Virginia Onnigrafo Magazine

Virginia

Camminava, camminava, camminava. Nessuno ricordava quando aveva iniziato. Percorreva il perimetro del quartiere, giorno dopo giorno. Prima quello esterno, per un chilometro e ottocento metri; poi si perdeva nelle vie interne. Passava davanti a negozi, portoni di condomini, bar fuori moda, cumuli di rifiuti putrescenti, strisciando su marciapiedi malandati. Lo sguardo sempre fisso davanti. Non si voltava mai, nulla sembrava riuscire a distrarla. Anni addietro, i ragazzini del quartiere si erano sfidati in prove di coraggio cercando di fermarla. Avevano tirato sassi con le loro fionde, sputatole addosso gomme dure come mattoni a furia di masticare, lanciato gavettoni. E lei non aveva mai reagito. Aveva vacillato solo una volta quando Pietro, il più grande bullo undicenne che il quartiere avesse mai avuto, era riuscito a gettarle addosso un sasso piuttosto grande. L’impatto le aveva spappolato ossa e carni, già indebolite da quello che sembrava uno stadio avanzato di putrefazione. Le sue guance tumefatte avevano avuto un fremito, come se con tutte le sue forze avesse tentato di girare il viso per osservare la creatura che aveva osato causarle quel dolore, senza però riuscirci.

Alla lunga i bambini si erano stancati di provare a distoglierla dalla sua missione. Lei non si era stancata…


«Papà non riesco a dormire» disse Michele tirando il braccio del padre. Sapeva che non avrebbe dovuto interromperlo mentre scriveva, soprattutto negli ultimi tempi, visto che lo stava facendo sempre meno. Come diceva sua madre “Dio solo sa quanto avremmo bisogno di un nuovo romanzo e di nuovi soldi”. 

«Vai dalla mamma» rispose noncurante Luca, continuando a battere le dita sulla tastiera. 

«Ma papà ho paura. Non riesco a dormire». 

Luca interruppe il suo lavoro, sperando di riuscire a recuperare l’ispirazione anche in un momento successivo. Michele aveva ormai undici anni e undici mesi. Il mese successivo, luglio, ne avrebbe compiuti dodici. Eppure, ogni tanto assumeva un tono lagnoso come quello di un bambino molto più piccolo. Luca sapeva che in quei casi era meglio assecondarlo, per evitare il protrarsi delle lamentele fino ai giorni successivi. Rassegnato, si girò verso suo figlio: indossava un pigiama smesso di Matteo, suo cugino. Era troppo grande e lo faceva sembrare ancora più magro e spettrale, con la luce del monitor che gli si rifletteva negli occhi. Aveva i capelli spettinati e un sottile strato di sudore su tutto il corpo. 

«Come mai hai paura?» chiese Luca, prendendogli delicatamente le mani tra le sue. Sentì che erano gelide: probabilmente si era buscato qualche influenza dai suoi amici del centro estivo. Michele iniziò a singhiozzare, stringendosi nelle spalle e mormorando che non lo sapeva, che aveva paura e non voleva tornare in camera sua, mai più. Luca gli toccò la fronte: non scottava, quindi non era un problema di febbre. Forse erano solo incubi. Dopotutto Michele gli somigliava molto: sempre perso nel suo mondo e bisognoso di continue attenzioni e cure. Per questo Luca lo evitava, non proprio inconsciamente. Gli ricordava la sua infanzia e quanto sua madre avesse ignorato i suoi bisogni di bambino, facendolo sprofondare nelle insicurezze da adulto. Luca, con grande fatica, prese in braccio Michele che iniziò a piangere convulsamente e a smoccolare sulla sua spalla. Quando Luca entrò in camera di Michele si accorse che l’aria era gelida, da togliere il respiro. “Ecco perché era così freddo” pensò dubbioso. Si disse che probabilmente doveva esserci stato un malfunzionamento del condizionatore. Lo spense e si ripromise di dargli un’occhiata nei giorni successivi. Adagiò delicatamente suo figlio sul letto e gli rimboccò le coperte. Si diresse verso la finestra: voleva aprirla per fare entrare un po' di calura estiva e stemperare il freddo anomalo. Avvicinò la mano alla maniglia e Michele iniziò a urlare, dimenandosi come in preda a un attacco epilettico. Luca corse verso di lui per bloccarlo e provare a calmarlo. Donatella, la moglie di Luca, irruppe in camera allarmata dalle urla del figlio. «Cosa sta succedendo?» gridò, tenendosi una mano sul petto. «Michele stai bene?». Gli prese il polso, cercando di controllare i battiti.

