«Giu’ se mi rifai ’na stronzata del genere giuro che ti rompo il culo!» Flavio udì Marco aggiungere bestemmie in fila come perle di un rosario mentre armeggiava sullo smartphone nel tentativo agganciare il segnale WiFi.
«Vaffanculo Ma’, quella s’è messa a fa’a gattamorta co’ tutti, pure co’ te e Fla’: je dovevo da’ ’na regolata!». Giulia urlò la risposta così forte che anche Flavio vide scintillarle il piercing sulla lingua.
«Oh, buoni, che il culo ce lo fanno a noi se ci beccano!» Flavio, appena chiamato in causa, spostava lo sguardo tra i suoi amici e via dell’Olmo, una stretta traversa di via Fonteiana, a poca distanza dal Liceo Scientifico Leopardi, da dove erano appena usciti tutti e tre. Giulia s’era azzuffata con Criccrì e nel ricordarlo una sensazione spiacevole cominciò ad opprimergli il petto.
«Non gli dovevi manda’ il video» disse Marco «co’ quello i caramba ce se bevono! Ora devo fa’ un casino per cancellarglielo, mortaccitua, Giu’»
La sirena di un’ambulanza ruppe il silenzio della stradina. «So’ dentro! Bella Fla’ la password che m’hai dato era giusta!»
aggiunse Marco rivolto all'amico.
«Lo so, me l’ha data lei ieri!» rispose lui, ma la sua attenzione era rivolta a quello che avevano appena fatto.
«E che artro t’ha dato, eh? Porco!» Giulia si voltò verso di lui e snudò i denti.
«Niente Giu’ te lo giuro: abbiamo solo fatto latino!» lui continuava a guardarsi attorno, per non incrociare lo sguardo di lei e sfuggire alla a quello che avrebbe dovuto dirle da almeno una settimana. Cominciò a strusciare la schiena contro la siepe, come se il giubbetto di pelle si fosse riempito di minuscoli aghi. Se lo tolse, aveva caldo. Il prurito passò ai jeans “sdruciti” ad arte. La sirena divenne più forte.
«Evvai! Il telefonino di Criccrì è ancora acceso!» L’esultanza di Marco cancellò momentaneamente ogni altro suo pensiero.
«Svelto, cancella tutto e andiamo via» disse Flavio, che non ne poteva già più.
«No, è ’n terminale Android, così chiederà la conferma all’admin e resterà bloccato.» Marco chinò la testa ricciuta sul video dello smartphone intento a smanettare per aggirare la sicurezza del telefono a cui s’era collegato. Flavio notò un movimento sopra la siepe che bordeggiava il giardino. Obi, il gatto di Criccrì, lo fissava dall’alto dell’edera con gli occhi sgranati. Pareva sorpreso di essere stato visto.
«Fi chiama Criftina, Criccrì ci chiamerai tua forella… e non dovrefti nemmeno vedermi!»
Flavio credette di leggere questo pensiero nello sguardo felino, poi scrollò la testa e alzò gli occhi al cielo pensando: «Come fai a pensare d’essere invisibile se sei grosso il doppio e pesi il triplo?»
La bestiola parve percepirlo: distolse lo sguardo per mostrare il suo sdegno.
L’ambulanza sfrecciò dentro alla via e spense la sirena, ermandosi a pochi metri dai ragazzi.
«Oh, che d’è?» Giulia fece per abbassarsi, ma Flavio la trattenne.
«Fai finta di niente» la ammonì.
«Ho quasi fatto» disse Marco.
Un grosso sorcio sbucò dalla siepe e strappò un “Che Schifo!” a Giulia, ma prima che potessero dire qualcosa era già svanito nella grata di un tombino.
Il gatto non c’era più, svanito senza muovere neanche una foglia, Flavio rivolse la sua attenzione al portone della casa di Cristina lasciato spalancato dai sanitari appena entrati. Chissà chi s’è sentito male?, si chiese. Poi vide comparire Sara, la madre di Cristina, che aveva conosciuto il giorno prima quando era andato a casa sua.
