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LA CACCIA MORTA, di Chiara Rota Bulò
liberamente ispirato a una leggenda della Valle Brembana
Dora si strinse nello scialle, riattizzando le braci nel camino, mentre sua madre metteva in tavola quel poco che era riuscita a racimolare per cena.
La piccola casa al limitare del bosco era silenziosa, nonostante la famiglia numerosa che vi abitava. Da quando il padre di Dora era morto le cose stavano andando male.
L’uomo aveva lasciato una vedova e cinque figli, tutti ancora troppo piccoli per lavorare. Dora aveva quattordici anni ed era l’unica che potesse aiutare, quindi si occupava dei bambini mentre sua madre cercava di portare a casa qualche soldo lavando i panni dei vicini nel ruscello dietro casa. Non era sufficiente, a stento riusciva a comprare un po’ di farina per la polenta. I bambini diventavano ogni giorno più magri, e la piccola Teresa, che aveva solo un anno, ormai era ridotta a un pallido fantasma tutto occhi.
Dora ogni sera pregava Dio perché nessuno si ammalasse. Se fosse successo sarebbe stata una condanna a morte, non si sarebbero potuti permettere di chiamare il dottore. Il parroco ogni tanto andava a trovarli, diceva loro di avere fede, ma Dora ormai stava perdendo le speranze. Nessuna risposta arrivava mai, nessun aiuto, nessun segno che a qualcuno importasse se loro morivano di fame. La ragazzina si sentiva impotente, contemplava la lenta agonia della propria famiglia pensando che sarebbe stata disposta a fare qualunque cosa per salvarla da un destino che sembrava già deciso.
Mentre consumavano il loro magro pasto, in lontananza si sentì un latrare di cani. Tutti si fermarono e alzarono la testa con un identico movimento di allarme. “Dora, sbarra la porta, presto! E prendi Teresa!” disse sua madre, alzandosi per chiudere le ante delle finestre. “Mamma, ho paura!” si lamentò Luigi, che aveva solo tre anni. Nonostante la giovane età sapeva bene cosa fossero quei latrati. Lo sapevano tutti, perché le storie viaggiavano veloci, saltando di bocca in bocca e rimbalzando da un fianco all’altro della valle.
“No, Luigino, stai tranquillo” lo calmò la madre. Si sedette accanto al camino e il piccolo le si accoccolò in grembo. Dora rientrò nella stanza tenendo Teresa in braccio e dopo qualche istante l’intera famiglia era radunata intorno al fuoco.
“E se la caccia morta ci prende?” chiese Adele, preoccupata.
“No, è impossibile” la zittì suo fratello Battista con tutta l’autorità dei suoi undici anni. “La caccia morta non ti prende se non esci di casa, lo sanno tutti” proseguì il ragazzino.
“Ma qualcuno l’ha mai vista?”
“Ho sentito di uno che ha chiesto alla caccia morta di dargli una delle sue prede, solo che poi, la mattina dopo...”
“Battista! Falla finita, stai spaventando i tuoi fratelli!” lo redarguì la madre.
“Preghiamo, invece” disse poi, togliendo un rosario dalla tasca del grembiule. Iniziò a mormorare a mezza voce un’Ave Maria in latino zoppicante, alla quale i bambini si
unirono di malavoglia.
Dora si alzò in piedi, depose la piccola Teresa tra le braccia della madre e si avviò verso la porta con fare deciso.
“Dove stai andando?” chiese la donna. “Non si può uscire, è pericoloso!” gridò, ma era troppo tardi. La ragazza era già sparita nel buio.
Mentre camminava a passo svelto verso il bosco, Dora sentì di nuovo in lontananza il latrato dei cani, insieme al rumore metallico di catene trascinate a terra. La caccia morta si stava avvicinando. La giovane percorse il sentiero lungo il fianco della montagna, fino ad arrivare ad una piccola radura in cui il ruscello zampillava in uno specchio d’acqua poco profondo. Si fermò e, voltandosi verso il sentiero, urlò con tutta la voce che aveva nei polmoni: “Caccia morta! Dammi una delle tue prede!” Subito l’aria si fece più scura e densa, il rumore di latrati e catene divenne assordante, e galoppando fuori dalle tenebre comparvero uno a uno i cavalieri della caccia morta, accompagnati da segugi con gli occhi che brillavano di una luce demoniaca.
