Le ali del diavolo Onnigrafo Magazine

Le ali del diavolo

Era il 1835 e il Texas si apprestava a dichiararsi stato indipendente, senza rendersi conto che stava solo scegliendo di dipendere da qualcun altro.


A quei tempi la vita valeva poco, si moriva e si soffriva durante la strada. I più fortunati sentivano lo schioppo, poi nero perenne. Era convinzione comune che un colpo alla testa ti avrebbe privato del dolore che precede la morte, ma era una cazzata. Si soffriva. Per meno tempo, ma si soffriva.

Il 1835 faceva schifo. Era la vecchia frontiera, sempre sudicia e ignorante, dove nessuno sapeva cosa accadesse fuori dai confini della proprietà. Joe O’Mahony aveva un ranch, per esempio, faceva i gran soldi. Ogni primo giovedì del mese andava a Omaha, a vendere le sue bestie, e ci ricavava un sacco di denaro. Ma se avesse dovuto dire cosa ci fosse oltre la strada sterrata che portava alla stalla della città, avrebbe cincischiato frasi sconnesse tentando di nascondere la risposta che chiunque, nella sua posizione, avrebbe dato: “non lo so”.


Eppure, a est di Louisville, Micah Shaw aveva studiato. A vederlo ora non si direbbe, con quel grugno da fattore inasprito con cui ha iniziato a convivere, ma ai suoi tempi era uno che viaggiava. Da New York a Richmond, passando per il Mississippi, Shaw sapeva come andava il mondo. Siamo tutti ignoranti, tutti pronti a farci gli affari nostri, fino al giorno in cui il problema non viene a bussare alla nostra porta. Allora, lui lo sapeva, anche il più mite dei cristiani imbracciava un fucile e muoveva guerra verso il bastardo che gli aveva arrecato un’ingiustizia. Uomo ruvido, Micah Shaw, disincantato. Ha vissuto da bandito i suoi anni migliori, annusando spesso l’odore di un cappio senza mai salutare la pellaccia. Oggi fa il contadino e non è strano. Tanti hanno fatto come lui. Arrivano i quaranta e ti chiedi “quanto ancora posso andare avanti?”. Shaw, che di anni ne dimostrava già cinquanta, decise che era tempo di accasarsi. Vendette il suo compare all’esercito, incassò la taglia e ricevette una lettera di grazia. Poi si ritirò a Louisville, dove acquistò una schiava negra per dieci dollari, due anni dopo la mise incinta e, più per non crepare solo che per altro, la sposò. Quello che soprese i più (di sicuro sorprende me), è che quel vecchio bastardo si affezionò al marmocchio. Non fu amore a prima vista, ma il ritrovarsi per anni a spiegare a una vita come si caccia, si pesca o si prega innescò qualcosa in quel vecchio cuore inasprito. Shaw odiava tutti, ma non il piccolo Geremiah. A Geremiah voleva bene.


E arriviamo al 1835, quell’anno del cazzo. Ormai Shaw andava per i sessanta, e il figlio per i tredici. Era ancora un moccioso ma già cominciava ad appropriarsi dei gioviali tratti caratteriali del padre, come ruttare alla fine del pasto o pulire più spesso il fucile che il pisello. La madre, Janet, sembrava un povero derelitto annoiato, e viveva passivamente le sue giornate in attesa che il marito crepasse di vecchiaia. Non si lamentava, a molti della sua gente andava sicuramente peggio, ma nonostante l’anello che portava al dito, il tizio che le aveva dato il cognome continuava a trattarla come quello che era sempre stata, una schiava. Quel giorno, cucinava carne di gatto che Shaw le aveva spacciato per coniglio. Lo faceva spesso, convinto che, tanto, la moglie non si sarebbe accorta della differenza. Ma lei lo sapeva. Sapeva che lui, pur avendo una mira perfetta, tra le migliori del Texas, fosse un culo pigro da rimorchio, del tutto incapace di sopportare i tempi interminabili di una battuta di caccia. Probabilmente era per quello che sperava che Geremiah imparasse al più presto a sparare, in modo tale da lasciare a lui il compito di andare a prendere da mangiare. Quello che invece piaceva a Shaw, era la pesca. In quella casa si mangiavano più trote che conigli, solo perché l’uomo trovava molto meno faticoso camminare fino al fiume e sedersi in attesa che abboccassero, piuttosto che seguire per tutta la vallata le tracce di una bestia che potresti non riuscire a scovar mai. Infatti, quel giorno, lui e il ragazzo erano al fiume. Era pomeriggio, ma stavano lì seduti da prima di pranzo. Nel secchio c’erano due trote, e Shaw sperava di riuscire a prenderne almeno una terza, così da evitarsi il gatto che la moglie stava preparando per cena. La giornata andava a terminare quando Geremiah ruppe il silenzio.


Si può guarire dalla sifilide? – chiese.

Come?

La sifilide. Non c’è una cura per la sifilide?

E come ti sei messo a pensare alla sifilide?

Ieri, all’uscita da scuola, Tom Brown è andato dalla maestra Lynn e l’ha picchiata.

Ha fatto cosa?

L’ha picchiata. Ha detto che la maestra gli ha attaccato la sifilide.

Tom Brown? Il droghiere?

Ha detto che la maestra era una scrofa, e che la sua figa infetta lo aveva condannato a morte.


Shaw rimase per un attimo in silenzio. Non era tanto il pestaggio della maestra Lynn (che, del fatto che fosse una bagascia libidinosa, era bene a conoscenza), né la questione della sifilide... no, a destare sorpresa era che il vecchio Tom Brown, felicemente sposato con Margareth Brown da oltre vent’anni (uno di quei matrimoni sorretti da vezzeggiativi stucchevoli tipo “pulcina mia” o “paperotto”) non avesse resistito a infilare la palla nella buca della maestra. Proprio lui, che serviva la messa ogni domenica in veste di diacono.


Beh... – disse Shaw dopo il silenzio, - ... quando ero a Los Angeles conobbi un medico francese che girava il paese in carrozza. Vendeva pomate e unguenti miracolosi. Sbobba senza valore, se vuoi sapere la mia, ma continuava a ripetere di un medico italiano che aveva creato una crema curativa in grado di guarirti dalla sifilide... era diffusa in Europa, diceva, ma è introvabile da noi. Però lui sosteneva di sapere come procurarsela.

Quant’è lontana l’Europa?

Da qui? Molto... Se stai pensando di fare un salto laggiù per salvare la vita di Tom Brown, lascia perdere. Non hai i soldi per andare in Europa.

Non voglio salvare Tom Brown.

La tua maestra?

Già.

Quelle come lei non muoiono di sifilide. Sono come i ratti, le malattie gli stazionano sulla pelle senza compromettere la loro salute. A New York li chiamavano untori, stanno benissimo, ma come ti azzardi a infilarci il tuo... beh, hai capito.


Raramente, Shaw si ricordava che il figlio era pur sempre un bambino e, ogni tanto, riusciva a contenersi. Probabilmente era per questo che, rinunciando al terzo pesce, quel giorno iniziò a piegare la sua canna da pesca e sancì che fosse ora di tornare a casa. Quella sera avrebbero mangiato gatto. Di nuovo.

Micah Sebastian Shaw. Un nome che dice più di mille parole. Il padre era inglese e lo fece studiare, ma in lui c’era il fuoco del demonio, ripetevano gli insegnanti. Sapeva leggere, scrivere e far di conto, ma era l’avventura quello che bramava. A sedici anni scappò dal negozio di armi del padre rubando più merce di quanta le sue braghe ne potessero contenere. Prese munizioni, due fucili, tre pistole e tutto l’incasso del mese, saltò in sella al cavallo e si diresse a ovest “a fare l’uomo di successo” diceva. Peccato che la sua cavalcata si interruppe in Virginia, dove finì i soldi. A quel punto la scelta era tra tornare dal padre con la coda tra le gambe o fare qualcosa di molto, molto stupido.