«Sto bene, mamma…» sussurrò Michele con voce rauca, «ma stasera non avvicinatevi alla finestra. Né tu, né papà. Nessuno.»

Luca si sedette sul bordo del letto e scrutò incuriosito la finestra. Gli sembrava come tutte le sere, con gli infissi bianchi, la maniglia argento e le tende di un azzurro velato. Forse fuori poteva sembrare più buio del solito: era luna nuova e proprio quella mattina c’era stato un guasto elettrico ai lampioni della via, per cui risultavano tutti spenti. Forse era proprio a causa di quel guasto che anche il condizionatore stava dando problemi. Donatella sembrò seguire il filo dei pensieri di Luca ed esclamò: «Come mai qui è così dannatamente freddo? Che problema c’è con il condizionatore? Luca vedi di risolvere a breve». Luca la fulminò con lo sguardo. Ovvio che avrebbe controllato, non aveva bisogno dei suoi rimbrotti. Stava per rimbeccarla, quando vide lo sguardo disperato del figlio e si accorse che quello non era il momento adatto per portare avanti la battaglia dei mariti. «Certo, appena Michele si tranquillizza controllo il condizionatore.»

Ed era per questo che non riusciva più a scrivere come un tempo. Ogni volta che era preda dell’estro creativo e smanioso di scrivere c’era sempre qualche bega familiare da risolvere. La famiglia uccide l’arte e Donatella questo non lo capiva. No, per lei uno scrittore non era altro che un automa che avrebbe dovuto vendere storie da quattro soldi e che era lì solo per guadagnare. Quando si erano conosciuti, più di vent’anni prima, lei era estasiata dal suo essere un aspirante scrittore: si immaginava che avrebbe sfornato un best-seller all’anno, facendola vivere nel lusso più sfrenato. Ma chi credeva di sposare, Ken Follett? Luca non era quel tipo di scrittore, era un’artista, un letterato. Con la scrittura non avrebbe fatto soldi, ma la storia.

«Papà» lo chiamò Michele, strappandolo al filo dei suoi pensieri rancorosi da fallito. «Papà… cosa stai scrivendo?».

Luca gli sorrise grato: era sempre così curioso del suo lavoro. «Una storia dell’orrore.»

«Me la racconti?». Luca sospirò. Forse non era il momento adatto, suo figlio stava già affrontando una notte tormentata. Ma d’altra parte, raccontandogliela, l’avrebbe fissata in mente e sarebbe stato come proseguire con la scrittura, quindi perché no?

«Certo che te la racconto, ma se in qualsiasi momento avrai troppa paura per proseguire, me lo dovrai dire. Promettilo.»

Michele annuì, solenne, eccitato all’idea che suo padre condividesse con lui il suo lavoro. Luca iniziò a raccontare.


Virginia era una giovane donna di ventuno anni. Era molto bella, con le curve ai punti giusti e dei folti capelli lunghi, di cui andava molto fiera. Era l’unica cosa di cui si curasse veramente e questo faceva intuire che doveva essere una persona alquanto superficiale. Comunque, come tutte le giovani donne, ogni giorno lottava per trovare un posto in questo mondo. Si affaccendava davanti allo specchio per ottenere il trucco perfetto e si scattava qualche selfie per tenere il suo feed Instagram aggiornato. Studiava tanto per prendere una laurea, perché sapeva che le donne emancipate si laureano. Così si era iscritta a Sociologia: un ragazzo con cui era uscita in quarta superiore, le aveva detto che quella era una laurea facile, per quello l’aveva scelta. Una volta iscritta all’università, suo malgrado Virginia scoprì che anche a Sociologia, per passare gli esami, le sarebbe toccato aprire i libri. Lei non si scoraggiò mai, nemmeno dopo due anni senza aver dato esami. L’importante era dare l’idea di fare qualcosa, non effettivamente farla. Questo, secondo lei, l’avrebbe salvata dalla pressione dei genitori e delle maldicenze del paese.

La sua vita le scorreva davanti, le scivolava dalle mani e non se ne accorgeva. Virginia era ferma, ma il tempo andava inesorabilmente avanti.

Gli anni passavano. Compì ventidue anni, poi ventitré, ventiquattro e venticinque. La sua vita era sempre quella: truccarsi, andare all’università, non dare esami, a volte uscire la sera.