Dora cadde all’indietro, terrorizzata da quell’apparizione infernale, e si raggomitolò a terra. I cavalieri le girarono intorno due, tre volte, e la ragazza sentì le loro voci incorporee risuonarle nella testa in una cacofonia indistinta di urla disumane. Uno dei cavalieri incappucciati smontò di sella e le si fece incontro. Dora sapeva chi fosse, le storie lo dicevano. Forse lui avrebbe ascoltato le sue preghiere. La figura non parlò, si limitò a rivolgerle un cenno, aspettando che fosse lei a raggiungerlo, rimanendo in attesa con uno stivale poggiato su una bassa pietra, in atteggiamento noncurante.
Dora andò da lui. La figura alzò una mano guantata e gliela pose sul viso, passandole le dita sopra ad un occhio. La ragazza sentì nella testa una voce suadente mormorare parole in una lingua che non riusciva a capire. Poi diventò tutto nero, e Dora cadde a terra.
Quando si risvegliò era mattina. Si rialzò a fatica, notando che accanto a lei era posato un involto di tela. Lo aprì. Dentro c’erano diversi pezzi di carne. La ragazza sorrise soddisfatta, prese l’involto e si incamminò verso casa. Mentre lasciava la radura, lo sguardo le cadde su una pietra poco distante, la stessa su cui il cavaliere aveva poggiato il piede la notte prima. Era rimasta un’impronta, ma non quella di uno stivale. La forma era quella di uno zoccolo di capra.
I bambini si affacciarono in cucina, svegliati dal profumo dello stufato. La tavola era imbandita, le ciotole piene di pezzetti di carne che furono divorati nel giro di pochi minuti. Dora rimase in disparte, seduta nell’angolo in ombra accanto al camino.
“Dora? Dove hai trovato la carne?” chiese Battista quando ebbe finito di mangiare. La ragazza si portò un dito alle labbra.
“Shh. È un regalo” rispose, e suo fratello si accorse con orrore che l’occhio sinistro della ragazza era diventato bianco come quello di un cieco.
Dora sorrise dolcemente, mentre dall’altra stanza giungeva il grido lacerante di sua madre, che aveva appena scoperto che la piccola Teresa non era più nella sua culla.
SOMNIA APP di Paolo Ferrante
La mattina mi svegliai con uno strano sapore in bocca. Provai a bere dell'acqua e del latte, ma non se ne andava via facilmente. Prima di andare a scuola, a colazione mio padre mi chiese se stessi bene, io replicai dicendo che non c'era nulla che non andasse. Lui però mi disse che era preoccupato per me, dato che quella notte ero stato sonnambulo. Mi aveva visto vagare per casa a occhi chiusi fino a rientrare in camera come nulla fosse, ma aveva preferito non svegliarmi.
A scuola, chiacchierando con i miei compagni di classe, venne fuori la discussione e a un certo punto uno di loro disse che esisteva una app chiamata Somnia. In pratica il funzionamento era semplice: mentre alcune app registrano se russi o parli nel sonno, questa faceva molto di più: prima calcola i tuoi cicli del sonno e della veglia e poi, sulla base di algoritmi complicati, indovina il momento esatto in cui inizia il sonnambulismo, e se ti fissi il cellulare al braccio, essa aiutata dal giroscopio, percepisce il movimento e attiva la fotocamera del telefono per registrarti alcuni minuti.
Immagino che lo scopo di questa app sia avere qualcosa da mostrare allo psicologo, per cercare di capire le origini della patologia.
Così incuriosito mi convinsi a scaricarla e provarla. La riempii di dati personali come altezza, peso, età, orario di addormentamento e di risveglio. Infine, partì un tutorial breve in pochi passaggi con delle animazioni che spiegavano come tenere il cellulare vicino al corpo durante il sonno. Si consigliava l'acquisto di una fascia da avvolgere al braccio, tipo quelle che usano gli sportivi quando fanno jogging, per poterci mettere il cellulare e avere anche informazioni sul battito cardiaco. Decisi quindi di acquistarne una e di indossarla prima di andare a dormire, infilandoci il cellulare con la app in funzione ma lasciata in latenza per risparmiare sulla batteria. Dopodiché spensi la luce e mi coricai.
La mattina seguente era domenica, mi svegliai tardi ancora con quel saporaccio nel palato, e preso dalla curiosità decisi di consultare il cellulare, che aveva ancora una buona carica. Vidi che il filmato era un po' pesante, sui 50 MB, allora lo esportai sul portatile usando la connessione bluetooth. Vista la lentezza con cui lo faceva, decisi nel frattempo di darmi una sciacquata, fare colazione e infine farmi un giretto.