Micah Shaw non rivide più suo padre. Di conseguenza, entrò in una banca con il fucile spianato, intimando al cassiere di dargli tutto l’incasso. Roba strana il destino. Di tutti i momenti in cui Shaw poteva decidere di rapinare una banca, scelse proprio quello in cui i McFarlane avevano pensato di agire. Di fatto, il ragazzo era lì a puntare l’arma al tizio alla cassa, quando Nigel McFarlane e i suoi venti uomini irruppero a volto coperto impartendo a Shaw la prima di mille lezioni: “ecco come si rapina una banca”.

Poi, qui è difficile spiegare cosa sia realmente successo nella mente di McFarlane. Forse era incuriosito dal ragazzo, forse vedeva in lui se stesso da giovane... fatto sta che, una volta svuotate le casse, disse a Dodgeson, il più grosso della banda, di incaprettarlo e portarlo via con loro. Quel giorno, la vita di Shaw cambiò completamente.

Pensava spesso a quei tempi, quando guardava suo figlio. Sperava di riuscire a spiegargli tutte quelle complicatissime cose che McFarlane faceva sembrare così semplici. Lui sapeva di non essere Nigel McFarlane. Di uomini così ne nasce uno ogni cento anni e, la maggior parte delle volte, lasciano l’impronta. Eppure lui no. Mentre Micah Shaw pescava trote con suo figlio, nel fiume che attraversa la valle, Nigel McFarlane spaccava rocce nella colonia penale di Saint Renoir, Florida.


Intanto, il sole tramontava e la campagna diventava nera attorno alla fattoria. Janet aveva già acceso il fuoco per arrostire il gatto cacciato il giorno prima. Quando marito e figlio entrarono, non li degnò nemmeno di uno sguardo. Dio, se voleva che Shaw morisse... era un suo pensiero fisso. Un trauma, un malaccio, un animale feroce nella foresta... qualsiasi cosa sarebbe stata perfetta, se gli avesse tolto quel negriero imbrutito di torno. Al contrario, il ragazzo ammirava il padre. Era giovane e felice, ancora incapace di vedere quella mistura di fango e merda di cui Shaw era composto. Dopo che la bestia ebbe fatto qualche giro sullo spiedo, i tre si sedettero a tavola per cenare.

Vuoi rendere grazie?

No.


Lei continuava a chiederlo tutti i giorni. I primi tempi Shaw aveva imparato quell’ipocrita filastrocca che la gente da bene chiama pregare, ma dopo qualche giorno ne ebbe abbastanza. Onestamente non credeva che a Dio, con tutte le cose che dovevano tenerlo impegnato, sarebbe importato di qualche amen in meno all’ora di pranzo, e per questo smise di pregare, consapevole che la moglie lo faceva già abbastanza per entrambi.

La cena si svolgeva nel più totale silenzio. Ognuno pensava ai fatti suoi, ognuno era preso dalle proprie faccende. Di tanto in tanto poteva capitare che Geremiah facesse una domanda, una di quelle domande cui la madre non sapeva rispondere tipo “quanti secondi ci sono in un’ora?” o “cosa c’è a sud del Messico?”. Di solito Shaw riusciva sempre a farfugliare una risposta, dando fondo a quello che aveva studiato da ragazzo o improvvisando su ciò che non era sicuro di sapere, ma quella volta non ce ne fu bisogno. Nessuno parlava, nessuno chiedeva e, quindi, nessuno rispondeva. Il silenzio era infranto dalla sonora masticazione del vecchio, scandito a intervalli quasi regolari dal risucchio che faceva quando portava il bicchiere alla bocca per bere. La donna si era ormai abituata a quei grugniti, d’altra parte non era nemmeno lei chissà quale dama di compagnia. Era talmente sciatta che, quando i piatti non erano particolarmente sporchi, li lasciava al sole per qualche ora, invece di scendere alla fonte per lavarli. A volte le stoviglie facevano un odore tale di carogna che i tre si ritrovavano a usare a turno la stessa forchetta, quella meno sudicia.

Sono cose che la uniscono una famiglia.


Un boccone dopo l’altro, e Shaw iniziò a pensare. Più che altro pensava a quel vecchio fucile Baker che non era mai stato in grado di riparare. Lo aveva trovato sul cadavere di un indiano poco più di un anno prima, evento singolare, dal momento che la zona era sempre stata piuttosto priva di indiani. Quella sì che era una storia interessante, il pellerossa aveva il torso completamente aperto, segno che qualcuno doveva essere stato più scaltro di lui, sparandogli un colpo dritto nella schiena. Il fatto che il Baker fosse rotto doveva aver convinto l’assassino a lasciarlo con la carogna del proprietario, ad ogni modo Shaw era convinto di poterlo recuperare. Eppure, ogni volta che tentava, il risultato era sempre lo stesso: due colpi esplosi e poi di nuovo il blocco. Era un caso disperato, ci aveva provato ben tredici volte prima di decidere che fosse irrecuperabile. In cuor suo, il vecchio sapeva di doversene disfare, di lasciar perdere e occuparsi d’altro, ma quel dannato arnese era diventato una sfida, ormai, prima o poi sarebbe tornato sotto le sue callose mani ossute.

Quindi stava ripensando al fucile quando, d’un tratto, il suono di qualcuno che bussa alla porta lo richiamò dalle sue riflessioni.


Chi mai poteva essere, a quell’ora? Il vicino più vicino era a chilometri da lì, e di sicuro non erano in molti gli individui desiderosi di passare a fare un saluto al vecchio Shaw e signora. Janet guardò il marito con due occhi enormi pieni di domande, domande cui lui non avrebbe saputo rispondere nemmeno volendo.

Prendimi il fucile... – e la donna si alzò per eseguire.


**********************************************


L’intento di Shaw era quello di avvicinarsi alla porta con fare furtivo ma, all’età sua, il solo scrocchiare delle ginocchia lo rendeva individuabile come un mulo in un catino. Ma era sempre Shaw. Voglio dire che la moglie gli diede il fucile e assistette, come altre volte in passato, a quella metamorfosi incredibile che trasformava Micah Sebastian Shaw il vecchio coglione inasprito, in Micah Sebastian Shaw lo svaligia-banche con 5.000 dollari di taglia sulla testa.

Si pose a un lato della porta, lanciando uno sguardo complice alla moglie. Janet capì e, subito, aprì. Era cinese.

La tizia sull’uscio, intendo.


Ragazza sui quindici/vent’anni... va a capirlo. Quei musi gialli ne dimostrano venti fino ai quaranta. Piangeva, poverina. Copiose lacrime che l’avevano evidentemente accompagnata durante tutto il viaggio che l’aveva portata lì, un viaggio che, a giudicare dallo stato di quegli stracci cenciosi che indossava, doveva essere stato lungo e per niente facile. La cosa che lasciò Janet di stucco, in ogni caso, era ciò che la tizia portava tra le sue braccia: un bambino. Un classico fagotto acciaffato, di quelli che vorrebbero nascondere il loro contenuto e che, qualche volta, ci riescono. Certo, non quando il tuo interlocutore è un esponente di una comunità con una consolidata esperienza in fatto di persecuzioni.

Shaw guardava la moglie e la vedeva impalata, muta, annichilita. Non sapeva chi ci fosse dall’altra parte della porta, non poteva vederlo, ma riconobbe immediatamente lo sguardo della sua donna, uno sguardo da “entra, forza”.

-Entra, forza...


Classico.

La cinese entrò in casa e Shaw fece giusto in tempo a nascondere il fucile dietro alla schiena. Un muso giallo, perfetto, ora il circo è al completo.

