Il re Tancredi Onnigrafo Magazine

Il re Tancredi

illustrazione di Andrea Sfiligoi

Tancredi era sul selciato, chino sui ciottoli immaginando che fossero le pedine del suo regno immaginario. La fossa vicino al sentiero era la costa verde del suo mondo e le pozze d’acqua i grandi laghi. Poco aveva importanza in quei giorni freddi e noiosi, le giornate passate a infastidire le galline erano ancora lontane, quelle se ne stanno al pollaio e non escono, pensava tra sé ogni mattina. Stupidi polli!

La strada conduceva in ripida salita verso la casa dei nonni, dove oramai Tancredi viveva da quasi un anno. I suoi genitori, sua madre infermiera e suo padre medico, erano al fronte. La guerra imperversava da oltre due anni e il giorno che andò a vivere lì, fu anche l’ultimo in cui vide i suoi cari. Non li avrebbe visti mai più.

Tancredi. Che nome bizzarro. Alcuni coetanei al paese lo chiamavano “il Tancredi”, come se non fosse un nome, ma un cognome. A Tancredi in realtà piaceva, gli dava un'aria di rispetto, come se fosse stato arricchito dal un titolo del tipo “Il Signor Tancredi” oppure, nei giorni in cui fantasticava sul selciato, “Il Granduca Tancredi”.

La prima volta che si sentì chiamare a quel modo fu poco dopo che i suoi genitori erano partiti. Con i nonni avevano presso un carretto ed erano arrivati alla piazza del paese. Lì un gruppo di ragazzini, più o meno della sua età, gli corsero incontro come fosse stato un loro vecchio conoscente.

“Ciao! Io sono Giovanni. Lui è Massimiliano, lei è Adele, e quello alto è Luciano. Tu chi sei?”

Un ragazzino dai capelli rossi e un gran numero di lentiggini sotto gli occhi aveva squillato, a voce alta, presentando sé e tutta la combriccola. Tancredi non abituato a quella travolgente curiosità era rimasto ammutolito.

Adele a quel punto sussultò preoccupata esclamando “Oddio, forse è muto… Giovanni non lo assillare!”

Tancredi era intimorito da tutta la situazione. Non capiva perché gli erano andati incontro e che cosa volessero, però non volle fare la figura dell’antipatico e, anche se con voce appena percettibile, si fece coraggio presentandosi a tutti: “Mi chiamo Tancredi”.

Giovanni sgranò gli occhi e si girò verso Adele che portandosi una mano davanti alla bocca, come a nascondere la vergogna per l’errore, sussultò incredula. “Ha la lingua Adele! Parla! Miracolooo!” Giovanni era sgomento, come se l’informazione di Adele fosse stata una pietra miliare, una verità assoluta su tutto; era stupito e felice per Tancredi in modo genuino, saltava e urlava per tutta la piazza, con i suoi compagni che gli correvano dietro. Tancredi non capiva. Cosa c’era da essere così allegri? Giovanni continuava a correre e gridare, passandogli accanto due, tre volte, alla quarta lo prese per mano e lo trascinò nella sua folle allegria mentre gridava a squarciagola “il Tancredi è salvo, il Tancredi parla!”

La giornata continuò felice. Spensierata.


Quella stessa sera in lontananza, verso il mare, la città grande bruciava. Fischi e boati scuotevano la notte. Nonna Matilda gli aveva raccomandato di rimanere a letto protetto sotto le coperte. Non doveva sbirciare fuori dagli scuri, né scendere in cucina. La notte sarebbe passata e l’indomani sarebbe stato un altro giorno di spensieratezza. I boati si fecero più intensi e vicini, fino a far tremare le mura e tutte le suppellettili di casa. L’ultimo boato fu enorme, talmente forte da rompere gli specchi, la casa tremò tutta quanta per un istante, le finestre si aprirono di colpo facendo entrare ancora più rumore, vento e polvere. Tancredi si era rannicchiato sotto le coperte, protetto dal quel mantello magico che gli aveva ricamato Nonna Matilda con la lana delle pecore di Nonno Quinto. Il rumore continuò frastornante, tutto tremava e pareva venir giù. La gola di Tancredi pizzicava per il fumo che dal camino era salito fin sulle stanze e le orecchie erano ovattate dal gran frastuono là fuori. Tancredi credette di morire, per un attimo. Ma poi qualcuno lo prese, tenendolo stretto a sé. Qualcosa di robusto e pesante lo stava proteggendo da tutto quel gran caos che immaginava oltre i suoi occhi serrati. Il sonno arrivò dopo pochi istanti dopo che la casa aveva smesso di tremare, stremato da una notte indimenticabile.

Da quel giorno Tancredi non ebbe modo di tornare giù al paese a giocare con i suoi nuovi amici, ma nei mesi successivi passati su quel colle così alto, avrebbe fatto suo quel nome altisonante preceduto dal gran titolo. Avrebbe giocato sul selciato, guardando la casa dei nonni invecchiare, rompersi pian piano, priva di qualunque sostegno, priva delle voci e dei rumori veri. Avrebbe aspettato i suoi genitori, invano. Li avrebbe visti in sogno, morire sotto i colpi di artiglieria nemica. Avrebbe toccato i loro volti freddi, guardato attraverso i loro occhi vitrei.

La casa era distrutta. I nonni sotto di essa. Tancredi era rimasto solo. Non voleva andarsene da quel luogo che tanto lo teneva ancorato alla realtà. La sua, quella immaginata sul selciato bianco, dove qualsiasi altisonante titolo precedeva il suo nome. Oltre le verdi coste, davanti alle rive dei grandi laghi, con i ciottoli a rotolar giù per il sentiero giorno dopo giorno sempre più ripido.

E quegli amici spensierati. Quelli lo avrebbero cercato e infine trovato. Avrebbero pianto, lo avrebbero ricordato. E lui li avrebbe visti, arrivare di corsa lungo quella salita così ripida. Rimanere attoniti di fronte alla casa divelta dalla bomba. Con i corpi dei nonni anneriti spuntare da sotto le macerie. Giovanni, ora silenzioso, lo avrebbe visto lì, su quel selciato, schiacciato da una pesante trave scurita dal fuoco. Lo avrebbe ricordato per sempre soltanto in quel modo. E Tancredi non capiva, urlava i loro nomi mentre cercava di correre verso di loro, ma la salita si faceva sempre più ripida, fino a diventare il muro di una scogliera. Loro sulla cima, su di esso e lui in fondo, con i piedi tra gli scogli di un mare nero che pian piano lo trascinava a largo e poi dentro un mulinello, nel suo regno oscuro.

Ma Tancredi ogni mattina si svegliava, andava sul selciato e si chinava sui ciottoli immaginando che fossero le pedine del suo regno immaginario. Governava la sua gente, prima da Signore, poi da Duca e da infine da Re.