Appena rincasai, vidi che l'uploading era finito e feci per aprire il video, ma in quel momento mi chiamarono degli amici al cellulare, e mi vennero a prendere per andare a giocare a pallone. Feci ritorno a pranzo e nel pomeriggio giocai ai videogame dimenticandomi del filmato, finché non si fece buio e decisi di fare i compiti. Dopo cena, mi chiamarono altri amici e uscimmo in città, andammo a bere fino alle due del mattino.
Rincasai silenziosamente e feci per mettermi a letto quando mi ricordai finalmente del video. Misi le cuffie e mi sedetti nel buio della camera davanti all'unica luce emanata dal mio laptop. Cliccai due volte e vidi che i primi minuti erano neri, e così decisi di saltarli andando più avanti.
A un tratto, vidi che qualcosa nel filmato si muoveva e tornai un po' indietro, godendomi lo spettacolo. La mia soggettiva nel video era cambiata: ero in piedi, finalmente. Vidi che mi stavo muovendo fino alla porta della camera, girando la maniglia con un movimento meccanico del polso destro. Avevo camminato scalzo fino alla portafinestra della veranda che dava fuori nel cortile e avevo aperto anche quella, uscendo al freddo.
Una volta fuori, ero andato nel buio del giardino fino in fondo verso i cespugli di rose di mia madre, e lì mi ero fermato, per poi inginocchiarmi e iniziare a scavare nel terriccio, fino a trovare qualcosa ricoperto di insetti e vermi. Con un altro gesto del braccio avevo raccolto una grossa manciata e l'avevo portata all'altezza della testa. Sentii schioccare le mascelle e poi masticare rumorosamente più volte. Rimasi ammutolito con gli occhi sbarrati e le mani che mi ero istintivamente portato alla bocca. Quello lì ero davvero io? Cominciai a capire da cosa veniva quel sapore cattivo con cui mi svegliavo ultimamente ogni mattina. Ma perché facevo tutto questo? Avevo lo stomaco pieno di insetti adesso? Occorreva una lavanda gastrica? Ma le cose non finirono lì. Nel video, terminato lo spuntino macabro, mi ero alzato ed ero tornato sui miei passi rientrando in casa. Prima di dirigermi in camera ero entrato in bagno, che era a malapena illuminato dalla luce lunare fuori dalla finestra. In quella scarsa luce, vidi che la fotocamera aveva ripreso un frammento dello specchio, che mostrava il mio volto con gli occhi chiusi e il resto della faccia avvolto in una penombra sinistra. Lentamente, il mio viso aveva assunto un'espressione strana: la bocca si era aperta fino a spalancarsi troppo, oltre i limiti consentiti dall'anatomia...
Misi in pausa il video, pieno di paura e nausea verso me stesso. Non chiusi occhio quella notte, e neanche la seguente. Attualmente sono seguito da uno psichiatra che trova il mio caso piuttosto interessante, e mi prescrive oltre ai sonniferi dei farmaci che dovrebbero rallentare o tamponare alcune aree del cervello per intorpidirlo ulteriormente, da assumere prima di andare a dormire. Ho provato a usare l'app Somnia altre volte, ma non è più successo niente di così eclatante, per cui l'ho disinstallata. Ultimamente però ho ripreso a svegliarmi con un nuovo sapore in bocca. Stavolta mi pare di identificarlo. Ricorda qualcosa a metà fra il metallico e il salato.
LA CASA DELLE ZUCCHE di Oriana Turus
Fin da quando era bambino, Freddy era stato una spina nel fianco per i suoi genitori. La madre, ostetrica nel vicino ospedale, e il padre, primario di fama mondiale, avevano pensato a tutte le soluzioni possibili per farlo crescere in maniera dignitosa, ma la loro mancanza di empatia nei suoi confronti era stata la causa di disagio maggiore.
Li uccise così, a soli sedici anni, appiccando un incendio nella casa che l’aveva visto nascere. Non si preoccupò mai di ritornarci fino a quando non fu messa all’asta e decise di ricomprarla. Era un intagliatore e avrebbe fatto della sua antica dimora il suo laboratorio.
Ricordava con piacere la cantina, dove si rifugiava nei giorni difficili. Non aveva paura del buio, al contrario, le tenebre facevano parte del suo DNA: dormiva di giorno, lavorava e usciva di notte.
Bladed House, dopo gli avvenimenti passati, aveva fama di essere posseduta da demoni e fantasmi che ancora avevano dei conti in sospeso con questa vita, impossibile stabilire quanto fosse vero, perché subito dopo l’incendio e la scomparsa di Freddy, nessuno ebbe il coraggio di varcare la porta di quella casa.