Dietro di lei la barella spinta da un uomo e una donna con la divisa fluo.
Stesa sopra, dietro una maschera a ossigeno, c’era un’altra figura che conosceva bene.
«Ragazzi… cazzo» disse con un filo di voce.
Non dovette attendere molto per vedere anche gli altri impallidire.
Rimase immobilizzato alla vista dell’ambulanza che portava via la sua compagna di classe, attonito come chi ha appena riempito di calci un’altra persona e solo dopo si accorge che questa non si rialza più da terra.
Fu preso dalla voglia di correre, di fuggire da quel luogo, le sue gambe volevano agire da sole. Avrebbe voluto urlare Io Non C’entro Niente!, ma aveva riso mentre Giulia prendeva a calci Cristina e poi le sparpagliava il contenuto dello zaino per strada mentre Marco filmava tutto. La riaccensione della sirena ebbe l’effetto di risvegliarlo dall’incubo in cui il senso di colpa lo stava trascinando.
«Oh, andiamo, via, via!» sibilò mentre le gambe prendevano la via della fuga in modo autonomo e definitivo.
Dietro di lui Giulia urlò «Aspetta, Fla’!» seguita, dopo un tempo che gli parve lunghissimo, dalle bestemmie di Marco che annunciava di aver finito.
Si lanciarono a rotta di collo giù per via Fonteiana fino all’incrocio con via di Donna Olimpia. Fermi al semaforo per riprendere fiato, Flavio salutò Giulia con un mezzo bacio e lei diede un cinque a Marco. Non una parola su quello che avevano appena visto. Il video era stato cancellato, la storia doveva finire lì. Il volto incorniciato da capelli verdi e rossi di Giulia era ancora pallido nonostante la corsa. Flavio la guardò dritta negli occhi, lei sorrise di rimando, ma quel sorriso pareva essere stato appiccicato con lo scotch tanto gli pareva falso. La ragazza abbassò lo sguardo e si allontanò, senza salutare, verso il cancello di casa.
Lui e Marco risalirono per via Ozanam più rapidamente del solito. Flavio non riusciva a dire nulla e anche l’altro pareva aver perso ogni verve e, giunto davanti al portone di casa lo salutò con un: «Ci becchiamo domani», che lui sentì appena.
Scosso, attraversò piazza San Giovanni di Dio, attento mentre passava sui binari del tram: le rotaie erano bordeggiate da una siepe d’alloro che nascondeva l’arrivo delle vetture. Poi, finalmente, fu a casa.
Ritrovare i propri spazi, l’ambiente che l’aveva accolto per quattordici anni, lo fece sentire più tranquillo. Non è successo niente.
Fu con sollievo che, quella sera, accolse l’oblio offerto da un letto caldo e accogliente.
Il rif di Smoke on the Water lo fece sussultare. Una sensazione di amaro felpato in bocca gli segnalò che doveva averla tenuta spalancata mentre dormiva. Forse aveva russato. Il cellulare brillava sul comodino, mentre il pezzo dei Deep Purple continuava a rompere il silenzio notturno.
Giulia, zzovole a quest’ora?
Flavio riacquistò lucidità sufficiente per dare voce al fatto di essere stato svegliato alle tre del mattino. «Pronto?»
«Menomale Fla’, Marco nun risponde, lei è qui, è qui, ah!» la frase di Giulia si concluse con un grido soffocato dal rantolo di un cellulare che viene sbattuto a terra e poi si spegne.
«Giulia? Giulia?» La comunicazione era stata chiusa. Flavio provò a mandarle un telegram, ma l’icona segnalava solo la presa in carico del messaggio, il terminale era stato scollegato.
Provò a chiamare Marco, scollegato pure lui. Ma era normale, si disse. Si sentì come l’unico imbecille che dormiva col cellulare acceso sul comodino. Tornò a dormire.