Che sta succedendo, donna? – chiese l’uomo.

Sta calando la notte, è sola e ha un bambino in braccio...


Shaw stinse gli occhi in attesa della fine della frase, un’espressione che a Janet permise subito di comprendere l’incapacità del marito di capire l’ovvietà del concetto. Sbagliava, Shaw non era stupido. La sua faccia non voleva dire “che significa?” piuttosto avrebbe potuto indicare “e allora?”.

È dovere di buon cristiano dare...

Ah, con queste cazzate da buon cristiano!

Calmati, la stai spaventando.

Non lavoro come un negro ogni santo giorno per condividere la mia roba con il primo che passa!

Ha un bambino.

Non mi interessa!

E se dovesse succedere a Geremiah?

Ah...


Nemmeno Janet era stupida.

Ragazzo...- disse Shaw, - ...prendi una sedia e una scodella di latte per il bambino.


Geremiah nemmeno rispose, era così abituato a eseguire gli ordini del padre che aveva messo le mani sulla sedia ancor prima della fine della frase di Shaw.

Come ti chiami? – chiese Janet.


La ragazza non rispose. Non voleva? Non parlava inglese? La donna non avrebbe potuto dirlo con certezza. In ogni caso le diede la sua parte di spezzatino e attese che Geremiah arrivasse col latte. La ragazza iniziò a fagocitare quel gatto come se fosse stato il piatto di carne più prelibato che avesse mai mangiato.

Puzzava. Accidenti quanto. In un attimo il fetore di ascelle sudate aveva appestato tutto l’ambiente. Shaw, che dal momento in cui la cinese si era seduta era rimasto completamente in silenzio, sedeva in un angolo e guardava la donna studiandone ogni centimetro del corpo. Quel tanfo era insopportabile. Shaw aveva frequentato posti che non spiccano certo per igiene e pulizia, eppure quella puzza era qualcosa che nemmeno uno come lui era in grado di sopportare.

Immagino che vorrai riempire la tinozza...- proruppe il vecchio.

Cosa dovrei fare? Lasciare che continui ad appestare casa per tutta la notte? – rispose la moglie.

Io esco a fumare.


L’uomo prese il tabacco e fece per uscire. Sull’uscio si voltò a dare un’ultima occhiata alla cinese.

Vedi di farti spiegare da cosa sta scappando.

Non credo che parli la nostra lingua.

Capisce benissimo.


Udendo quelle parole, la ragazza alzò lo sguardo verso l’uomo. Il suo era uno sguardo fiero, tipico degli orientali. Lo sguardo di una donna che non ti permetterà di metterglielo nel culo, costi quel che costi.


Ci sono un vecchio, una negra e una cinese... sembra l’inizio di una pessima barzelletta. La campagna attorno alla baracca che gli Shaw chiamano casa era tranquilla, soprattutto di notte, e la notte iniziava presto lì. Anche adesso, dove altri avrebbero visto il rosso delle nuvole che risplendeva su tutta la vallata ricordando alle formiche che sciamavano sotto di esso che quello fosse il tramonto, Shaw vedeva il buio. D’altra parte, raggiunta una certa età si pensa sempre più spesso al concetto di fine.Mi sveglierò, domani? Ci sarà un altro giorno? Piangeranno per me? Domande che Shaw si faceva da quando aveva compiuto sedici anni, ma mai con una frequenza tanto fitta.

E ora una cinese puzzona stava mangiando la sua roba. Strana la vita. La cosa singolare è che, in cuor suo, non disdegnava qualche incrinatura del suo quotidiano. L’avventura gli mancava. L’adrenalina, l’odore della polvere da sparo, la consapevolezza di essere stato più veloce del tizio che ti si è messo di fronte... l’indomani avrebbe accompagnato la ragazza al trading post in paese, e l’avrebbe lasciata al suo destino, pensava.

Poi sentì un rumore. Anzi, il rumore. Quello di qualcuno che vorrebbe avvicinarsi senza farsi notare, a est, dietro alla radura.

Non era solo, ci avrebbe giurato. Uno veniva da est ma, dalla parte opposta, almeno altri due stavano facendo lo stesso balletto. Come potesse immaginarlo, noi poveri stronzi non lo capiremo mai.

Di certo quella che si profilava all’orizzonte era una situazione del cazzo. Shaw era uscito senza armi, gli uomini attorno a lui avevano senz’altro qualche sputafuoco nei cinturoni e i suoi acciacchi fisici gli avrebbero impedito di risolverla alla vecchia maniera. No, l’unica cosa che poteva fare era improvvisare, come sempre. Mise una mano in tasca, dove teneva il suo coltellaccio. Non era importante che fosse armato, ciò che contava era che i suoi ospiti lo credessero tale.

Bisogna essere dannatamente sicuri di sé per entrare nelle proprietà di qualcuno facendo tutto questo casino... – disse.


Il tizio a est si fermò, il messaggio era arrivato forte e chiaro. Questo era una dichiarazione d’intenti, e diceva “se venite avanti vi sparo nel culo”. Per un attimo fu solo il frusciare del vento tra le foglie, poi qualcuno deve aver fatto due conti, tanto da decidere che la cosa migliore fosse uscire allo scoperto.

Non sparare... – disse l’uomo saggio uscendo dal suo nascondiglio (a ovest, guarda caso), - ... non abbiamo brutte intenzioni.

Questo lascialo decidere a me.


Erano in tre, due da ovest e uno da est. Brutti come la merda di vacca. Il primo a uscire, l’uomo saggio, pareva un orso a cui qualcuno aveva lanciato i denti in bocca a caso, facendoli incollare alle gengive senza alcuna logica. Il suo compare era smilzo come il manico di una scopa, e aveva un occhio vitreo che sfoggiava con orgoglio, come se quella fosse una sorta di testimonianza delle palle d’acciaio che nascondeva in mezzo alle gambe. A est, invece, la stonatura di questo bel terzetto di coglioni: un cinese basso, magro, con la barba lunghissima, quasi quanto i capelli neri che gli scendevano ai lati. Sopra, invece, era calvo.

Dico sul serio amico, siamo viandanti affamati, non volevamo metterti in allarme...

Davvero? E io che vi ho scambiato per tre stronzi nascosti nella mia fottuta proprietà...

In realtà volevamo solo qualche informazione, capo, nient’altro...


Cercavano lei, era evidente. Shaw con gli anni era diventato bravo a capire la gente. L’uomo saggio era il capobanda e parlava per evitare che gli altri due facessero una stronzata. Il cinese continuava a guardare il vecchio come se avesse voluto spaccargli la testa e leggere quello che c’era scritto dentro. Lo smilzo, probabilmente, voleva solo fottere qualcosa, e non necessariamente qualcosa di umano. Ma di certo, quei tre volevano la tizia e il figlio.

Hai visto...? No, dico, hai per caso visto una femmina gialla passare da queste parti? – “bingo”, pensò Shaw, - È sola e spaventata, e ha un bambino con sé. Vorremmo riportarla a casa, dalla sua famiglia...

È gialla – aggiunse lo smilzo, come se il compare non l’avesse appena detto.

Una gialla con un bambino? Beh, me ne sarei accorto, questo è sicuro... no, qui non s’è vista.


Il saggio rifletté un secondo su quelle parole. Poi sorrise in modo distorto, tale da non permettere di capire se si stesse sforzando di risultare amichevole o se semplicemente volesse usare i suoi denti per intimidire.

Sai, si possono guadagnare bei bigliettoni facendo un favore alla persona giusta... il suo padrone è molto... è molto affezionato a quella puttana, non so se mi spiego...?

Mi stai dando del bugiardo, ragazzo?

Cosa?

Ho detto: mi stai dando del bugiardo... ragazzo?