Il giorno in cui Freddy si presentò all’agente immobiliare, lo fece con il nome di Jason Leatherface, di professione libero professionista nel campo delle vendite. Il suo conto in banca era una prova sufficiente per l’acquisto della proprietà. Come se li fosse procurati non era dato saperlo.
Ci vollero mesi per sistemarla, dopo l’incendio più della metà era andata distrutta e le condizioni climatiche del periodo non permettevano una continuità.
L’unica costante rimaneva il lavoro di Freddy. Ogni notte la luce delle candele illuminava la piccola cantina, dove lui intagliava senza sosta. Nessuno nel vicinato sapeva realmente che faccia avesse e lui ben si guardava dall’uscire alla luce del sole.
La gente aveva saputo della sua esistenza solo dal cartello di vendita non più piantato nel terreno e dalla presenza di un paio di uomini che si occupavano della ristrutturazione ai quali però, nessuno osò mai fare domande.
A loro era stato dato l’ordine tassativo di lavorare, in fondo venivano pagati per quello, senza mai chiedere nulla e, se anche ci fosse stato il benché minimo sospetto che la faccenda fosse losca, non sarebbero stati i due operai ad avvisare le autorità competenti.
Dopo alcuni mesi di assoluto silenzio o quasi, i rumori provenienti dalla casa divennero molesti. Chi abitava nelle vicinanze non seppe spiegare da cosa derivassero certi suoni o cigolii che, prima d’ora, nonostante la fama di casa infestata, non si erano mai presentati in maniera così potente.
Il fenomeno apparì alquanto strano, soprattutto in virtù del fatto che questo, iniziò a manifestarsi a poca distanza di tempo dalle sparizioni di alcuni adolescenti.
Era ottobre. Tempo di miti e leggende, di streghe, fantasmi e zucche illuminate. Le stesse che Freddy intagliava con tanta passione e accanimento, si scoprì.
Nulla accadde, fino a quel giorno.
27 ottobre, ore 23.00. Urla. Piano di sopra. Candele. Zucca intagliata alla finestra. A sinistra.
28 ottobre, ore 23.00. Urla. Piano di sopra. Candele. Zucca intagliata alla finestra. A destra.
29 ottobre, ore 23.00. Urla. Piano di sotto. Candele. Zucca intagliata alla finestra. A destra.
30 ottobre, ore 23.00. Urla. Piano di sotto. Candele. Zucca intagliata alla finestra. A sinistra.
31 ottobre. Silenzio. Le zucche tutte ancora al loro posto.
1° novembre, ore 5.00. Bladed House deserta. A parte per quegli occhi, che dalle teste arancioni intagliate e scoperchiate, osservavano. Scrutavano. Lo sguardo fisso di Michael, Judith, Annie, Bob, i loro capelli a coprire la faccia.
Quattro ragazzi scomparsi. Quattro grida diverse. Quattro morti. Quattro zucche, guardiane di una casa maledetta.
Fu così che Freddy scomparve, come molti anni prima, nella notte considerata infestata, sotto gli occhi sbarrati e capelli lucidati. Da formalina conservati.
MANGIA PER ME di Francesco Lumine
«Avanti, un altro boccone...»
«Non mi piacciono gli spaghetti.»
«Ai bambini italiani piacciono, eccome…»
«Io non sono italiano.»
«Ma la tua mamma lo è», dice Sara, accennando un sorriso. Per un attimo sembra spensierata. «Tu lo sai dov’è l’Italia, Mickey?»
Il bambino non risponde. Quattro anni. Guarda sua mamma dritta negli occhi. Quegli occhi tristi della sera. Cerca una risposta che ancora non sa.
«Io sono americano», risponde poco dopo, «come il mio papà.»
Sara avverte un brivido. Sente il respiro farsi pesante. Gli occhi tristi della sera guardano in basso.
Mickey non si decide a mangiare. La forchetta è sporca di sugo, e poco più in là c’è suo figlio.
Serio, impenetrabile. Sta pensando.
«Proviamo a fare il gioco di papà, allora. Ti va?»
«No.»
«E gira, gira, gira… E gira, gira, gira…»
«Ho detto no!»
«Ma che ti prende, Mickey…»
«Lui non diceva così!»
«Lui… cosa? Insomma… mangia per me, Mickey…»
«Papà è morto, e vola nel cielo!»
«Mickey, non fare così, la mamma…»
«Papà è morto, e vola nel cielo!»