La sveglia delle 6:30 suonò come se fossero passati pochi minuti, ma lui si sentì come se non avesse proprio dormito. Col passo leggero di uno zombie fece colazione, salutò i genitori e si diresse verso il Leopardi, a piedi come al solito e come al solito incrociò Marco cui aveva mandato un messaggio prima di uscire.
«Quando ho acceso er cellulare ho trovato una chiamata tua alle tre di notte» furono le sue prime parole «e pure una di Giulia». I suoi occhi parevano due punti neri su una mozzarella tanto pareva pallido.
«Sì, l’ho sentita ma non ho capito niente. M’ha urlato qualcosa. Boh? Ancora non risponde. Te sei riuscito a chiamarla?» rispose mentre scendevano per via Ozanam.
«No, mi sa che sta a dormi’ c’ha ancora er telefono staccato!» Marco aggiunse uno sbadiglio simile al verso di un tricheco. La voce terrorizzata di Giulia riaffiorò alla memoria di Flavio e la sensazione di amaro del risveglio tornò e si trasformò in nausea. Scosse la testa come per scacciare quella sensazione.
Il semaforo dell’incrocio con via di Donna Olimpia giaceva divelto su alcune auto in sosta; cocci sparsi un po’ ovunque raccontavano di un fattaccio avvenuto da poco. Il traffico scorreva a rilento.
Nadia e Lidia, le cozze, erano ferme dall’altro lato dell’incrocio a indicare le tracce dell’incidente, mentre parlavano con altri compagni. A Flavio sembrò che mezza scuola si fosse fermata ad ascoltarle.
«Andiamo a vedere che è successo!» disse. Attraversò la strada svicolando tra le auto imbottigliate e raggiunse gli altri, ma senza badare se l’amico lo seguisse o no.
«Ecco Flavio: ma che fai alle ragazze? Le mandi tutte in rianimazione?» La domanda di Nadia gli fece lo stesso effetto di un calcio nei testicoli. Il viso di lei, rotondo e coperto di brufoli, pareva sfotterlo. Flavio scattò per colpirla, ma si trattenne per un soffio.
«Oh, stai buono!» Lidia, magra e occhialuta, lo apostrofò stringendosi all’amica. Alcuni ragazzi salutarono e si allontanarono. «Ma che è successo?» chiese Flavio, il fiato grosso.
«Giulia, stanotte è uscita da casa, non si sa perché, ha preso il motorino e s’è addobbata contro il 44 notturno che veniva da via Ozanam.»
Nadia, che non si faceva mai gli affari suoi, aggiunse: «Ieri Criccrì s’è impiccata con la cintura!»
«Cos…?» Marco, che lo aveva appena raggiunto rimase senza parole.
L’idea che quello che avevano combinato assieme a Giulia avesse avuto conseguenze tanto gravi lo aveva infine raggiunto, travolgendolo.
«Ma quando l’hai saputo?» si accorse di aver urlato perché vide altri ragazzi allontanarsi di fretta, spaventati, allora si ricompose. «Che s’è impiccata, voglio dire, hai capito no?»
La ragazza si raddrizzò sulla schiena e riprese colore. «Mia madre è infermiera al Bambin Gesù, ar Gianicolo. L’hanno portate tutte e due in rianimazione».
L’ultimo dei compagni rimasti la interruppe: «Oh, andiamo? Alla prima ora c’è il prof. Dell’Orco: lo sai com’è no?».
«Poi ti dico a ricreazione» Lidia e la sua amica si allontanarono lasciando lui e Marco soli.
Prima di seguire i compagni, Flavio si voltò verso il palo abbattuto. Un grosso gatto fulvo dall’aria familiare lo stava fissando.
«Oh, Marco, guarda chi c’è… » disse, ma quando puntò il dito per indicare il micio questo s’era già dileguato.
