Mi devi un bacio Onnigrafo Magazine

Mi devi un bacio



«WTF!» il peso da cinque kg che tenevo in mano cade rovinosamente a terra, riesco a spostare il piede giusto in tempo prima che mi si maciulli sotto l’attrezzo. 

Giro lo sguardo verso destra dove l’enorme vetrata che dà sul giardino sta vibrando come se avesse preso un colpo. Vedo un’ombra comparire e mi metto subito in allerta, i ladri hanno già tentato tre volte di entrare in casa negli ultimi dieci giorni e questa volta non mi farò certo trovare impreparato. Afferro la mazza da baseball appartenuta al giocatore più bravo di sempre - pagata all’asta un occhio della testa ma ne valeva la pena - e custodita come una reliquia ed esco brandendola contro quello sprovveduto che non sa davvero con chi ha a che fare. 

Muovo due passi verso il patio ed eccolo lì il lurido bastardo che sembra in tutto e per tutto... una ragazza? Ha i capelli raccolti in una treccia sfatta e una smorfia di dolore spiaccicata sulla faccia. Mi fa una gran pena. Il suo aspetto malandato la fa sembrare appena uscita da una rissa eppure quelle gambe scoperte colpiscono il mio sguardo malandrino. Il suo fisico però non le dà il diritto di introdursi in casa mia senza invito. Poso la mazza a terra perché non è mia intenzione colpire una donna o, almeno, non con quella di mazza. Un sorrisetto malizioso si impossessa del mio viso al solo pensiero di poterci fare qualcosa, anche se, immagino, le sue condizioni non siano delle migliori. 

«Tu saresti?» chiedo con una nota di sarcasmo nella voce. In realtà la situazione mi pare piuttosto bizzarra. 

«Io credo di chiamarmi Lilly e sono, o forse ero, una cameriera. Ora sai che non lo so più? Che cavolo hai montato nei vetri, frammenti di cemento?»

«Più o meno. Sono vetri rinforzati antiintrusione.»

«Fanno male.»

«Li ho fatti installare apposta. E tu forse non avresti dovuto tentare di invadere il mio territorio in maniera tanto maldestra.»

«E tu forse dovresti mettere dei segnali che indicano a quale vetro esatto corrisponde la porta.»

«A dire il vero il segnale c’è. Si chiama maniglia ma mi pare evidente tu non abbia visto nemmeno quella.»

La guardo arrossire e non so perché il mio sadismo misto a ironia della sorte vanno a scemare.

Tenta di nascondere il viso tra le mani ma la fronte scoperta, su cui troneggia 

un piccolo bozzo, mi provoca uno strano formicolio al petto. Non so se si tratta di pena o accenno di senso di colpa ma ho una gran voglia di stringerla in un abbraccio. 

«Comunque io sono Aaron, almeno puoi dirmi cosa ci fai a casa mia?»

«Non hai risposto al telefono.» 

«Lo avevo staccato perché non mi piace essere interrotto mentre faccio i miei esercizi.» 

Alzo un sopracciglio in sua direzione in attesa di una risposta che contenga una scusa abbastanza plausibile al fatto che sia qui. 

«Non era mia intenzione disturbare né interrompere i tuoi importantissimi esercizi ma io ho qualcosa che credo ti possa servire.»

Controllo un po’ nelle mie tasche e già che ci sono tasto le mutande per verificare sia tutto a posto. A parte un leggero rigonfiamento direi che tutto è al posto giusto.

«Ho appena verificato e ho tutto quello che mi serve, tranquilla. Sarà mica una scusa la tua?» 

Ridacchio divertito ma mi blocco non appena noto le sue difficoltà di deambulazione. Forse il colpo che ha preso è stato più forte del previsto. Si avvicina pericolosamente al mio alberello ornamentale e ci vomita dentro. 

«Cristo! Non pensavo stessi così male, avrei evitato di fare troppo lo stronzo. Avanti andiamo dentro, ti porto del ghiaccio e un bel bicchiere d’acqua.»

Lascio che si appoggi al mio braccio, la scorto all’interno e la faccio stendere sul divano. Spero non vomiti anche su quello perché non saprei come pulirlo e detesterei buttarlo al macero. 

«Aa coso come ti chiami, mi dispiace. Non sono certo venuta qui per mostrarti i residui del mio intestino.» 

«Ah no? E io che credevo volessi condividere quanto di più intimo e interiore possa esserci.» 

«Non sei simpatico.»

«Me lo dicono in molti. In compenso ho ben altre qualità.»

«Non mi interessa sapere quali anche se immagino che uno come te non veda l’ora di mostrare le proprie doti nascoste.»

«E sentiamo come sarebbe “uno come me”?»

«Il classico uomo bello e impossibile che vive da solo in una villa per dodici persone e che si ammazza di pesi per compensare la mancanza di materia cerebrale.»

«Un po’ presuntuoso da parte tua pensare questo, non credi?»

«Perché ho ragione?»

«No, perché mi stai giudicando sulla base di un tuo pregiudizio. E io cosa dovrei pensare di te allora? Una poveretta che si introduce di nascosto nelle abitazioni altrui ma non riesce neppure a centrare una cazzo di porta?»

«Non capisco perché ti scaldi tanto. Io ero solo venuta a riportarti questo. È tuo no?»

Mi agita davanti quello che a tutti gli effetti somiglia al mio portafogli. Possibile che mi sia caduto? Sono stato così distratto? Non è da me fare certe cazzate. 

«Dove lo hai preso?»

«Lo hai dimenticato sulla sedia del “Blue Moon”. Ci lavoro solo da un giorno e non volevo dare al mio capo un buon motivo per licenziarmi appena arrivata, così ho fatto la prima cosa che mi è venuta in mente e cioè cercare il modo per restituirlo. Vi ho trovato un biglietto da visita che mi ha condotta qui, dopo aver provato a chiamare al numero segnato ovviamente. Sbattere contro il suo vetro non era previsto Avvocato Tower.»

«Chiamami Aaron, non siamo nel mio studio. Aspetta, sei tu che mi hai servito da bere stasera?» 

«No, io ero in servizio all’interno ma ho dovuto sostituire la mia collega prima della chiusura e pulendo il tavolo mi sono imbattuta nel tuo preziosissimo cimelio.»

«Chiunque altro al tuo posto avrebbe lasciato il portafogli al bar in attesa che il legittimo proprietario venga a reclamarlo. Iniziativa azzardata la tua.»

Mi siedo accanto a lei, le tolgo il sacchetto del ghiaccio e verifico lo stato del bernoccolo. Le sposto una ciocca dietro l’orecchio e mi avvicino al suo viso tanto da sentire il suo profumo inebriarmi le narici. 

«Nessuno ha mai rischiato di “perderci la testa” così tanto per me.»

«Per nessuno ho mai rischiato di “perdere la testa” così tanto. E, comunque, ti devo una pianta finta.»

Le sorrido, diminuendo ancora la distanza tra noi. 

«E ora» pronuncio a fior di labbra «mi devi anche un bacio.»