Fu proprio di ritorno da una sera di bagordi che qualcosa cambiò. Come prima cosa Virginia era stata a fare aperitivo con i suoi amici storici, Simone e Melissa. Non sapeva come mai quelli fossero ancora suoi amici, se li trascinava dietro dall’infanzia.

«Spero di avere amici d’infanzia che mi vorranno bene anche da adulto», esordì Michele interrompendo il racconto di Luca. Sentendo queste parole, a Luca si strinse il cuore: suo figlio non aveva ancora nessuno amico e dubitava fortemente che avrebbe mai avuto amici di infanzia. 

Luca continuò con il racconto. 


Dopo l’aperitivo i tre amici d’infanzia decisero di andare a cena. Scelsero uno scadente ristorante giapponese all you can eat. Faceva schifo, qualità del cibo pessima, ma per tre persone senza fonte di guadagno era l’ideale per riempirsi la pancia senza spendere troppo.

Mangiarono quasi in silenzio. Simone e Melissa pensavano alle loro ansie e ai loro fallimenti, Virginia a cosa avrebbe guardato quella sera su Netflix, una volta tornata a casa.

Dopo cena decisero di andare in un piccolo locale lì vicino, dove si poteva anche ballare. Nessuno dei tre lo desiderava veramente, ma non volevano sentirsi vecchi tornando a casa alle dieci. Una volta arrivati lì, Simone e Melissa si accorsero amareggiati di quanto loro tre alzassero l’età media dei frequentatori del locale. Si sedettero immusoniti in un angolo, sorseggiando un drink analcolico. Virginia invece si buttò sulla pista e iniziò a strusciarsi addosso a un diciannovenne.

Luca interruppe un attimo il racconto, guardando di sottecchi suo figlio. Forse quei dettagli non erano per nulla adatti a un bambino. Stava sbagliando a raccontargli una storia da adulti? Michele aveva lo sguardo rapito e non sembrava essere a disagio. Luca decise di continuare, mantenendo il taglio adulto della storia perché era così che avrebbe voluto scriverla.

Virginia finì nel bagno con il ragazzino. Si baciarono un po’, quasi innocentemente. Simone e Melissa rimasero nel loro angolo, a sbuffare e a disprezzare Virginia. Dopo una buona mezz’ora Virginia si stufò del ragazzino e con i suoi amici decise che la serata poteva finire.

Insieme si avviarono verso il parcheggio. Melissa aveva la macchina e Simone abitava lì vicino. La casa di Virginia invece era dalla parte opposta della città, in cima a una piccola collina. Melissa non si propose di accompagnarla in macchina e men che meno Simone si propose di accompagnarla in autobus. Si salutarono velocemente. Più che altro si grugnirono addosso.

In pochi secondi Virginia si trovò sola. Si avviò velocemente verso la fermata dell’autobus, aveva paura che risbucasse il ragazzino a pretendere un secondo round di baci scialbi.

A Virginia tutto sommato piaceva camminare, era l’unico momento in cui le sembrava di avere una meta. E in effetti quella sera ce l’aveva: casa sua. Ah, ma com’era lontana! Ci sarebbero voluti venti minuti a piedi per arrivare alla fermata, quindici minuti di autobus e altri dieci minuti a piedi, in salita, e sarebbe stata finalmente a casa.

Quella sera l’aria era appesantita dall’umidità e Virginia era sudatissima: i capelli le si erano incollati al viso e il vestitino alla schiena. I piedi quasi le scivolavano nei sandali di bassa qualità (cinque euro al mercato del venerdì). Con grande disagio si accorse che le sue ascelle emanavano un puzzo di fogna e il suo alito di uova marce. Ma com’era possibile che avesse quell’odore? Si era fatta la doccia solo qualche ora prima. Pensò fosse una conseguenza del sushi scadente ingurgitato a cena. 

Arrivò alla fermata dell’autobus e si sedette sulla panchina di grata, scomodissima, soprattutto quando si indossa un vestitino. L’aria lì intorno sembrava rafferma. Non si sentiva un rumore. Il cielo nero, senza una stella e senza luna, le chiome degli alberi immobili, come se il tempo si fosse fermato. Le luci gialle del lampione proiettavano ombre informi: ricordavano gli spiriti delle streghe intorno ai calderoni fumanti durante i loro riti demoniaci.