La mattinata volò via tra un’interrogazione di italiano e un teorema di cui ricordava a stento le lettere A, B e C di un triangolo storto. Marco restò muto tutto il tempo. Guardava lui e poi il libro di matematica durante l’ora di latino. Un paio di volte Flavio aveva dovuto avvisarlo che teneva il quaderno sottosopra; non lo aveva mai visto così perso nei suoi pensieri. Usciti dal grigio edificio del Leopardi avevano percorso la strada per casa in assoluto silenzio, finché, stanco di essere ignorato, afferrò l’amico per lo zaino prima che aprisse il portone di casa e lo rigirò per fissarlo dritto negli occhi.
«Ma che t’ha preso oggi?»
Marco sollevò lo sguardo, gli occhi neri apparivano dilatati e fissavano un punto oltre le sue spalle. «Oh, bello, sto’ a parla’ con te!» e aggiunse un colpetto sulla spalla.
«Giulia se voleva mette con me. M’ha pure baciato quella z…»
«Zitto, che manco sappiamo come sta adesso.»
«Sì, ma te lo dovevo di’ e nun sapevo come… ma sei amico mio e non te potevo fa’ ’sta zozzata senza dirtelo!»
Flavio percepì tutta la disperazione dell’amico e mise da parte la rabbia che lo avrebbe visto volentieri prenderlo a pugni gridando “A’… ” seguito da una serie di ingiurie a sfondo copro-blasfemo.
«Ti dovrei mena’, invece so’ contento che me l’hai detto.» D’istinto si strinsero in un abbraccio. «Mo’ vado a mangiare, poi ti chiamo e andiamo a trova’ Giulia… se si può, ti va?»
Marco annuì, poi sparì oltre il portone di casa.
Flavio proseguì e si appoggiò al palo del semaforo ad aspettare il verde. Un capogiro lo costrinse a restare lì dovera, incapace di lasciare il suo appoggio senza cadere per strada. Quando scattò il verde per la seconda volta udì la voce di Marco urlare.
Si voltò, mentre il mondo gli vorticava attorno, e vide una figura cadere dal secondo piano agitando braccia e gambe, rimbalzò con un duro colpo sulla tenda da sole al primo piano e impattò sul marciapiede davanti al portone dove s’era salutato col suo amico solo un paio di minuti prima.
Flavio corse a vedere mentre la poca lucidità rimasta lasciava il posto al terrore.
Non riusciva a crederci. Non poteva.
Marco era a steso in una posizione scomposta, muoveva un piede, le dita di una mano, nient’altro. La gente gli si accalcò attorno, qualcuno cominciò a urlare “Marco!”
Quando Flavio si accorse che a urlare era lui, si tappò la bocca, prese il telefonino e chiamò il 118, ma già altri lo stavano facendo.
La madre di Marco comparve sul portone poi tra un «È mi’ fijo, fateme passa’» e qualche gomitata riuscì a penetrare il muro umano che si era formato. Si inginocchiò accanto al figlio, che perdeva ancora sangue. Le urla della donna spazzarono via i suoi ultimi pensieri razionali.
Io non c’entro, lui s’è buttato! Divenne il suo mantra, una sorta di preghiera che lo assolvesse da qualunque coinvolgimento avesse avuto nel suicidio.
La gente si scansò per lasciar passare i sanitari, lui restò immobile mentre un pensiero malsano prendeva forma e soverchiava tutti gli altri: Il prossimo sarò io.
Efattamente.
Una voce esterna irruppe nei suoi pensieri. Chi aveva parlato? Sembrava l’interferenza di una radio nelle trasmissioni di un’altra, mentre dentro di lui qualcosa mordeva e artigliava per venire fuori e dirgli quanto era stato infame. Si guardò intorno, il respiro sempre più accelerato, ma nessuno si era rivolto a lui.
Eppure non poteva fare a meno di occhieggiare e cercare, mentre si allontanava dallo strazio dei genitori di Marco, per capire chi gli avesse rivolto la parola. Per giunta stava usando la stessa voce che aveva appioppato al gatto di Cristina quando lo aveva visto in cima alla siepe.