E tu gli somigli così tanto, vorrebbe urlare Sara. Gli occhi si bagnano. Mickey ha la stessa
espressione di Harry mentre lo teneva per mano, il suo ultimo giorno di vita. Aveva scoperto il male
solo due mesi prima. Lo aveva preso. Non lo aveva lasciato più andare. Il tumore al colon è il più
diffuso, signora, le aveva detto il dottor Reed.
«Mangia per la mamma, amore… Mangia per…»
«No, voglio papà!»
«Mickey… Tesoro, smettila…»
«Lasciami! Non voglio mangiare! Voglio papà!»
«Mickey la vuoi finire, Cristo santo…»
«Voglio andare in cielo con papà! Voglio andare in cielo con papà!»
«Smettila! Smettila! Smettilaaaaaaa!»
Sara si alza di scatto. Il piatto vola. Grida, si agita, è furiosa. Lo colpisce. Chiudendo gli occhi tristi della sera. Non sa quello che fa, ma lo fa. Mickey cade a terra. Sara urla, il volto inondato dalle lacrime. Dove sei, Harry.
Poi, si rende conto. Oddio, Mickey. Oddio, amore. Cosa ho fatto. Il bambino è svenuto, il bambino non risponde. Sara è nel panico. Si chiede dove sia il suo telefono. Si volta verso la credenza. Vuole raggiungerlo, prima che sia troppo tardi. Si muove veloce verso il telefono ma scivola. Scivola, sul dannato sugo. Sugli odiosi spaghetti che sono finiti dappertutto. Batte la testa. Aveva appena preso le pillole. Non avrebbe dovuto agitarsi. Il dottore le aveva detto di non farlo, specialmente quando era con suo figlio.
Sara apre gli occhi. Fa freddo; è buio.. Il pavimento della cucina è ancora sporco. Muove le mani, le gambe. Lo cerca, ma lui non c’è. Procede a tastoni verso l’interruttore. Accende la luce e niente. Si agita, ma stavolta cerca di controllarsi. Di mantenere i nervi saldi. Respira, Sara, respira. Tutte le stanze sono buie. In camera vede solo la foto del suo Harry. In bagno, nessuno. In cameretta, nel suo letto, Mickey non c’è.
Sente rumore di passi, in soffitta. Apre la botola. Una luce soffusa illumina la scaletta, che cigola, passo dopo passo. Sara ha il respiro sempre più pesante, sente uno strano odore. Vede la luce accesa all’angolo in fondo.
«Mickey?» chiede, nell’oscurità. «Mickey, sei tu?»
«E gira, gira, gira… E gira, gira, gira...»
«Mickey, amore…»
«Un altro boccone, bravo il mio ragazzo!»
«Mickey? Con chi stai parl…»
C’è un uomo, a terra. Sara vede le sue gambe. Il tanfo è ormai insopportabile. Mosche, tutte attorno. Un cadavere. Un corpo in putrefazione. Sara riconosce i pantaloni di Harry. Sono sporchi di sangue. Sopra la cintola, il ventre è completamente aperto. L’intestino è fuoriuscito. Sembra una corda, e viene tirata. A tirarla è lui, il suo Mickey. Ce l’ha tra i denti.
«Mamma, papà mi sta facendo mangiare, vedi?»
Sara vuole urlare, ma le manca il fiato. Sente di non riuscire nemmeno a respirare. Mickey china la testa verso il suo banchetto, tra viscere e metastasi ben visibili, e lo scorrere senza sosta di insetti dappertutto.
«Ne vuoi un po’, mamma?» chiede il bimbo. «Mangia con me, mamma… su, mangia con…»
Il soggetto è sotto choc. Ancora in stato confusionale. Sembra abbia visto qualcosa di spaventoso. Non ricorda nulla. Non ricorda di aver colpito suo figlio, di avergli causato una commozione celebrale. Nemmeno di aver chiamato i soccorsi, prima di svenire a sua volta sul pavimento della cucina. Mickey è ricoverato, condizioni stabili. Nulla di grave, se la caverà. Ma i dottori lo vogliono tenere in osservazione. A lei, invece, hanno assegnato una terapeuta. Ha incubi continui. Non ha mai superato la morte del marito.
«Sara», dice la dottoressa Cole. «Riesci a sentirmi, Sara?»
«Mickey ha mangiato?» chiede lei. Lo fa ancora, poco dopo. Insiste.
«Suo figlio sta bene, Sara. Ma parli con me, ora. Lei sa dove si trova?»
«Mickey… Mangia, amore mio! Mangia per la mamma…»
«Sono la dottoressa Cole, e sono qui per parlare con lei.»
«E gira, gira… gi-ra!»