L’autobus sarebbe passato di lì a tre minuti. Ogni secondo che passava Virginia percepiva sempre di più sé stessa in quel preciso momento e in quell’esatta posizione. Ogni battito di cuore le rimbombava nel cervello, rintronandola; ogni rivolo di sudore che scivolava sulla schiena le dava la sensazione di pelle lacerata da unghie ferine. Iniziò a percepire il sangue mestruale come un rabbioso fiume in piena in mezzo alle sue gambe che trascinava con sé grumi di coagulo e pezzi morti di endometrio. E la propria puzza sembrava aumentare di secondo in secondo.

L’autobus arrivò con uno stridio di freni. Virginia, molle e appiccicosa, si alzò dalla panchina, le gambe ferite dalle lamine. Si vergognava della sua puzza, ma doveva per forza prendere l’autobus per tornare a casa.


«Papà» lo interruppe Michele con voce tremante «Virginia non morirà, vero?». Luca sorrise, con fare sinistro. «Peggio. Vuoi che interrompa la storia?». Michele, terrorizzato e affascinato allo stesso tempo, fece cenno di no, senza proferir parola.


Le porte dell’autobus si aprirono su quello che sembrava essere un buco nero. Virginia ci guardò dentro, attirata come una calamita, sentiva il desiderio impellente di sprofondare in quel nero denso e vorticoso.

«Sali o no?» la apostrofò l’autista. Con un sobbalzo Virginia tornò alla realtà: il buco nero era sparito, me le era rimasta la sensazione di averlo osservato per secoli, avvizzendo. Si sentiva svuotata della sua coscienza, come se stesse perdendo il controllo del proprio corpo.

Aggrappandosi a una delle due porte dell’autobus salì, mostrò l’abbonamento e si trascinò in un posto singolo, a metà del mezzo. Si sentiva le gambe pesanti, come se stesse cercando di sfuggire a delle sabbie mobili. Non riusciva a controllarle del tutto.

L’autobus riprese la sua corsa. A una prima occhiata veloce le era parso vuoto, ma osservando meglio in fondo vide una creatura rannicchiata. Virginia percepiva in quell’essere la stessa energia risucchiante che l’aveva avvolta durante l’apparizione di quello strano buco nero, qualche attimo prima. Sentiva il bisogno di avvicinarglisi e allo stesso tempo di fuggire lontano, da tutto e da tutti, nascondersi in qualche anfratto del mondo e non farsi mai più trovare, da niente e nessuno. 

Le sue gambe decisero per lei: strisciando lentamente, un piede davanti all’altro, la portarono da quell’essere. Virginia ne era terrorizzata. Guardarla le faceva lacrimare gli occhi, si sentiva le narici del naso bruciare e la gola riarsa come se non avesse mai bevuto in vita sua. Il suo cuore le diceva di scappare, ma il suo corpo rimase ancorato a quella visione, come una falena attirata da una sola lampadina accesa, disposta a morire pur di raggiungerla.

La creatura si mosse lievemente e Virginia sentì un rantolo di aria fresca scompigliarle i capelli, dandole sollievo in quella notte calda e spettrale.


«Papà» lo interruppe di nuovo Michele, con voce preoccupata. Il suo sguardo febbricitante si muoveva irrequieto tra la finestra e suo padre. «Papà, io…» la voce gli morì in gola. Aveva ricominciato a sudare.

Luca capì, aveva esagerato. Suo figlio quella sera era già fortemente scosso e raccontargli una storia del genere non poteva che peggiorare la situazione. Forse aveva ragione sua moglie, non pensava mai alle conseguenze concrete delle sue scelte quando si trattava della scrittura. 

«Scusa Michele, hai ragione è troppo…» 

«NO!» urlò Michele, isterico. Luca lo guardò con preoccupazione: sembrava stralunato, come se non avesse dormito per tre notti di fila. «Papà…io ho visto il buco nero. Io ho visto quella creatura. No papà…non mi interrompere. L’ho vista prima, alla finestra. E ho visto una ragazza avvizzata camminare. È Virginia?».

Luca si preoccupò: come faceva suo figlio a conoscere quel dettaglio del racconto, quello in cui Virginia sarebbe finita a camminare all’infinito? Lo aveva sbirciato mentre scriveva al computer? Impossibile, era rimasto solo tutto la sera, fino a che Michele non era venuto a chiamarlo. L’aria nella stanza sembrò farsi ancora più gelida. Luca si diresse verso la finestra per aprirla e finalmente stemperare un po’ l’ambiente della cameretta.

«NO PAPÀ!» urlò Michele con voce adulta che non gli apparteneva. «TORNA ALLA TUA SEDIA E FINISCI LA STORIA».