La sensazione di interferenza peggiorò e gli parve di vedere un’ombra ai margini della visione. Si voltò, ma non vide nessuno. Attraversò la prima metà della piazza, fino ai binari del tram e si girò ancora di scatto: sicuro, stavolta, che qualcuno lo stesse seguendo.
Sbatté le palpebre, gli sembrò che tutti lo ignorassero. O forse no.
Un’ombra. Sbatté le palpebre ancora e la vide. Per un istante, mentre i suoi occhi erano chiusi, una forma oscura dalle fattezze umane compariva tra le persone ferme in attesa di attraversare e puntava verso di lui. Sempre più vicina. Flavio si sforzò di tenere gli occhi aperti, ma poi dovette richiuderli e se la ritrovò davanti, la mano dalle dita come rasoi affilati pronta a ghermirlo.
Si diede alla fuga, ma il tentativo fu di brevissima durata. Prima che potesse mettere piede sui binari una massa fulva e pesante sbucò dalla siepe d’alloro facendo crollare definitivamente il suo equilibrio, già tutt’altro che stabile. Cadde a terra là dov’era.
Urlò, ma il frastuono del tram n°8 che passò a meno di un centimetro dai suoi piedi, coprì la sua voce. Il gatto, fulvo e grasso al punto da pesare quasi quanto un cane, svanì tra i cespugli da dove era uscito.
Flavio inspirò una generosa boccata d’aria e chiuse gli occhi per ricacciare indietro la paura che aveva sopraffatto ogni altro pensiero. L’essere che vedeva solo quando batteva le palpebre era di nuovo vicino a lui e lo colpì di nuovo. Di nuovo il terrore e il bisogno di fuggire tornarono, stavolta si aggrappò alla siepe d’alloro per resistere.
Chiuse gli occhi. L’ombra lo colpì ancora, e ancora aggiungendo terrore alla paura, ma strinse i denti e rimase dov’era, si fece forza a guardarla: con un brivido si rese conto di avere davanti Cristina. Riaprì gli occhi. Sparita. Li richiuse: vide lei entrare nell’abitacolo di una vettura che attraversava l’incrocio.
Come al rallentatore il conducente dell’auto lasciò le mani dal volante per coprirsi il volto con le mani. Il veicolo puntava dritto contro di lui.
Si lanciò in mezzo alla strada con un balzo alla disperata mentre l’automobile raschiava contro la siepe dove si trovava un’attimo prima e proseguiva nella sua corsa; si ritrovò davanti al cofano di un’altra che aveva inchiodato per non investirlo.
Ignorò i mortacci invocati dal guidatore e tornò indietro fin dove era rimasta la macchia di sangue lasciata da Marco.
Estrasse il telefonino e compose il numero di Cristina. La linea squillò libero due, tre volte, poi una voce femminile: «Pronto?»
Trasalì, ma riuscì a rispondere: «So’ Flavio, c’è Cri… »
«Sono Sara, sua madre. No. Mia figlia è in ospedale.»
«Dove?»
La donna tacque per qualche istante, poi rispose «Al Bambin Gesù, al Gianicolo, ma-»
Con la sensazione di avere sempre meno aria per respirare si fece spiegare come arrivarci.
Poi saltò sul bus della linea 44, che stava sopraggiungendo.
La corsa durò una decina di minuti, il panico era sempre più difficile da controllare, aveva persino paura a chiudere gli occhi, ma Cristina pareva essersi volatilizzata. Per ora, non aveva dubbi che sarebbe tornata.
Scese di fronte a Villa Sciarra e attraversò di volata il parco del Gianicolo, che a quell’ora era affollato di turisti. Corse fino a raggiungere l’ingresso dell’ospedale. Il fiato sempre più grosso, ma l'idea di avere quella creatura alle spalle gli diede l'energia necessaria a battere ogni record di velocità. S’infilò nel padiglione indicato dalla madre di Cristina, salì le scale fino al primo piano e si ritrovò in una stanza affollata. Vide i genitori di Marco e si diresse verso di loro. Si strinsero in un abbraccio convulso, disperato come i loro volti mentre sentiva l'aria mancargli a ogni respiro e lottava per restare cosciente.