DOTTOR DEMONIO di GianAndrea Frighetto
Un gelido vento scendeva dalle montagne e soffiava con forza nella piccola radura. Volsi per un momento lo sguardo sulle cime innevate, unico riferimento in quella notte senza stelle, e mi ostinai a rimanere nella più totale immobilità. Solo i miei occhi si muovevano nella fitta boscaglia che mi celava, osservando le quattro figure attorno al focolare. Ragazzi della mia città, incappucciati e danzanti attorno al cadavere di una donna.
Ero arrivato tardi. Il bosco mi aveva ingannato e avevo perso le tracce della setta tra i tronchi biancastri dei faggi.
Ma poi le urla della vittima mi avevano portato da loro. Il corpo era a terra, sudicio e denudato. Il viso inanime sembrava rivolgersi verso di me, mentre il sangue zampillava dalla bocca spalancata.
«Il sacrificio è compiuto» gridò d’un tratto la figura più alta del gruppo con il viso ridente al cielo. Thomas Michigan.
Alla luce della fiamma distinsi gli zigomi pronunciati, la pelle morbida e chiara, i denti bianchi tra le labbra fini. Sorrideva. Aveva appena compiuto un omicidio e sorrideva.
Da mesi sospettavo di lui e le mie ricerche si erano approfondite fino a scovarlo. Buona famiglia, bravo nello sport, ottimi voti a scuola. Un giovane impeccabile e capace di celare a chiunque la sua vera natura di mostro. Eccetto che per me.
«Beviamo la sacra unzione» proseguì e abbassò lo sguardo al suo vice, Richard Smith. Quest’ultimo si agitò nel saio, troppo largo per il fisico mingherlino, e accorse con movimenti incerti. Talmente era impacciato, che era riuscito a infilzare con l’accetta il cranio della vittima solo al quarto tentativo. E la donna era già morta.
Il vice passò l’ampolla al capo, facendo poi un passo indietro. Thomas rimirò il liquido alcuni istanti, prima di prepararsi a versarlo tra le labbra dei suo adepti. La loro comunione del sangue.
Quando tutti e quattro ebbero bevuto, il capo levò di nuovo le braccia al cielo.
«Ti invoco demon…» stava dicendo, quando un rantolo lo bloccò.
Gli altri si scambiarono sguardi preoccupati, ma lui li ignorò con un gesto.
«Ti invoc…»
Furono i colpi di tosse a fermarlo questa volta. Cadde sulle ginocchia, mentre boccheggiava in cerca del respiro. Presto anche i compagni furono nelle stesse condizioni. Il corpo in preda alle convulsioni, le labbra grondanti di saliva, gli occhi spalancati nell’incredulità. La tossina che avevo iniettato nel loro sacro liquido gli stava causando una paralisi muscolare temporanea.
Quell’incapace di Richard Smith non si era nemmeno accorto che avevo scassinato il suo armadietto a scuola.
Fu Thomas il primo ad accorgersi di me. Ero uscito dal nascondiglio e avevo passeggiato fino al braciere, fermandomi di fronte a lui. Sentii un tiepido tepore diffondersi sulle dita che reggevano la borsa in pelle.
Mi inginocchiai di fianco al corpo inerme del capo, che continuava a biascicare versi senza senso. Anche i compagni ora mi guardavano e quello vedevo nei loro occhi era sincera paura. Infilai la mano nel taschino del camice e mostrai la fotografia di mia sorella a ognuno di loro. Dai loro sguardi capii che l’avevano riconosciuta. Lei era una delle loro vittime.
Poi tornai da Thomas e aprii la borsa in modo che potesse vedere. Lame e utensili scintillarono alla luce delle fiamme. Tra gli strumenti di lobotomia della mia collezione privata, estrassi un piccolo punteruolo e un martello in ferro. Appoggiai la punta in acciaio sulla tempia del ragazzo, all’altezza dell’attaccatura dei capelli, e assaporai la sua espressione. Il naturale terrore di chi comprende d’essere vicino alla morte.
Due settimane dopo
La porta del mio ufficio si spalancò e la segretaria non riuscì a fermare una donna sulla cinquantina in lacrime. I vestiti erano sciupati, i capelli disordinati e continuava a mugugnare parole senza senso sul figlio e sulla sua condizione. Con un gesto allontanai la mia assistente e feci accomodare la signora porgendole un fazzoletto.
«Sono andata ovunque, ma sempre la stessa storia. Un incomprensibile danno cerebrale. Ci crede? Quattro ragazzi insieme ridotti in uno stato vegetativo?»
