Eccola là. Un’altra telefonata fiume a quella cretina della sua amica, solo perché è disperata che il suo smalto preferito si sia seccato. Ha aperto il barattolino e wrammm... tutti i frammenti sono caduti a terra, polvere della stessa consistenza del suo cervello. Indubbiamente il tipo a cui la dà ultimamente ci farà caso, che il suo smalto non sia abbinato al colore delle mutande, immagino.
Trentasette anni di pura inutilità. Un esempio decisamente esplicativo di un certo tipo di fauna femminile di questo millennio. Mi ci sono dovuta abituare, lentamente, inesorabilmente. Certo, da un qualche punto di vista, questi esemplari, sono divertenti: il vuoto cosmico. Quando ho visto per la prima volta insieme a lei in televisione “uomini e donne”, ho rischiato di vomitare il pranzo di Natale del 1827. Letteralmente.
Altra perla della mia collezione di orrori personali è stata quando siamo andate per la prima volta a festeggiare l’otto marzo. Prima volta in cui c’ero anche io, intendo. So per certo che lei sia dedita a questa pratica da quando ha cominciato a diventare una femmina senziente. Senziente è una sorta di crasi di “senza niente”, nel suo caso. Dio che serata, quella. Non me la dimenticherò per almeno i prossimi 100 anni. Il locale, con quei tralicci di mimosa messi ovunque come patetici trofei e, detto tra noi, un rametto profuma, una siepe di mimosa sa di pipì di cane, la musica che sovrastava le parole, disperdendo nell’aria una falsa allusione a lascìvia e notti di passione, il menù afrodisiaco... Ma per piacere... Le dolci donzelle che guardavano il ballerino manzo di turno, unto come per essere infornato, muscoloso ma con quel tanto di pesantezza e legnosità di movimenti che a tutto faceva pensare tranne che ad una notte di figure tantriche estreme, non avevano certo bisogno di ostriche decongelate e champagne del discount, per sprizzare spore in giro a mo’ di amanite falloidi. Giuro, questa mi è venuta d’istinto. Falloidi. Sono fiera di me.
Tornando alla mia assistita, quella sera finì in maniera pecoreccia con lei, all’epoca “felicemente” sposata - divento sempre più pungente, non c'è che dire! - che giocava ai cowboys con il suo istruttore di una cosa che non ho mai capito cosa sia, ma che dovrebbe, in teoria far dimagrire.
L’accoppiata completino comprato di nascosto per l’occasione, in combinata con la frase d’effetto “tu mi capisci, mica come lui”, mi impose di sparire da quella stanza. Ci ho messo giorni, per togliermi quelle immagini dalla testa. Senza peraltro riuscirci. Dicevo che alcuni lati del mio lavoro, quando incontro questi esemplari, sono, in un certo senso, divertenti. In tanti anni ho imparato ad essere poliedrica. Mi piace passare da un linguaggio timidamente forbito, con una certa eleganza discreta ma pensata, fugacemente pungente e decorosamente compita, frutto di diligenti letture e ormai passate piacevoli conversazioni pomeridiane, ad un flusso di pensieri più al passo con i tempi, gustando anche, perché no, il piacere di un vocabolo imbarazzante.
A dire la verità, non ho grandi ascoltatori, parlo ormai prevalentemente con me stessa, ma, anche in questo caso, mi piace trattarmi bene, sottoponendomi a questi esercizi lessicali, per tenere viva la mia mente. Almeno quella. Cosa che non si può dire della mia cara amica, qui presente, che, ancora al telefono, sta descrivendo all’altro premio Nobel, dettagli del suo ultimo incontro con il suo attuale cavaliere. Forse sarebbe meglio dire cavalcante. Dio, sono un fiume in piena, oggi. A volte mi fermo a guardarla, ovviamente non vista, e devo dire che mi fa anche un po' tenerezza. È una bella donna. Almeno quella bellezza che piace ad una certa tipologia di maschi. Fisico più pesante di quello che lei vorrebbe, ergo si ammazza in palestra con il tipo degli indiani e cowboys di cui sopra, per perdere quei chiletti che, invece, si ostinano a starle attaccati alle chiappe con più amore di quanto lei abbia riservato al suo ex marito. Vestiti sempre una taglia in meno di quella che una buona sarta metterebbe in lavorazione, trucco sempre effetto cena di gala della ex cooperativa trasporti pesanti Cecoslovacchia, elettroencefalogramma piatto, con qualche sussulto in occasione dei saldi. Lei è l’esatto esempio di quella specie di esemplari umani che ho sentito identificare, e non certo ad un ballo delle debuttanti, come cavalle da monta.
Dopo due secondi che la guardo, però, mi sale la rabbia. Niente di quello che normalmente sfiora l’animo di un essere umano riesce a toccarla. È saccente, cafona e piena di se: è, nell’ignoranza, ignorante di essere ignorante. Anni di scuola buttati al vento, nessun interesse, nessun talento coltivato. Sensibilità di una sogliola bollita. Intelligenza di un raviolo al vapore. Nei suoi obiettivi di vita c’è la summa di tutto quello per cui una società industrializzata, consumistica e qualunquista non debba andare fiera di se stessa.