Una grande porta metallica di colore rosso dominava la parete di fondo, una selva di cartelli tra cui “VIETATO L’INGRESSO” indicava che oltre c’era un reparto dove si poteva accedere solo con camice e guanti.
Ci fei riufcito, l’hai trovata!
Di nuovo la sensazione che i pensieri di un altro interferissero coi suoi si sovrappose ai rumori della sala d’attesa. Il suo respiro accelerò.
La porta rossa si spalancò, tutti scattarono in piedi, i volti tesi e puntati sull’infermiere apparso oltre l’uscio; «Possono entrare solo quelli dell’ala sinistra» annunciò l'infermiere bardato come descritto dai cartelli sulla porta. Alcuni dei presenti tornarono seduti, la faccia tra le mani.
Lui si accodò ai genitori di Marco, senza dire nulla. Strinse i pugni: c’era da combattere e non si sarebbe tirato indietro.
Nella sala dove li portò l’infermiere vide quattro letti circondati da macchinari. Marco era steso in quello più lontano, per raggiungerlo doveva passare davanti agli altri. Nel primo riconobbe Cristina e in quello accanto trovò Giulia.
Siamo tutti qui! pensò.
Un miagolio lo colse di sorpresa ma era solo uno dei monitor che mostrava il battito di Cristina.
Quando era stato a casa sua, aveva scoperto una persona molto diversa dalla sfigata che vedeva tutti i giorni in classe e si piazzava al primo banco della fila di centro.
Immaginò cosa potesse aver passato quando Giulia l’aveva aggredita, il giorno dopo, e lui non aveva fatto niente.
La vista dei suoi amici e di lei, intubati e vivi solo perché c’erano dei monitor che glielo dicevano, divenne insostenibile. La voglia di andarsene crebbe fino a fargli sembrare impossibile poter rimanere in quel luogo.
Ho sbagliato a venire qui, pensò.
Invece è la prima cofa azzeccata che hai fatto da che ti conofco di nuovo la voce diversa si sovrappose al ronzio di monitor e ventilatori. Si guardò attorno, non vide nessuno. Chiudi gli occhi, fcemo. «Ma io…» Zitto e penfa. Ti fento lo fteffo. Nella sua mente visualizzò la stanza d’ospedale e, ma era sicuro di non averlo immaginato, vide un grosso gatto fulvo seduto sul letto di Cristina che lo fissava. Lo riconobbe.
«Obi?» disse a fior di labbra.
Riaprì gli occhi e il letto tornò sgombro, ma quando li richiuse Obi era ancora là.
«Fmettila: ogni volta che apri gli occhi mi fparisci davanti e voglio che mi afcolti mentre ti parlo o giuro che ti fmonto a fuon di zampate.»
Flavio si sedette su una sedia addossata alla parete e chiuse gli occhi.
«Fai perché Criftina ha cercato di ammazzarti?»
«Io…» avrebbe voluto dire che non c’entrava nulla, ma ora che i suoi pensieri erano le sue parole poté solo chinare il capo «…sì.»
«E ti fei divertito anche tu, fino all’altro ieri, a prenderla in giro. Poi quando fei ftato accolto da lei hai penfato pure di… afpetta, cos'è che hai immaginato quando ti ha aperto la porta? Guarda un po' se ti riconosci?»
La vista della stanza di terapia intensiva svanì, per un istante, lasciando il posto a una visione identica a quello che aveva immaginato di fare con Cristina appena s'era trovato da solo con lei, ma con una differenza: gli pareva che la telecamera fosse stata piazzata all'altezza dei piedi. Si sentì arrossire fin sulla punta delle orecchie.
«Buon per te che fai come si fanno i grattini, o ti avrei lafciato fotto le ruote del tram!»
Al calore dell'imbarazzo si sostituì una sensazione di gelo.