Hey calmati, vecchio! – intervenne lo smilzo, - Ti sta solo facendo una domanda!

Non mi sembra di averti rivolto la parola, cazzetto, o mi sbaglio?!


Il tono di voce risuonò su tutta la vallata. Sembrò un rombo di tuono, o il clangore di una spada. Di certo era roba che intimoriva. Nella testa dell’uomo saggio le risposte possibili erano innumerevoli. Poteva riportare i toni a un andamento più sereno, oppure mandare quel vecchio arrogante, che lo guardava come se fosse il garzone di una bottega gestita da mormoni, a fare in culo... o, molto più semplicemente, poteva sparargli lì, su due piedi, e chiudere la faccenda. Ma quegli occhi... quegli occhi sapevano di passato. Un gran bel passato, speso tra mandrie rubate e bounty killer alle calcagna. Quel vecchio lì, pensava, avrebbe freddato lui o uno dei suoi compari prima che gli altri due avessero avuto il tempo di ammazzarlo. Ma, di fatto, tutti quei pensieri non raggiunsero mai il loro culmine. No perché ogni meccanica mentale fu stroncata lì, in quel preciso momento, quando dall’interno della casa si udì un suono inconfondibile: quello di un bambino che piange. In quel momento, il cinese si mise ritto sulla schiena, segno che, al più piccolo cenno del capo, era pronto a fare la sua mossa.

Mio nipote si è svegliato... – disse Shaw senza tradire alcuna emozione, - ... direi che è tempo per voi di togliervi dai coglioni.


In quel momento, tutti i presenti capirono cosa stessero pensando gli altri.

Va bene, vecchio... facciamo a modo tuo. Sicuramente hai le tue ragione per comportarti come un culo pieno di emorroidi... speriamo tu non debba pentirtene.


Shaw non rispose. Vide il capo fare un cenno ai suoi e, voltate le spalle, scomparire alla fine della strada sterrata. Dopo essersi assicurato che nessuno dei tre fosse rimasto di vedetta, il vecchio rientrò in casa.

Abbiamo un problema.

Che problema?

La tizia se ne deve andare.

Cosa? Che succede?

Dov’è?

Vuoi rispondermi?

Sta zitta! La donna deve andarsene! Tra un po’ questo posto brulicherà di cazzoni armati!

Cosa?

Dov’è?!

È... è nella tinozza...


Shaw si precipitò nell’altra stanza, lasciando Janet dietro di sé, assieme a Geremiah, che teneva il neonato in braccio. La cinese si stava lavando nella tinozza, e si sarebbe anche addormentata se il vecchio non fosse entrato come un grizzly in calore.

Fuori.


Quella povera ragazza non ebbe nemmeno il tempo di svegliare il cervello, con quella vecchia cariatide ingrugnita che l’afferrava per il polso e la tirava fuori come fosse un fuscello secco. Ovunque l’acqua seguiva l’andamento del gesto, bagnando ogni possibile superficie si trovasse nell’ambiente.

Io non ho voglia di essere fottuto, ragazza!


La tizia continuava a urlare in cinese ma, per Shaw, avrebbe potuto farlo anche con l’accento del New England e non l’avrebbe comunque ascoltata. Intanto il bimbo tra le braccia di Geremiah riprese a piangere.

Non mi piace, capito! Non voglio che qualcuno me lo ficchi in culo, nemmeno dal miglior cazzo del Texas, chiaro?!

La stai spaventando!

‘fanculo! ‘fanculo! Chi sono quei tizi? Che vogliono da te? Parla o, quanto è vero Iddio, ti sbatto fuori senza nemmeno darti il tempo di rivestirti!

Sono schiavisti del cazzo, Shaw! – gridava Janet nella speranza di calmare il marito.

Cosa?!


Janet si avvicinò. Prese un telo asciutto e lo diede alla cinese per coprirsi. Poi le mise entrambe le mani sulle spalle.

Diglielo. Digli quello che hai detto a me...


E la donna parlò. Parlò per un tempo che parve infinito. Raccontò tutta la storia dall’inizio, partendo dal giorno in cui lasciò Shanghai con la sua famiglia, passando per la parentesi che la vide lavare gli indumenti dei minatori a San Francisco... fino ad arrivare al giorno in cui Bob Crook la acquistò per dieci dollari a un’asta di schiavi a Pasadena.

Bob Crook. Dovevi vivere davvero nel buco di culo più remoto della costa ovest per non averlo mai sentito nominare. Era una sorta di barone dell’oro, un tizio che si era guadagnato i primi spiccioli vendendo alcol ai pellirossa per il doppio del suo valore. Prese una concessione mineraria a nome della sua famiglia nel 1832, da lì è iniziata la sua ascesa. La cinese non era tanto colpita dal fatto che un riccone volesse una schiava orientale e impreziosire la sua collezione, quanto più per il fatto che a lei fosse stata destinata una stanza privata, lontana dagli altri servi e domestici. Ma Crook era un tipo strano, gli piacevano i giochetti. In breve la donna capì quanto profondo fosse il baratro di perversioni dell’uomo bianco. Il barone era il gran maestro di una specie di setta razzista, gente che si considerava il dono di Dio alle donne, o roba del genere. Eppure, nel buio perpetuo della sua magione, Crook si eccitava con le schiave. Non era una questione di colore della pelle, riguardava più che altro lo status sociale. Una serva poteva essere nera, irlandese, cinese o messicana, il fatto di averla tra le sue proprietà gli faceva rizzare il suo manubrio peloso. E la perla d’oriente acquistata per dodici dollari era la sua punta di diamante. Crook se la scopava giorno e notte, notte e giorno... il solo sentire la sua voce lo trasformava in un porco libidinoso dalle palle straboccanti di sperma.

Sperma che, inevitabilmente, finì con l’inseminare la bella cinese di cui era tanto orgoglioso.

Ovvio che la cosa non poteva trapelare. Non solo Crook era un uomo felicemente sposato e prototipo di un genitore modello, ma era anche il cazzo di gran maestro dei cappucci bianchi dell’ovest.

La cinese riuscì a scappare da quel posto e, se sapete cosa prevedeva la legge degli Stati Uniti per gli schiavi in fuga dal padrone, potete immaginare la fretta che aveva di mettere quanta più strada possibile tra lei e il barone.

In ogni caso, trovò un po’ di pace. A Las Cruces, New Mexico. Lì una schiava negra al servizio di Crook aveva una sorella che si rivelò ben disposta ad aiutarla. La fece entrare al servizio del padrone (un uomo non piacevolissimo ma abbastanza tollerabile) e partorì in tutta tranquillità un maschio di tre chili e due: Wu. Ma si sa, se non seppellisci i morti, questi tornano a tormentarti.

Una settimana fa, circa, gli sgherri di Crook riuscirono a trovarla. Erano una trentina, tutti pesantemente armati, e fecero una carneficina. Il padrone, la sua famiglia, i suoi schiavi, i suoi mandriani... nessuno fu risparmiato dalla ferocia degli invasori. Tra di essi, armato di sciabola, c’era anche un cinese. Piccolo piccolo, ma impetuoso come l’inferno.

La gialla era ancora una volta una donna in fuga. Prese suo figlio, un cavallo e fuggì. Gli inseguitori non le diedero scampo e, in prossimità di un bosco, riuscirono ad abbatterle la cavalcatura. Si trascinò tra il fogliame e le rocce, dove riuscì a infilarsi in una profonda grotta che le permise di fuggire di nascosto.

Vagando a piedi per giorni, affamata e indebolita, raggiunse la casa di Shaw.

Il resto è storia.


Scappare è inutile- disse Shaw.

Cosa?- gli fece eco Janet.

“Cosa?”! “Cosa?”! Cristo santo, non sai dire altro?! Ho detto che scappare è inutile!

