicato, sicura che vi avrei trovato il nuovo centro di comando.

Il Campo I sembrava ben organizzato, con costruzioni messe dove dovevano essere, le vie squadrate, e vialoni più grandi come punti di riferimento. Tutte queste strade portavano verso quello che doveva essere il centro di comando: una costruzione più alta delle altre ma che da vicino le mura non era ben visibile per la poca luce presente; gli altri edifici erano tutti di uno o due piani. Molti addirittura erano semplicemente dei tendoni di trenta o quaranta piedi di lunghezza.

In prossimità delle mura trovai ancora molte macerie di quelle basse costruzioni, ma da sotto sentivo dei lamenti, probabilmente di byestiani rimasti intrappolati o menomati. Era straziante sentirli, e ancor più doloroso andarmene da quei gemiti, ma come tutto il resto dell'esercito sapevo che, una volta liberati, quei difensori avrebbero svolto il proprio dovere e attaccato chi li stava salvando. Così continuai per la mia strada, il cuore pesante.

Svoltai verso l'interno, e dopo poco di nuovo verso destra, e giunsi in uno dei vialoni principali, più largo del dedalo di stradine che mi ero lasciato alle spalle, nella quale non avevo trovato segni di lotta. Già qui lo scontro si era rivelato impegnativo. A terra, vedevo parecchi di quei difensori del terzo tipo, ma erano presenti anche gli altri archetipi, seppur più rari. E purtroppo c'erano anche caduti del nostro reggimento.

Uno tra tutti mi rimase impresso. Sarà stato un uomo di qualche anno meno di me, ma muscoloso e possente come una roccia. Era stato scaraventato contro il muro di una bassa costruzione sul ciglio della strada e il cadavere era rimasto incastrato in una nicchia creata dall'impatto dal suo corpo. La lorica al livello dell'addome era segnata da un pugno micidiale, sicuramente inferto da un elemento del primo archetipo. Teneva ancora in mano la sua spada.

Tentai di trattenere le lacrime e continuai la mia ricerca.

Lungo la strada trovai parecchie porte spalancate, sicuramente aperte da piccoli gruppi del nostro esercito per assicurarsi che non arrivassero attacchi dai lati. Cercai di sbirciare in una di queste basse abitazioni in legno e pietra, senza trovarvi dentro niente e nessuno, tranne delle basse brande con al centro un piedistallo senza nulla sopra.

Mano a mano che avanzavo, sentivo gli echi di battaglia farsi più forti, segno che ancora si combatteva, quando infine giunsi alla costruzione che mi aveva descritto la portaordini.

I Genieri avevano anche cominciato a sparare in aria le stelle portatili che, per quanto avevo capito, erano dei dardi imbottiti di una miscela chimica; una volta scoccati con una piccola balestra, l'attrito con l'aria e la velocità avrebbero fatto mescolare due ingredienti che, a contatto, creavano energia, quindi luce. Queste, poi, rimanevano sospese a mezz'aria per un lasso di tempo variabile. La cosa incredibile di questi aggeggi era che facevano almeno cinque volte più luce di una qualsiasi torcia; l'unico, enorme punto debole era la durata, che come detto non era sempre la stessa: andava da poche centinaia di battiti di cuore a un terzo di clessidra. Rimaneva comunque una fonte di luce portatile ideale per gli assalti, esattamente come in questo caso.

L'edificio scelto per il nuovo centro di comando era costruito su due piani, più il terrazzo. Era quasi completamente di pietra e fango, ma sembrava solido, e spiccava in confronto agli altri.

L'ultimo piano, quello terrazzato, sarebbe stato sicuramente un ottimo punto di osservazione per i tribuni e i capitani, nonché facilmente individuabile dai portaordini una volta che vi fossero stati collocati torce e stendardi.

Da fuori, potei notare che c'erano ancora soldati che trasportavano dei corpi dall'interno della costruzione. Adiacente a questo vi era un altro edificio basso e lungo dal tetto di torba e paglia, simile a un dormitorio. Anche qui, come nelle case che avevo visitato lungo il vialone, c'erano solo delle basse brandine con un piedistallo di pietra al centro, sopra le quali non vi era nulla. Sui giacigli ora venivano adagiati i compagni militari feriti o moribondi, in attesa di cure mediche da parte dei Cerusici e dei loro sottoposti.

Erano tutti soldati dell'Aquila IX, finalmente! Chiesi cosa fosse successo a uno di loro, il sergente Loric Vandergoh, un uomo di quasi trenta estati, gli occhi neri come la notte, e alto sette piedi. Il volto e i capelli erano incrostati di sangue e fango, e al suo scudo mancava tutta la parte superiore per almeno un terzo della superficie totale.

Mi rispose che aveva seguito il comandante Probo prima nella carica per coprire l'attacco del capitano Decimo Aureo, poi all'assalto alle mura. Aveva subito dato disposizioni di liberare le strade sotto alla breccia e di creare un argine, sì da non far arrivare rinforzi alle mura almeno da quel tratto di strada; altri quaranta uomini, più della metà dei quali erano arcieri, avevano conquistato le mura. Lui e pochi altri avevano seguito il comandante per le strade e avevano cominciato le operazioni di bonifica.

Dopo aver visto che l'esercito aveva cominciato a scalare le mura, aveva preso la maggior parte dei militari disponibili all'interno del Campo I e aveva iniziato la bonifica strada per strada. La lotta dell'edificio di due piani era avvenuta poco tempo prima del mio arrivo. Probo era ancora dentro, in attesa degli ufficiali di alto grado.

Mi congedai dal sergente per avviarmi dentro il nuovo polo di comando.

All’interno trovai Probo che impartiva ordini a sergenti e caporali, dicendo loro di avanzare e dare manforte al resto dell'esercito che ancora combatteva a poche strade da loro, e che lì avrebbero mantenuto la posizione in pochi. Una volta riferito lo stato delle cose ai tribuni, avrebbe radunato quanta più milizia poteva e li avrebbe raggiunti. Questi, quindi, fecero il saluto militare e corsero all'esterno a urlare a loro volta altri ordini.

Nella stanza vi erano solo un lungo tavolo con sei sedie, una dispensa vuota e, in fondo, una porta aperta che dava in un'altra stanza. Ora si potevano sentire solo i passi provenienti dai militari al piano superiore

Vidi quindi il comandante Probo accasciarsi sulle scale di legno che portavano di sopra, completamente spossato dall'assalto, non ancora finito, che aveva appena condotto.

Mi presentai davanti a lui e lo salutai militarmente.

Lui alzò lo sguardo e, riconoscendomi, abbozzò un sorriso stanco.

“Quali nuove porti, Mariniana?”, mi chiese gentilmente. Una gentilezza che suonava terribilmente fuori luogo, accanto all'odore di sudore e sangue che l'uomo emanava.

Gli feci quindi rapporto, raccontandogli quello che mi era successo nel tragitto, e riferendogli inoltre che l'arrivo dei Tribuni e dei capitani era imminente.

Annuì mestamente e si alzò in piedi, stirandosi la schiena con uno sbuffo sommesso.

“Sono costernato per la tua avventura fuori dalle mura”, mi disse poi, poggiandomi una mano guantata sulla spalla, “la prova del sangue non dovrebbe mai avvenire per nessuno, ma questa è la guerra, mia cara Storica. Hai comunque reso un servigio al nostro esercito, scoprendo il punto debole di quegli animali. Cercheremo di farlo sapere a tutto l'esercito insieme. Ora seguimi, diamo il benvenuto ai nostri superiori!”