«Suppongo che stia parlando dell’incidente di due settimane fa. Da quello che ho letto sui giornali, con il salto che l’auto ha fatto giù per la scarpata, è fortunata ad averlo ancora qui» sussurrai e, per un istante, la donna si zittì.
«Dottore, lui non è più con noi. Non parla, non si muove, a stento riesce a pisciare. Lei è il miglior neurochirurgo della zona, la prego» aggiunse intrecciando le dita delle mani.
«Mi sta chiedendo di andare oltre la mia professione. Rischia di morire.»
«So che lo vorrebbe anche lui» rispose sicura e uscì dalla stanza, per rientrare subito dopo scortando il giovane.
Le gambe del ragazzo vacillarono fino alla sedia, mentre la madre gli toglieva giubbotto e berretto. Quando i nostri occhi si incrociarono, i suoi muscoli facciali di Thomas rimasero immobili sotto la pelle bruciata dalle fiamme dell’incidente. Sembrava una caricatura di Freddy Krueger.
Abbozzai un ghigno, certo che Thomas mi avesse riconosciuto. «Esca pure» dissi e la madre se ne andò senza aggiungere altro.
Estrassi dal taschino la foto di mia sorella e la posai sul fermacarte, in modo che il ragazzo la potesse vedere. Poi, appoggiai con movimenti scanditi il macchinario per l’elettroterapia sul tavolo.
Slegai i fili e attaccai gli elettrostimolatori sulle tempie del mio nuovo paziente, proprio all’altezza dei fori fatti quella notte. La lobotomia era passata inosservata sotto la cascata di capelli
e le cicatrici delle fiamme.
«No, no Thomas, non è ancora il momento di piangere» dissi, mentre il ragazzo mugugnava versi senza senso con piccole lacrime agli angoli degli occhi. Accesi l’apparecchio e mi riaccomodai con un sospiro sulla sedia. «In fondo sei stato te a invocare il demonio» aggiunsi.
Lo sguardo di Thomas seguì le dita aumentare il voltaggio e poi l’indice soffermarsi sul tasto d’accensione.
«Morirai Thomas. Ma non oggi» sibilai con un ghigno e premetti il pulsante della scarica.
Celato dal camice e finti sorrisi, ora ero diventato io il mostro.
È DIETRO DI TE di Alessandro Chiometti
Lo confesso. I bambini non mi sono mai piaciuti.
Non giudico chi li ha, ci mancherebbe. Ma a me non piacciono. Volete marmocchi? Cavoli vostri. Io no, non li voglio. Siamo già in troppi su questo pianeta.
Avevo sempre evitato le serate con le famiglie degli amici, anche perché ogni volta volevano rifilarmi qualche loro amica zitella. Alessandro però aveva insistito per quella serata: "E dai è il compleanno di Silvia!”.
Ero già pronto al peggio e... ma davvero volete sentire di nuovo questa storia? Chi siete? Polizia Investigativa Scientifica... figo! Se ne fanno un film voglio i diritti... casomai esca da questo manicomio. Sì, come volete, ospedale
psichiatrico... piuttosto, sigarette ne avete? Non si può fumare? Salutisti del cazzo...
Ero pronto al peggio dicevo, infatti entro e... "Ciao Roberto lei è Federica, una mia amica single". Single, ma divorziata e con un mostricino di nome Cesare.
Gli altri piccoli mostri erano Tommaso e Sara, figli dei padroni di casa. E non potevano mancare Paolo e Lucia con la loro progenie: Augusto e la piccola Samantha.
La piccola Samantha...
Comunque, cena piacevole. I piccoli erano stati confinati in un'altra stanza. Ma appena finita, eccoli a correre ovunque: urla e piagnistei insopportabili.
Alessandro si dedicò a preparare il caffè mentre Silvia organizzava qualche gioco collettivo; era sempre brava in questo. Stavo giusto pensando a come svignarmela quando Samantha mi piazzò davanti agli occhi un foglio scarabocchiato.
“Cos'è?” mi chiese con la sua vocina stridula.
“Tesoro, chiedi a me cos'è?” E lei: “Sì, è un gioco!”
Silvia mi spiegò: “Hanno disegnato qualcosa presente in questa casa e devi indovinare cosa sia”.
“Ah, che splendido gioco!” dissi, sperando di non far trapelare i miei veri pensieri. Non posso farci niente... anche da bambino odiavo i bambini.
Comunque, guardai il foglio con più attenzione e c'era questo blob colorato in rosso, verde e blu.
“Beh, è indubbiamente... un coso!” dico, e Samantha: “No zio, non è un coso!”
“Zio un cazzo!” pensai, ma mi contenni.