Fece una pausa, probabilmente per recuperare la calma.


Quelli verranno qui. E che trovino la gialla o no, uccideranno tutti. Daranno fuoco alla casa e ammazzeranno il bestiame. Ormai il tempo dei discorsi è finito.

Altro silenzio, sempre più pesante. Stavolta fu Janet a interromperlo.


Che facciamo? Non possiamo... no?

Non serviva una frase di senso compiuto, Shaw sapeva benissimo dove la moglie volesse andare a parare. “Non possiamo usare la donna come merce di scambio, no?”. Sarebbe anti cristiano, sarebbe inumano. Sarebbe sbagliato. Sarebbe tutto quello che la Bibbia condanna, no? Eppure, Shaw lo sapeva, la donna ci stava pensando. Per suo figlio, per la casa... per la sua dannata pellaccia. “Che facciamo?” chiedeva, “Non si può, no? Dimmelo tu Shaw. Dimmi sì o no, prenditi tu la responsabilità della decisione, fai in modo che io possa dare la colpa a te, vecchio bastardo che ha mandato a morire una ragazza e suo figlio appena nato, pur di salvarsi”.

No – rispose Shaw.


E non aggiunse altro. Guardò la ragazza, in lacrime, che abbracciava suo figlio. Quindi capì di essere invecchiato davvero. Uscì di casa senza dire una parola. Si diresse nel fienile. C’era un armadio grande, lì, lo sapevano tutti in famiglia ma a nessuno era dato il permesso di aprirlo. Non ci sarebbero neppure riusciti, visto che la chiave per l’immenso lucchetto che rendeva inespugnabile la catena su di esso era parte di una collana legata attorno al collo di Shaw.

Un armadio vecchio ma resistente, che non veniva aperto da... mah, chi lo sa? Probabilmente da prima che Geremiah venisse al mondo. A conti fatti, era questo a rendere solenne il momento. Shaw si tolse la collana, aprì il lucchetto. La polvere sulle ante dell’armadio, smossa per la prima volta, disegnava in aria spirali cristalline che riflettevano la luce delle lanterne. Era tutto al suo posto, una scena dipinta finemente, in cui ogni elemento assisteva alla riesumazione di un qualcosa che voleva restare celato per sempre: il passato di Micah Sebastian Shaw.

Le armi erano innumerevoli, così come le munizioni e la polvere da sparo. Ma a rendere l’uomo inquieto era altro. Quello spolverino logoro, reso bianco dalla polvere dei suoi viaggi, e quel dannato cappello con un foro di proiettile al lato. Quella roba era più di una veste, era una seconda pelle. Era l’identità che Shaw aveva prima di ritirarsi. Era la divisa di un uomo morto che torna a camminare tra i vivi.

Vieni avanti, ragazzo – Geremiah sapeva che non sarebbe rimasto nascosto a lungo. Suo padre sapeva sempre come trovarlo, come se avesse avuto gli occhi anche dietro la testa. Avanzò verso quella versione di suo padre, una versione avvolta in uno spolverino che lo rendeva colossale.

Sta per succedere qualcosa di brutto, lo sai.

Sì.

Non era una domanda. Voglio che prendi l’olio per lanterna che abbiamo in casa. Dovrebbe essere abbastanza da riempire due barili. Porta i barili alla base dello steccato, uno a est e l’altro a ovest. Fai in modo che siano visibili il meno possibile. Capito?

Sì.

Qualsiasi cosa vedrai oggi, io sono tuo padre. Sempre.

Sì.

Bravo ragazzo.


E Geremiah uscì. A quel punto al vecchio non restava che tornare dalla moglie. Lei avrebbe riconosciuto quegli abiti. Avrebbe compreso il significato attorno ad essi. Non ne sarebbe stata felice, pensava Shaw, ma avrebbe capito. Lui era uno stronzo, un vecchio scorbutico. Ma sapeva valutare una situazione e, di certo, non avrebbe riesumato la sua vecchia roba se non fosse stata davvero l’unica opzione possibile. Gli occhi della donna rilucevano nel nero profondo che era la sua faccia, un po’ merito del bianco dell’iride, un po’ a causa delle lacrime che Janet cercava di strozzare.

Prendi questo...- le disse Shaw passandole un moschetto francese, - ... resterete soli, in casa, io cercherò di sbrigarmi tutto il lavoro da solo... ma, se non dovessi farcela...


L’uomo abbassò lo sguardo.

... se non dovessi farcela dovrai finire il lavoro, intesi?

Sì.

Tu, sai sparare? – la cinese, chiamata a rispondere alla domanda, si limitò a fare di sì con la testa. Shaw le diede due pistole.

Sono delle Harper’s Ferry. È roba di un certo livello, vedi di non fare cazzate...

Rivolto verso la porta, Shaw si incamminò per uscire. Poi, sull’uscio, si voltò un’ultima volta verso la moglie.

Per quel che conta...

Lo so – lo interruppe lei, - Lo so.


Poi l’uomo uscì. Portandosi dietro l’inferno.


Lui stesso aveva lasciato quella piccola cunetta nel tetto, quando costruì l’ala principale della casa. Salire lassù era una cosa che sperava di non dover fare mai, ma quella era la serata giusta per ritrattare le vecchie promesse, a quanto pare. Era una buca infossata che permetteva a un uomo di piccole dimensioni di nascondervisi dentro, una sorta di trincea allestita in previsione di momenti bui. Da lì aveva una vista perfetta su tutta la vallata, e su suo figlio che, piazzati i barili, stava tornando verso casa.

- Geremiah! – disse.

- Cosa?

- Sali quassù.


Il ragazzo, come al solito, obbedì senza esitazione. Il tetto era evidentemente troppo piccolo per entrambi. Shaw era un metro e novanta abbondante, senza contare che quello spolverino lo faceva apparire enorme, tipo di dieci o venti centimetri più alto. Inutile dire che non sarebbe entrato nella cunetta. Il figlio lo guardava con l’espressione di chi è pronto ad accettare qualsiasi cosa, mentre il vecchio tirò fuori dalla tasca quell’assurdo aggeggio a forma di pistola. Geremiah era giovane, ma sapeva il fatto suo in tema di sputafuoco, e quella non aveva l’aspetto di niente che avesse mai visto.


Anni fa... – disse il padre per smorzare lo smarrimento, - ... io e un vecchio compare ci mettemmo in un giro d’affari più grande di noi. Un tizio ci disse precisamente dove una grossa diligenza sarebbe passata e cosa ci avremmo trovato dentro: gente ricca. Gente schifosamente ricca. Avremmo potuto tenere tutto, ci disse, a patto che gli avessimo portato una cassettina di legno finemente lavorato, appartenente a uno dei passeggeri a bordo. Era un piatto ghiotto e, all’epoca, non mi facevo troppe domande sugli ingaggi. Una cassettina in cambio di un mucchio di soldi? Non dovevi essere il più studiato dei professori per capire che fosse un affare.


Shaw prese la mano del figlio e ci pose l’arma.


Io e il mio compare litigammo duro, quella volta. Una di quelle litigate che si risolvono solo con un buco in testa e tanto whiskey. Purtroppo, aperta la cassetta successe qualcosa che non avevo affatto previsto... mi innamorai del suo contenuto. Il passeggero a cui la presi si chiamava Emilio Rosaglio, un italiano in viaggio verso il Connecticut per incontrare un fabbricante d’armi cui vendere un rivoluzionario modello di pistola in grado di sparare sei colpi in meno di sei secondi. La chiamava schioppo a sei cariche successive di una sola canna... è tua, adesso.