È un po' che ci sto pensando. Dovrò portare a termine il mio lavoro entro un paio di giorni al massimo. Dovrà essere impeccabile, come sempre. E sembrare un incidente. Come sempre. Non che sia particolarmente entusiasta, questa volta. Lavoro davvero privo di stimoli. Neanche il committente gode della mia stima. Una cosa mi ha incuriosito, però: come abbia fatto a sapere di me e del mio lavoro e come si possa permettere tutto questo. Sarà una cosa che approfondirò dopo, se ne avrò il tempo.
Nel frattempo dovrò studiarmi qualcosa per questa idiota. Magari le faccio rompere un’unghia appena ricostruita. Questa cosa che non posso toccare gli oggetti, un po' comincia a infastidirmi. Sarebbe un attimo, se potessi farlo. Dovrò trovare il verso di fare quel benedetto corso di aggiornamento, prima o poi: ormai, con questo, dovrebbero essere centoventinove lavori fatti. Me ne manca un altro e poi potrò iscrivermi. Meglio se comincio a guardarmi intorno per trovare un insegnante valido. Quello dell’ultimo corso non è che mi sia piaciuto tantissimo: dodici lezioni, dico dodici per apparire in forma ed in salute. Va bene che il tempo non manchi, ma due lezioni erano sicuramente troppo.
È pur vero che dopo come mi aveva ridotta quella buonanima di mio marito,tornare ad apparire normale non era proprio cosa semplice. Il buco sulla tempia era davvero grosso, che sia maledetto di nuovo. Che diavolo di modi barbari... l’attizzatoio del camino. Del nostro camino in pietra, vanto della villa da almeno cinque generazioni. Quanto lo detesto. Ogni volta che ci penso mi sale il veleno, come si dice oggi. Non bastava dire “mia cara, il nostro matrimonio è finito, più finito di quel poveraccio del conte dopo la sua crisi finanziaria”? Me ne sarei andata. Certo, portandomi via tutto. Anzi, se ne sarebbe andato via lui, povero mentecatto, visto che la villa era della mia famiglia. E invece che fa?
L’attizzatoio del camino. È stato un piacere tornarlo a trovare. Certo, un po' la sorpresa l’ha fatta anche lui a me, perché trovarlo con quell’oca di mia cugina è stato davvero inaspettato. Dodici anni di matrimonio e non essersi accorta di nulla. Davvero, davvero imperdonabile. Davvero una leggerezza imperdonabile. Davvero un essere ingenua, imperdonabile. Comunque le loro facce nel vedermi lì, tutta mangiucchiata dai vermi, sporca di terra e col cranio sfondato, sono state davvero im-pa-ga-bi-li. Impagabili. Lavoro numero uno e lavoro numero due portati a termine senza nemmeno accorgermene. Deve essere stato lì che i piani alti si sono accorti di me. Talento naturale, hanno detto.
Sai che dico? Che tutto questo pensare al mio ex coniuge mi ha indisposto. Per cui, mia cara, è ora di salutarci. E ho anche trovato come fare. Corso numero tre, livello semplice: apparire riflessa negli specchi. L’insegnante lì mi piacque davvero una cifra, sempre come dicono oggi. Rapido, conciso, senza fronzoli: solo tecnica ed esercizi da fare nel mondo reale. Ho imparato quasi subito, al contrario del corso numero quattro. Sinceramente ho ancora difficoltà a muovere piccoli oggetti col pensiero. Col quinto, invece, sono stata un portento. Le allucinazioni sono il mio cavallo di battaglia.
Ci sono colleghi che dedicano al lavoro solo lo stretto indispensabile. Arrivano, un giorno o due e tac, cosa fatta. A me piace capire perché. Piace capire cosa porti le persone a cercarmi, cosa porti i legami a spezzarsi e ad andare a rinforzare le catene dell’odio. Sono un pochino più lenta, ok. Ma la questione ti chiamano, appari, infarto e via non fa per me. Mi piace godermi il risultato, mi piace capire se il mio cliente meriti il mio lavoro o no. Non che cambi granché, a me. Una volta che mi chiamano, io intervengo. Se poi la chiamata era immotivata, se la vedranno con chi di dovere. Anzi. Dal momento che mi chiami, comunque passerai dei guai. Ma almeno, se ne è valsa la pensa, affronterai tutto con un sorriso.