E Luca, come sotto un incantesimo, tornò a sedersi e finì di raccontare.

La creatura pronunciò una strana litania e Virginia, in un secondo, si ritrovò catapultata fuori dall’autobus, sul marciapiede sotto casa. Poteva vedere casa sua in cima al colle: le sarebbe bastato fare i cinquanta metri di salita per raggiungerla. Si sarebbe fatta una bella doccia e poi sarebbe andata a letto. Il giorno dopo avrebbe già dimenticato quella surreale corsa in autobus. Forse quella sera aveva semplicemente bevuto troppo oppure aveva ingerito qualche droga senza nemmeno rendersene conto.

Inizio a camminare in direzione di casa sua. Dopo cinque minuti, non era ancora arrivata: le sembrò strano. Quanto ci impiegava si solito a fare quegli ultimi cinquanta metri? Probabilmente non si era ancora ripresa del tutto, pensò, e quindi aveva una percezione alterata. Fece un profondo respiro per bloccare l’ansia che sempre più velocemente cresceva in lei. Un piede dietro l’altro, riprese il cammino verso casa.

Camminava, camminava, camminava. Ormai non sapeva più da quanto. Nel delirio in cui era rimasta intrappolata, vedeva solo alberi morti, cadaveri putrescenti, acque stagnati. I suoi capelli erano diventati di stoppa, gli occhi incavati nella pelle cadente, le unghie lerce come se avesse passato la giornata a scavare a mani nude. Il suo fiato era un rantolo mefitico portatore di morte. Camminava da così tanto tempo che non ricordava più chi fosse e dove dovesse andare, aveva dimenticato come fare a fermarsi.


Luca aveva terminato. “Strano”, pensò tra sé. Il racconto era molto diverso rispetto a quello che aveva avuto in mente qualche ora prima. Guardò suo figlio e quello che vide lo raggelò: era seduto sul letto, con la schiena rigida e il viso rivolto alla finestra. Gli occhi rivoltati, solo il bianco risplendeva nell’ombra del viso. Con movimenti innaturali, simili a quelli di un automa, Michele si alzò dal letto e andò ad aprire la finestra. Il fiotto d’aria che entrò portò con sé puzza di rancido e un caldo infernale. Luca si immobilizzò spaventato. Michele iniziò a gridare di terrore e Luca lo raggiunse di corsa, per capire quale visione lo stesse terrorizzando. Cosa stava succedendo a suo figlio? Era colpa sua? Con orrore si accorse che sul marciapiede della strada a cui la finestra si affacciava, si stagliava una creatura che non toglieva gli occhi da suo figlio. Aveva la pelle macerata, capelli sporchi e arruffati, lunghi fino alle caviglie, la mascella scardinata che le dava un’espressione di continuo tormento. Era Virginia, esattamente come Luca se l’era immaginata. Com’era possibile? Lei esisteva solo nella sua mente. Come poteva essere lì, in poca carne e ossa, a osservarli malignamente dal marciapiede? In un attimo, si dissolse e penetrò turbinando nella bocca di Michele, spalancata dall’orrore. Luca iniziò a gridare e a scuotere suo figlio, cercando di tirargli fuori quella bestia di sua creazione.


Donatella era stufa di Luca. Erano anni che non scriveva più nulla di pubblicabile e lei non ne poteva più di avere due lavori per mantenere uno stile di vita accettabile. Cosa faceva Luca per contribuire a quel progetto di vita che avevano avviato insieme? Cosa faceva per loro figlio? Nulla. Non si preoccupava di pulire casa, di fare la spesa, di andare ai colloqui con le insegnanti. Quella storia doveva finire, e in fretta. Aveva deciso: avrebbe chiesto il divorzio. Luca non avrebbe trascinato tutta la famiglia nel baratro del fallimento.

“Quanto ci sta mettendo a raccontargli questa sua ennesima idea insulsa?” pensò tra sé, adirata. Poi di nuovo in quella notte sentì suo figlio urlare. Corse da Michele e quello che vide la fece quasi svenire: Luca e Michele erano alla finestra, impegnati in una lotta mortale. Il padre era avvinghiato al collo del figlio e non sembrava volerlo mollare. Luca era forse impazzito? Piangendo Donatella si avvicinò e con una spinta allontanò Luca dal suo bambino. La spinta fece arretrare Luca che andò a sbattere contro il davanzale della finestra. Si sbilanciò all’indietro. Donatella, mentre cercava di tenere a bada suo figlio che si dimenava, provò ad afferrare Luca, ma era troppo tardi. Urlando cadde di sotto e la testa si ruppe per l’impatto.