Geremiah strinse il calcio dell’arma. Non era affatto maneggevole ma, se in sei secondi poteva sparare sei colpi, non si sarebbe nemmeno sognato di lamentarsi. Era un’opera d’arte, non una semplice pistola, un pezzo di raffinatissimo artigianato italiano, dal valore inestimabile. Il fatto che al padre non fosse mai saltata alla testa l’idea di venderla, era valore aggiunto. Se pure un canchero abbrutito come Micah Shaw era rimasto vittima dell’intrinseca bellezza di quell’arnese, il suo pregio artistico doveva essere innegabile.

Tu resterai quassù. Io mi piazzerò al confine del campo di granturco. Non riusciranno a colpirmi, se resterò nascosto lì, mentre tu, da quassù, mi coprirai con questo...


Shaw passò al figlio un secondo fucile.

Mi raccomando, solo quando loro saranno abbastanza vicini alla casa potrai usare lo schioppo a sei cariche. Le munizioni di quell’arnese sono impossibili da trovare, quindi non avrai molti colpi a disposizione, intesi?

Sì.

Bravo ragazzo.


Sulle scalette che riportavano a terra, il vecchio diede un ultimo sguardo a suo figlio.


Avrei tanto voluto evitarti tutto questo, figliolo, credimi.

Grazie signore.


Il vecchio rise. Dopotutto aveva fatto un buon lavoro. Era un ragazzo educato, onesto, di cuore... non aveva mai dovuto punirlo più del dovuto, né aveva mai dovuto alzare la voce per sgridarlo. Il padre di Shaw, Irwin, era un mite inglese, eppure, quando si metteva in testa di dare una lezione al figlio, gli sfondava la schiena a suon di vergate. Certo lui era stato un ragazzo molto diverso da Geremiah, ma non era solo quello. Shaw sapeva che, tra lui e il figlio, c’era rispetto. Era una questione di correttezza, i due sapevano di poter contare l’uno sull’altro e, con buona pace del vecchio Irwin, questa è una cosa che impari solo assaltando diligenze e rapinando banche. Perché quando sopravvivi a tutti i dollari di taglia che ti mettono sulla testa, capisci quanto sia importante metterti in affari con la gente giusta. Capisci che nessun bottino vale quanto la più totale e completa fiducia. Una fiducia che, pian piano, inizi a percepire. Shaw la percepiva. Il suo compare no e, infatti, il vecchio lo aveva venduto.

Si fece strada nel campo di grano. Aveva un fucile sulla spalla, uno in mano e un paio di revolver nella fondina. Ma, soprattutto, aveva gli anni. Quei brutti ceffi che lo avevano avvicinato al tramonto erano dei bifolchi, sì, ma navigati. Erano gente con una certa esperienza in fatto di rapimenti e spargimenti di sangue. Shaw poteva già immaginare la loro banda, un gruppo di venti, forse trenta figli di puttana. E vuoi che, tra tutti loro, non ci fosse stato almeno uno in grado di fare la festa al vecchio Micah? Però lui aveva gli anni. E sono quelli a fare la differenza. La fecero a Las Venturas, quando Alan Perkins e i suoi lo avevano stanato insieme alla sua banda. La fecero a Fort Pastor, quando riuscì a far evadere McFarlane caricandoselo sulla schiena mentre gli uomini del colonnello Perry gli scaricavano addosso una pioggia di piombo rovente. E, in ultimo, la fecero in Virginia, dove gli Abenaki lo avevano sorpreso a fottere la figlia del capo villaggio e volevano tagliargli il suo...

Un rumore.


L’aveva sentito o solo immaginato? Stronzate, certo che l’aveva sentito. Qualcuno, al suo posto, si sarebbe augurato che fosse stato uno dei rari animali notturni che si trovavano a passare da quelle parti ogni notte. Uno sprazzo di normalità in una situazione che normale non lo era neanche un po’. Non Shaw. Shaw sentì quel classico rumore di ramoscello secco calpestato e, calandosi nel grano col fucile puntato, pensò “leviamoci il dente”.

Una ventina di uomini, forse trenta, come da copione. Da dov’era lui poteva immaginarne cinque oltre le siepi, lì dove anni prima aveva messo un cartello con scritto “proprietà privata”. Un altro gruppo sarebbe sceso da est, dalle parti del fiume, mentre il terzo, quello che aveva prodotto il rumore, stava arrivando da ovest ed era più vicino degli altri. Solo una persona poteva saperlo con esattezza, il giovane Geremiah, cui Shaw si rivolse con lo sguardo. Il ragazzo non aveva mai visto il gesto che il padre gli stava facendo, eppure comprese immediatamente il suo significato. “Vengono da ovest?”, Geremiah annuì.

A quel punto bastava veramente poco. Un cappello, un lembo di pelle, un riflesso della luna sulla fibbia metallica di uno di quegli stronzi... al più semplice segnale, Shaw avrebbe fatto fuoco. Non era teso. Non lo era affatto. Come mille suoi simili il vecchio sapeva che la tensione fosse una cattiva compagnia, in situazioni come quelle. Devi essere rilassato, morbido, dimenticare il sudore che ti imperla la fronte e avvicinare dolcemente il dito sul grilletto. A quel punto “bang!”, il vecchio fece fuoco. Non saprei dire cos’abbia visto con esattezza. Un cappello, un lembo di pelle, un riflesso... chi lo sa? Personalmente mi piace pensare che Shaw sapesse semplicemente quando sparare. Che fosse perfettamente sincronizzato con l’avanzare del gruppo ovest. Erano cinque? Dodici? Venti? Non importava. Ciò che davvero fece la differenza era il barile d’olio per lanterne, colpito in pieno dal proiettile di Shaw. Poi fu un concerto di grida.

Ovunque, uomini fatti e finiti correvano piagnucolando come bambini. I più scafati tra loro riuscivano a esprimersi con quel tanto di freddezza necessaria a lasciarli urlare “uccidetemi!”.

Gente preparata, pensava Shaw. Qualcuno che sapeva di non avere scampo dalle fiamme, e che fosse più intelligente chiedere ai compari di sparargli, piuttosto che di spegnerli. A modo suo, l’uomo li ammirò, per un attimo.

Il gruppo che arrivava da est non poteva sapere cosa quell’esplosione fosse stata. Di fatto, nemmeno le vittime ne potevano essere del tutto sicure.

Che succede?! – gridavano.

Hanno piazzato delle trappole! – risposero da ovest.


Ora toccava all’altro barile. Il fucile tra le mani di Shaw non brillava certo per velocità, in fatto di tempi di ricarica. Eppure l’uomo lo gestiva con tutta calma, come se quella fosse stata una sessione di tiro al piattello e non il fottuto inferno sulla terra.

A quel punto i tre gruppi non avevano più ragioni per avanzare con circospezione e, imbracciate le armi, si fecero avanti belli incazzati. Non potevano certo immaginare che Geremiah fosse sul tetto. Né che la sua mira rivaleggiasse con quella del padre. Lo smarrimento era testimoniato dalle frasi ricche di incognite che gli uomini si rivolgevano l’un l’altro. “Chi ha sparato?!” si chiedevano “Dove cazzo si nascondono?!”. Domande che giungevano alle orecchie di Shaw come grugniti di un’unica creatura smarrita nel suo dominio, piena di incertezze e di terrore, incapace di realizzare di essere incappata in un fazzoletto di civiltà isolato nella terra selvaggia. Una creatura che sperava di arrivare, prendere la sua preda e portarsela nella tana per mangiarla. Una volpe tranciata dalla tagliola davanti al pollaio.

Quindi esplose un secondo barile.

Stavolta nessuno chiedeva agli altri di porre fine alle proprie sofferenze, e la compagine di avversari andava via via a delinearsi. Da est arrivavano i pivelli, da ovest quelli più navigati. La vera domanda era “chi sta scendendo da centro?”.