«Eri te anche quando stavo pe' fini' sotto al tram?» domandò.
«In coda e offa» il gatto ronfò per sottolineare l’efficacia del suo intervento di poco prima.
L’ombra di Cristina apparve accanto a lui. Il fiato gli mancò e rimase inchiodato lì dov’era, con la sensazione di dover andare in bagno in quel preciso istante e liberarsi anche delle ultime tracce di razionalità rimaste in lui.
«Aiutami Flavio, non poffo ftare qui e lì allo fteffo tempo!»
Aprì gli occhi, Obi e l’Ombra svanirono.
Li richiuse, e l’oscura proiezione di lei s’era spostata accanto al letto di Giulia, le sue dita, artigli affilati, scattarono in avanti e affondarono nel corpo avvolto nelle bende.
«E fmettila di fparirmi davanti: ti ho già detto che mi da faftidio!»
Vide Giulia inarcarsi, la udì emettere suoni inarticolati come quelli di un animale ferito e poi ricadere inerte.
«Non ti alzare. Penfa folo di farlo. Guarda con la mente.» L’ordine di Obi era perentorio.
Obbedì. Doveva affrontarla.
Giunse altra gente col camice.
«No!» gridò, ma a urlare stavolta fu solo il suo pensiero.
Immaginò sé stesso alzarsi e andare verso di lei.
Gli allarmi calarono di frequenza come le sirene di un’ambulanza che si allontanava, i medici, Marco e i suoi genitori, i monitor, tutto si fermò. Tranne Obi che balzò a terra.
E Cristina, che che alzò il braccio per colpire Giulia, di nuovo.
Flavio immaginò il suo braccio molto più lungo di quanto fosse in realtà e fu quello che avvenne: bloccò la ragazza.
«Bravo, ftai cominciando a capire com’è che funziona» commentò Obi, che non aveva lasciato la sua posizione sul letto di Cristina.
L’ombra emise un lamento, crebbe d’intensità fino a trasformarsi in un dolore intenso che minacciava di farlo scoppiare.
Una parte di lui voleva interromperla, subito, a qualsiasi costo; si sentì pronto a colpirla come aveva fatto Giulia solo qualche giorno prima. Il gesto gli apparve in tutta la sua violenta ingiustizia. Comprese di essere stato lui a scatenare la gelosia di Giulia e di aver aizzato le due ragazze l’una contro l’altra. Cristina aveva bisogno di amici, prima ancora che di un ragazzo, ma lui aveva avuto in mente solo quella cosa.
«Scusa» nel dire questa parola sentì una lacrima scorrergli sul viso, seguita da un’altra e poi ancora. Lasciò andare il braccio di Cristina che restò immobile a fissarlo.
Immaginò di chiudere gli occhi e si ritrovò al buio, ma la sofferenza per quello che aveva causato non accennò a diminuire, anzi.
Fu investito da un coro di allarmi e imprecazioni mentre il pavimento cominciò a correre incontro alla sua faccia. L’urto lo fece rinvenire del tutto. La madre di Marco guardò verso di lui, mentre medici e infermieri si accalcavano attorno al letto di Giulia.
Ignorato dai dottori si rialzò e si avvicinò, ancora barcollante, al letto di Cristina: «Basta» le disse, chino su di lei. «Ho capito, hanno capito pure gli altri due» e accennò al letto di Giulia con lo sguardo «e se non hanno capito glielo spiego quando usciranno da qua e ti proteggerò io. Te lo prometto.»
Chiuse di nuovo gli occhi, vide Obi ora seduto ai piedi del letto di lei che lo fissò di rimando e poi svanì un pezzo alla volta finché di lui non rimase solo una smorfia sorniona che si confuse con i cavetti dei monitor.
Quando tornò a vedere incrociò lo sguardo di Cristina che ora brillava d’azzurro e il sorriso illuminava il suo volto pallido. Sorrise anche lui e si sentì per la prima volta più leggero.