Donatella abbracciò suo figlio piangendo, sconvolta dalla tragedia. Solo qualche minuto prima aveva pensato di liberarsi di suo marito, ma di certo non era pronta a dirgli addio in quel modo. Che cosa ne sarebbe stato di loro? Almeno suo figlio era salvo. Ma cosa stava cercando di fare Luca? Perché aveva tentato di uccidere suo figlio? Cosa era successo? Provò a chiederlo a Michele ma, con preoccupazione, notò che suo figlio non era più in sé. Tremava ed emetteva uno strano rantolo, come chi sta agonizzando sul letto di morte. Donatella pensò che fosse lo shock causato dall’improvvisa morte del padre. Nemmeno lei si sentiva bene: era scossa da brividi e sentiva il bisogno di vomitare. Ma non poteva lasciarsi andare, prima avrebbe dovuto occuparsi di suo figlio. A fatica lo fece sedere sul bordo del letto. Michele teneva lo sguardo fisso davanti a sé, rigido, in una falsa posa di tranquillità. Senza dire niente si alzò, chiuse la finestra e tornò seduto. Donatella fu rincuorata da quella manifestazione di normalità. Si dovette ricredere quando Michele si alzò e con fare meccanico andò ad aprire la finestra. Poi tornò a sedersi. Pochi secondi dopo, si alzò di nuovo e chiuse la finestra. Tornò a sedersi, poi si alzò per aprire la finestra. Donatella andò in panico: cosa aveva suo figlio? Cosa gli aveva fatto Luca? Corse verso il telefono in salotto, per chiamare un’ambulanza, ma venne attirata da una luce proveniente dallo studio di Luca. Era sicura che qualche minuto prima fosse tutto spento. Con il cuore in gola andò a verificare cosa fosse. Il pc sembrava essersi acceso da solo. «Chi è là?» sussurrò roca.

Sulla pagina abbandonata, il racconto ideato da Luca andava avanti da solo: non c’era nessuno che stesse digitando sulla tastiera, eppure le parole non si fermavano. Donatella se la fece sotto dalla paura. Si avvicinò per leggere, sperando di trovare qualcosa che la aiutasse a comprendere quella serata. Aveva bisogno di capire, doveva salvare Michele. Sul monitor appariva un solo nome, ripetuto ormai per una ventina di pagine:


Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia Virginia…

A Donatella non diceva niente. Era sicura di non aver mai conosciuto nessuna Virginia. Ed era certa che nemmeno Luca o Michele avessero avuto a che fare con una Virginia. All’improvviso le lettere sullo schermo parvero cambiare. Stavano collassando, staccandosi dalla pagina. Divennero un unico grumo nero. Donatella si avvicinò sempre più, per capire quello strano fenomeno. Il grumo di lettere fece un balzo verso di lei, uscendo dallo schermo. L’avvinghiarono la testa. Donatella cercò di urlare, ma un denso liquido nero le entrò in bocca, soffocandola. La forza di quella sostanza la trascinò verso il monitor. Provò a divincolarsi e a resistere, aggrappandosi alla sedia, ma fu inutile. Tra le urla soffocate di Donatella, la testa entrò per intero nel monitor e venne tranciata dal resto del corpo, che cadde a terra con un tonfo sordo. 

Nell’esatto istante tornò la luce dei lampioni che illuminò il marciapiede. Luca giaceva a terra, con il corpo in una posa innaturale e la macchia di sangue che si allargava sotto la sua tempia.

Michele chiuse la finestra. Si sedette sul bordo del letto. Aprì la finestra.


Qualche minuto dopo arrivò la polizia, chiamata dai vicini che avevano visto Luca cadere dalla finestra. Quando entrarono in casa trovarono un cadavere senza testa e un ragazzino sotto shock che continuava ad aprire e chiudere la finestra.

Michele venne accusato dell’omicidio di entrambi i genitori. I vicini del condominio di fronte avevano assistito alla lotta mortale tra lui e il padre, avevano visto la madre tentare di salvarlo e poi il padre cadere. Infine, anche la madre era stata trovata morta. Il colpevole doveva essere chi era sopravvissuto.

Michele fu dichiarato incapace di intendere e di volere e fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico, dove passò il resto della sua vita a chiudere e aprire la finestra della sua stanza.

La testa di Donatella non fu mai ritrovata.