Intanto Geremiah sparava, incapace di vedere il padre dileguarsi tra erbe alte. Non aveva mai ucciso niente di umano ma, se aveste potuto vederlo in quel momento, avreste pensato che fosse un pistolero già da anni, tanti quanti la sua giovane età non avrebbe lasciato trasparire. D’altra parte il sangue bastardo di Shaw gli scorreva nelle vene, e non doveva essere poi solo merda. A un tratto, mentre ricaricava il fucile, riuscì finalmente a scorgere il vecchio. Era dietro allo spaventapasseri, con il solito fucile in mano. Lo aveva ricaricato durante la corsa ed era pronto a usarlo. Fu lì che Geremiah conobbe quel lato mai visto del suo vecchio. Mentre si ergeva dal suo nascondiglio, sparando un colpo dritto al petto di un cristiano, i lembi del suo spolverino guizzavano nell’aria smossi dal movimento. Sembravano due ali d’angelo trapiantate sulle scapole del peggiore dei diavoli. Era bello. Da vedere era un simposio di velocità e precisione, uno spettacolo di formidabile raffinatezza. Shaw era stato tante cose per Geremiah, un mentore, un padre, un capo... ma bello non lo era stato mai. Mai fino a quel momento. Incredibile come la capacità di uccidere, mista alla velocità d’esecuzione, alla prontezza di riflessi, all’infallibilità del metodo, possa avvicinarti alla perfezione. In quel momento Geremiah vide suo padre e, mai come allora, ne fu orgoglioso. Tanto da distrarsi.

E, in quei momenti, una distrazione può esserti fatale.

Un colpo dritto alla spalla sinistra lo colpì in pieno. A sparare era stato un tizio che lui non aveva mai visto, ma in cui Shaw avrebbe potuto riconoscere lo smilzo fotti-polli con un occhio solo incontrato poco prima. Ai fianchi del tale c’erano due bifolchi dai tratti scimmieschi. Gente che si eccita con le capre, di solito, smaniosa di mettere le mani su un bambino per ragioni che noi gente da bene non possiamo nemmeno concepire. Ma in quel momento erano solo incazzati, e non gli si sarebbe rizzato l’uccello nemmeno se Geremiah fosse stato femmina.

Shaw era troppo distante per potersi accorgere della cosa. Soprattutto era circondato ai lati da compari e amici di gente che, poco prima, aveva trasformato in carne alla brace, dunque aveva il suo bel daffare al momento. Geremiah era sicuramente un ragazzo fuori dal comune, ma nessuna parola al mondo può prepararti al momento in cui ti becchi il tuo primo proiettile.

Dopo il colpo alla spalla tutto attorno a lui divenne attufato. I rumori di lotta sembravano distanti e la reattività sembrava un ricordo lontano. “Ho sbagliato tutto...” pensava, “... devo riavvolgere e tornare indietro!”.

Incredibile dove ti porti la tua psiche quando sei a un passo dalla morte. I ragionamenti di Geremiah non stavano in piedi e si ammassavano l’uno sull’altro come a voler impedire che il cervello si accorgesse del dolore. Ma il cervello se ne era accorto, e cavolo se pulsava. Lo smilzo e i due bastardi erano a un passo dalla casa, pronti a salire le scalette e fare la festa al giovane. Poi fu unclick, unbang e la testa dello smilzo non c’era più.

La cinese aveva aperto la finestra laterale sparando un colpo dritto avanti a sé. Lo smilzo non era più un problema ma, gli altri due, promettevano di esserlo. Fortunatamente, anche Janet aveva le palle. Tra le gambe e nella canna del moschetto. Un colpo al petto del bastardo di destra diede il tempo alla cinese di ricaricare e colpire l’ultimo, regalando alla famiglia Shaw un bel terzetto di cadaveri.

Ma altri erano in avvicinamento, e sparavano. Janet aveva la frase in bocca e se la fece sfuggire.

Geremiah, torna dentro!


Ma il ragazzo era troppo frastornato per eseguire, e la cinese fu costretta a trascinare la donna in casa con la forza, per evitare che una pallottola la centrasse in pieno.

La situazione stava andando in merda, e Shaw lo sapeva. Anche se distante, poteva riconoscere l’assenza del suono del fucile del figlio. Udendo il suono delle pistole date alla cinese, il vecchio non ebbe più dubbi “sono arrivati alla casa”. Le sue vecchie gambe non gli avrebbero permesso di correre tra il fuoco nemico per quella distanza ma, e lo sapeva, stava accoppando una carogna dopo l’altra già da un po’ dunque, se mai ci fosse stato un momento buono per tirare fuori la testa da un nascondiglio durante una guerra, sicuro come l’inferno era quello. Lasciò il fucile, prese le pistole e si alzò. Le sue angeliche ali da diavolo galleggiarono in aria confondendo ulteriormente i suoi già frastornati nemici. Erano in cinque, per un po’. Poi furono morti. Da lì era in grado di vedere una decina di stronzi correre verso la casa. Fece altrettanto, ammesso che si possa definire corsa quel balletto sbilenco che il vecchio si mise a fare per raggiungere la sua famiglia. Ma, per ogni due passi, ricaricava una pistola e sparava e, a ogni colpo, centrava qualcuno. Non che riuscisse a uccidere un cristiano a proiettile ma, comunque, stava infliggendo parecchi danni alla formazione avversaria, per questo cinque decisero di fermarsi e rispondere al fuoco. Gli altri avrebbero continuato la marcia verso la casa sfruttando la copertura dei compagni.

Janet e la cinese, intanto, avevano identificato tutti i buchi della parete in cui era possibile infilare la canna di un fucile o di una pistola. Nessuna delle due era particolarmente brava ma, dalla loro, avevano l’odio. La gialla schiumava tanta di quell’acredine che un colpo dritto alla pancia non le avrebbe fatto uscire nemmeno una goccia di sangue. Era l’odio a muoverla, l’odio a tenerla in vita. Quello, misto al suono del neonato che frignava nella camera da letto. Una fonte d’energia cui solo una madre disperata può attingere.

Geremiah, invece, non faceva niente. Era nel panico, rannicchiato nel buco, una caricatura d’un pistolero. Il padre ne aveva visti a centinaia ridotti a quel modo, in vita sua, ragazzi giovani, convinti di essere pronti al combattimento solo perché, magari, avevano colpito un barattolo vuoto in più rispetto al fratello o avevano fortuitamente ammazzato un messicano ubriaco cui si era inceppata la pistola. Sbarbatelli senza una reale esperienza che, messi davanti a una vera sfida, si pisciano addosso e si bloccano. Certo, Geremiah era ben più giovane di tutti loro, ma Shaw sapeva che a gente del genere serve una spinta. Serve un qualcosa che li rimetta sui binari facendogli capire la più stupida delle verità: la vita è dura.

E nessuno avrebbe mai augurato a Geremiah la spinta che sarebbe arrivata quella notte. Perché, alla fine dei conti, era un bravo figlio e, se lo aveste conosciuto, gli avreste augurato una buona sorte anche voi. Gli avreste augurato di crescere, studiare, metter su famiglia e trovare dell’oro, magari in California, lontano da lì.

Eppure, la vita è dura. Anche quella di un bravo figlio. E, in mezzo a quel delirio di suoni ovattati che vorticavano nella sua testa, un urlo si fece strada e riaccese per sempre il suo spirito.

L’urlo era di Janet.

E Geremiah non fu mai più lo stesso.


Un tiro molto preciso aveva raggiunto il seno destro della donna. Non morì sul colpo, e alla cinese sembrò una buona cosa, perché illudeva di poterla salvare. In realtà Janet era spacciata. E soffrì parecchio, prima di spegnersi.

Shaw, in lontananza, era impegnato a combattere i suoi cinque, quando l’urlo della moglie fendette l’aria. Allora guardò verso la casa e lo vide. Un pezzo di lui era negli occhi del figlio mentre, solenne ed elegante, si ergeva dal suo buco impugnando lo schioppo a sei cariche.