“Se non è un coso... allora c’è un quadro di arte moderna qui!”
Gli adulti risero, Samantha riprese il foglio infastidita: “Uffa, sono i gomitoli di lana!”
Effettivamente nella cesta vicina c'erano dei grossi gomitoli di lana colorati. Gli altri mostriciattoli mostravano agli adulti i loro disegni, Silvia era sempre stata brava a coinvolgerli in giochi demenziali. Avrei davvero voluto andarmene, però Augusto già mi scuoteva la gamba porgendomi un altro foglio. Lo presi svogliatamente e... rimasi a bocca aperta. Il disegno sembrava uscito da una mano decisamente più adulta; era il disegno di una maschera anonima per comparse teatrali; ed era perfetta. Il tratto zigzagato esterno al perimetro le conferiva tangibilità, gli occhi erano ellissi perfettamente definite e, al pari della bocca, apparivano come laghi di oscurità nel bianco di un volto reso anonimo.
Anche con la mia ritrosia non potei che chiamare la madre: “Lucia hai un figlio pittore! Guarda che capolavoro!”
Lucia si voltò perplessa: “Ma che dici Robe’? Augusto non disegna quasi mai... è proprio negato!”
“Allora ha sviluppato delle qualità, guarda!” replicai passandole il foglio.
Stupita chiamò subito il marito: “Paolo, guarda nostro figlio che bravo!”. Dopo pochi istanti i due cominciarono a discutere della scuola d’arte a cui iscriverlo. Mentre parlavano Augusto era ancora lì davanti a me, allora gli chiesi: “Dove
hai trovato quella maschera, piccolo?” Come se fosse la cosa più normale del mondo rispose: “La porta il signore dietro di te!”
Realizzando ciò che disse mi alzai di scatto, ma in quel momento la luce si spense e, al buio, inciampai nella sedia. Caddi rovinosamente impattando con la fronte il massiccio tavolo di legno.
KO, game over, entrino i secondi... peggio di Fantozzi... che ridere eh?
No, non c’è nulla da ridere, avete ragione. Scusatemi ma... io li vedo ancora di fronte a me... eccoli.
Alessandro mi preme il ghiaccio sulla fronte, ho un bernoccolo colossale che sento pulsare.
Mi dice: “Robe’ come stai? Andiamo in ospedale?”
“Ma no che ospedale... ora mi riprendo!” cerco di dire ma non mi sente. Non riesco a parlare.
Mi guardo attorno e... lui è lì! Dietro Federica con la sua maschera bianca. Le grido “È dietro di te!” ma non mi sente. Io grido, ma non emetto alcun suono.
Federica è in ginocchio davanti al suo Cesare, lui mostra il disegno e lei cambia espressione; il foglio mostra la stessa maschera disegnata da Augusto. Disegni
identici. Troppo identici, non è normale.
Federica chiama gli altri. E io continuo a urlare, quasi supplicandola: "Girati! Girati! È dietro di te! È dietro di te!" ma nulla, si preoccupano solo dei disegni identici.
Alessandro continua a chiamarmi: “Svegliati Roberto, svegliati!”
Federica si gira verso Cesare e gli chiede “Tesoro, dove l’hai vista questa maschera?"
E lui: “Ce l’ha il signore dietro di te, mamma!” Federica finalmente si volta e la luce si spegne.
Un urlo tremendo, agghiacciante e disumano. Poi urlano tutti! Rumori, tonfi, risatine e poi... torna la luce.
Cinque individui, tre uomini e due donne in piedi. Delle maschere bianche nascondono i loro volti. Li vedo e ora li vedono anche gli altri. Uno di loro mostra la testa di Federica deformata da un eterno urlo di dolore e staccata dal
cadavere in terra. Tutti urlano. Poi cercano di scappare, ma la luce si spegne. Di nuovo.
Vedo scene agghiaccianti nella penombra, un liquido caldo mi ricopre.
Realizzo che è il sangue dei miei amici. Urlo! Stavolta ci riesco. Urlo fin quando non sono l’ultima persona a urlare.
La luce è tornata di nuovo, i cinque mi sono davanti, in piedi e fradici di sangue. Spero solo che mi uccidano rapidamente. Invece se ne vanno. Uno alla volta, calpestando brandelli di cadaveri.
L’ultima rimasta, prima di uscire anche lei, mi guarda e con una voce stridula dice: “Grazie per averci liberati, zio Roberto”.
Ora ditemi: pensate che ci sia stato un solo minuto in questi anni di manicomio in cui non abbia risentito quella voce... la voce della piccola Samantha?