Mentre rifletto tra me e me, mi accorgo che la parte professionale della mia anima è già al lavoro. Mi metto di spalle alla mia vittima. Non perfettamente dietro, un po' di lato. Lei è impegnata a dare la seconda mano di stucco alla sua faccia. Un colore orribile, troppo scuro, che stacca con il collo. Dovrei dirle che gli anni novanta sono finiti. Mentre io sono poco più di un’increspatura nello specchio, la vedo passare la mano sul vetro, come a voler togliere il vapore. Non è vapore, tesoro. Sono io. Sto arrivando. Con uno sguardo contrariato passa a truccarsi gli occhi. Eyeliner nero. A me va bene, per fare questo dovrà avvicinarsi ancora di più allo specchio, come del resto sapevo. Poi sarà la volta dell’ombretto, poi di un altro e un altro ancora, poi due tipi di mascara, poi quella cosa difficile, il contouring. Cipria. Contorno labbra, ovviamente più abbondante è, meglio è, rossetto, lucido sopra. Mi sono sempre domandata come faccia a sopportare chili di roba sulla faccia. Come faccia a stare inguainata nei vestiti che porta, ad arrampicarsi sui tacchi che usa.
Sono settimane che sono la sua ombra, ma qualcosa di lei mi sfugge. Non capisco come non cerchi mai di evadere dalla gabbia che si è costruita, come non voglia mai la compagnia di qualcuno che non si limiti a montarla e sellarla, ma che magari veda in lei anche altro. Forse semplicemente non c'è nient’altro, e io mi sto distraendo. Mi concentro. Mamma mia come sono affascinate. Il verme che esce dalla guancia sinistra lo avevo dimenticato. Il mio riflesso, lentamente si sostituisce al suo. Il sangue rappreso sulla tempia, con panoramica su quello che è rimasto dentro. L’occhio mezzo fuori dall’orbita, per la botta. Quel sant’uomo di mio marito faticò ad estrarre l’attizzatoio dal mio cranio. Si era conficcato ben bene. Non credevo potesse avere tutta quella forza. E mi odiasse così tanto. Sento che lei inizia a respirare male. Si passa una mano sugli occhi. Il mostro è ancora nello specchio. Il mostro è lei. Il mostro sono io. Il verme sulla guancia penzola. Gli altri li sento dentro la mia faccia. Li sente dentro la sua faccia. Almeno io ho il corso numero nove, all’attivo: come non continuare a sentirsi morti. Tecniche per gestire la percezione di voi stessi. ventiquattro lezioni. Livello avanzato. Quello è stato davvero tosto. Ma necessario. È lo scalino più grande da superare. Ma è quello che forma i professionisti. Se non sai gestirti, finisci a fare il fantasma di serie B in qualche casale abbandonato, preda della rabbia, desiderio di vendetta e frustrazione. Come successe a me nella villa. Se non avessi seccato in pochi secondi quei due deficienti, magari non si sarebbero accorti mai di me. La vita, a volte, è una questione di culo.
La morte anche. E il post mortem pure. Se passi il corso, almeno, dai un senso a tutto questo casino. E così, mentre rifletto sui massimi sistemi, sento che il suo cuore ha raggiunto il limite. La vedo cercare di respirare, affannare, toccarsi convulsamente la faccia. Scivolare. La sento battere violentemente il mento sul lavandino. Cade stordita. Ora è in quello stato, un po' qua e un po' là, in cui riuscirebbe a vedere anche Babbo Natale. Mi vede. Pensa di essere diventata quello che ha visto nello specchio. Pensa che quella carogna mezza putrefatta sia lei. Sta impazzendo, al pensiero. Mi avvicino al suo viso. Manca il tocco finale: deve sapere. Alle mie vittime lascio almeno questo. Sapere perché. È già molto. A me non è stato concesso: l’attizzatoio è caduto sulla mia testa come io sono caduta dalle nuvole. Sapere perché è già una gran cosa. In un certo senso è un punto di partenza. Una motivazione. Se saprà cogliere l’occasione.
Mi avvicino al suo viso, consapevole di avere un profumino irresistibile. “Il suo ex marito le porge i suoi saluti, madame”. Per un istante vedo l’incredulità, leggo nei suoi occhi sbarrati il barlume del pensiero che le attraversa la mente senza ossigeno: come sia possibile? Come ha potuto quel cretino fare tutto questo? Sai che ti dico? Me lo sono chiesta anche io. Un’evocazione così, non è cosa che tutti fanno. Non è cosa che tutti sanno. Chissà che strada avrà percorso, quel poveraccio al quale hai spezzato il cuore, per arrivare a cercarmi. Tu pensavi che fosse un deficiente. Magari lo è. Sicuramente, lo è, per averti sposato, ma è un deficiente che ti ha fregato.
Ti troveranno lì, sul tappetino del bagno. Io sono libera: incarico finito, lavoretto fatto a modo. Fino a che qualcuno non mi cercherà di nuovo, potrò dedicarmi un po' a me stessa. Mi avvicino allo specchio. Guardo la marea di cosmetici sparsi tra la mensola, il lavandino e il pavimento. Devo decidermi a fare questo benedetto corso per usare gli oggetti. Un po' di fondotinta, magari, aiuterebbe. Pazienza. Mi concentro. Corso numero nove: gestire la percezione di sé. Mi guardo di nuovo nello specchio e vedo solo una donna triste.