Cinque colpi.

Cinque colpi per cinque teste.

Sua madre era stata vendicata.


Scese di sotto rapido come una saetta. La cinese era sul corpo di Janet, viva, ma prossima a esalare l’ultimo respiro.

M-madre...

Figlio...

S-starai bene, ti porteremo dal dottore! S-starai bene, tu...


La cinese mise una mano sulla spalla del ragazzo. Non servivano parole per spiegare lo sguardo della donna. Janet se n’era andata, e restava solo da augurarle di raggiungere il Signore cui era tanto devota. L’urlo di dolore che Geremiah lanciò, risuonò potente su tutta la vallata e, udendolo, Shaw capì. I tre bastardi che si frapponevano tra lui e suo figlio erano ben nascosti e lui sapeva di non poter emergere senza correre il rischio di essere colpito per primo.


Intanto, in casa, Geremiah si stava asciugando le lacrime. Era pronto a uscire per dare manforte al vecchio e, caricato lo schioppo, si rese conto di avere solo otto colpi a disposizione. “Basteranno” si disse e fece per uscire. Ma, fuori dalla porta, fu aggredito da qualcosa che non avrebbe potuto immaginare. Una figura piccola e dannatamente agile, una figura che gli aveva tranciato un orecchio con una spada. “Chi se ne va in giro con una spada, oggigiorno?” si chiese il ragazzo, mentre tutte le sue domande trovavano risposta alla vista di quel cinese minuto che lo aveva atterrato. Geremiah era veloce ma, al primo colpo di schioppo sparato verso il nemico, scoprì questi essere molto più veloce di lui. Una schivata laterale, chinandosi in basso, permise al giallo di calciare la mano armata del giovane facendogli perdere la presa sulla pistola. Certo lo sguardo di Geremiah era fiero e sdegnoso, eppure dovevi essere un vero figlio di puttana per aggredirlo senza tenere conto che fosse poco più di un bambino.

Nel frattempo la cinese, rimasta senza proiettili, urlava nella sua lingua verso l’uomo che, invece, non la degnava nemmeno di uno sguardo. I suoi gelidi occhi erano tutti per il giovane americano che giaceva in terra avanti a lui, premendosi la ferita all’orecchio. Pronto a calare la sua lama, il piccolo orientale alzò l’arma verso il cielo, riflettendo la luna e le stelle sul suo lucente lato destro.

Su quello sinistro, invece, era riflesso altro. Una vecchia carogna cinta da uno spolverino e con una pistola in mano.

Una pistola che dissebang!


Il cinese era morto e, con lui, tutta la sua banda. Shaw non osava incrociare lo sguardo con quello del figlio, poiché era proprio in quelle situazioni che emergeva tutta la sua incapacità di padre. Cosa gli avrebbe detto? Mi dispiace? La vita va avanti? No, quelle erano puttanate da funerale prive di qualsiasi conforto. Si limitò a guardare la cinese.

Troverò il modo... – disse lei in perfetto inglese.

Di fare che?

Di sdebitarmi.


Shaw non poteva credere alle sue orecchie. Era furioso, fuori di sé. Come poteva pensare che ci fosse un modo per ricambiare...quello?! Come poteva anche solo credere che la morte di una moglie... di una madre, fosse in qualche modo riparabile? Nella sua gola si ammassò tutto il veleno e l’acredine che gli ribollivano nel sangue. Era pronto a urlare, sbraitare, picchiare, se necessario... quando la mano del figlio toccò la sua.

Era un bravo figlio, Geremiah. Stava soffrendo, come dubitarne. In fondo era poco più di un bambino, anche se il Texas faceva crescere in fretta. Fu a quel punto che i due si scambiarono l’occhiata, quella che Shaw non riusciva a trovare il coraggio di affrontare. Si guardarono e compresero di essere rimasti soli. E che, aldilà di tutto, avrebbero potuto sempre contare l’uno sull’altro.

Ma nella radura c’era qualcuno che non lo avrebbe permesso. Lo diceva il vento. Shaw lo sentì, e anche Geremiah se ne rese conto.

Chi scendeva dal centro?Lo stavano per scoprire.

-Donna...- disse Shaw rivolgendosi alla cinese, -... prendi tuo figlio, il mio e portali via.

- Sì.

- Cosa?!- disse Geremiah.

- Devi andare, ragazzo, c’è un terzo gruppo in avvicinamento.

- Col cazzo! Non ti lascio solo!

- Linguaggio, giovanotto!


La voce del padre era ancora in grado di silenziare ogni rimostranza. Shaw si chinò per portare il suo volto all’altezza di quello del figlio.

La vita fa schifo, ragazzo. Annaspo nella merda da quando avevo la tua età, però... però gli ultimi anni non sono andati tanto male.


Il vecchio diede una guardata alla cinese. Non era tipo da smancerie, figurarsi se si sarebbe mai immaginato di farne davanti ad estranei. Eppure continuò il suo discorso.

Se ripenso a tutte le puttanate che ho fatto, a tutti i casini in cui mi sono cacciato, alla gente che ho perso, io... se ripenso a tutto questo penso che, alla fine... alla fine rifarei tutto, per rivivere gli anni che ho trascorso con te...

Signore...

Ascoltami. Tua madre è morta per salvare questa donna e suo figlio. Era quello che voleva ed è quello che ha fatto fino alla fine... noi... morire tutti qui non ha senso. Non dà senso alla morte di Janet lei... lei avrebbe voluto la tua sicurezza. E il piccolo ha bisogno della tua protezione. Non ti sto chiedendo di scappare. Ti sto chiedendo di proteggere le persone per cui tua madre ha sacrificato la sua stessa vita...

I-io...

Puoi farlo?

N-non...

Puoi farlo per me?


Geremiah si asciugò gli occhi.

Sì.

Bravo ragazzo.


E i due si abbracciarono per l’ultima volta.

Andate a est, cavalcate fino a Richmond, in Louisiana. Al tavolo da poker del saloon c’è un tizio di nome Morris. Ditegli chi siete e che vi serve protezione. Vi chiederà dei soldi, allora dovrete rispondergli che i soldi li ha già avuti a Dodge City nel 1829. Stai dietro al mio ragazzo o tornerò dall’inferno per prenderti a calci in culo, intesi?


La cinese annuì. Poi si voltarono. Lei entrò per recuperare il figlio, mentre Geremiah stava sellando la cavalla del padre. Montarono in groppa alla bestia e fecero per andarsene.

Padre e figlio si scambiarono lo sguardo. L’ultimo sguardo che si sarebbero mai scambiati. Poi Shaw rimase solo.

La chiudiamo qui.


Geremiah galoppava verso un orizzonte che, ormai, stava cedendo il passo all’alba. In lontananza tra il suono degli spari che provenivano da quella che era casa sua, gli parve di distinguere i colpi del padre. Nei suoi occhi riusciva addirittura a vedere le ali del suo spolverino che si agitavano durante la sparatoria.

Le ali del diavolo.

La vita fa schifo. Era vero. Una sera sei seduto al tuo tavolo che mangi il tuo gatto, ignaro che da un momento all’altro una cinese con un marmocchio farà il suo ingresso pronta a sconquassarti l’esistenza. La giornata era iniziata come mille altre e prometteva di finire come mille altre. Eppure ora era lì, su un cavallo che trasportava tre persone verso un’alba sempre più alta.

Nel buco insanguinato dove un tempo spiccava l’orecchio di Geremiah una sola parola continuava a risuonare: Richmond.

Quella notte non sarebbe mai passata per quel ragazzo mulatto che, un giorno, sarebbe cresciuto diventando il più pericoloso degli Shaw.