Due enormi battenti dorati si aprirono su una vasta sala luminosa. Ampi finestroni posti sul soffitto a cupola e sulle pareti cesellate inondavano l’ambiente di una luce cristallina, pulita. Oltre le cornici, un cielo di una tonalità pastello celeste era interrotto di quando in quando da alcune soffici nuvolette bianche, candide quanto il marmo che lastricava il pavimento dell’atrio.
La sala era gremita di gente. Serafini e Cherubini riempivano le panche della platea, parlottando animatamente. Gli Arconti facevano la guardia alle porte e alla giuria, ritti e impettiti, le punte degli spadoni di fuoco appoggiate al pavimento davanti a loro, mentre entrambi i palmi posavano sull’elsa. I Putti svolazzavano qua e là come mosche impazzite, recando messaggi vergati su pergamene incartapecorite. I Giudici della giuria erano gli unici a starsene silenziosi, vecchi gufi attaccati agli scranni come se fossero gli unici appigli solidi che erano rimasti loro.
Giacomino inspirò e fece un passo avanti. I portoni si richiusero dietro di lui e fu dentro. La folla si zittì un poco, i Giudici puntarono gli occhi sull’imputato. Passo dopo passo, i piedi che fluttuavano sulla pavimentazione lastricata, Giacomino percorse tutta la navata centrale sforzandosi di non staccare gli occhi dalla panca situata al termine del corridoio, la panca riservata a lui. Giuntovi, attese in piedi. Tutti si alzarono, dalla platea gremita ai Giudici della giuria.
Il Giudice Mastro fece il suo ingresso da una porticina laterale. Era talmente bassa, ed egli talmente alto, che dovette piegarsi in avanti per passare. La sua schiena mandò un gridolino di protesta per lo sforzo.
Con passi lenti ma ben bilanciati, l’anziano giunse al suo scranno in mezzo agli altri togati, dritto di fronte a Giacomino. Indossava un paio di ali piumate posticce, così come i suoi colleghi. Era un simbolo di prestigio e di onore.
Il Giudice Mastro prese a scribacchiare su di un registro, sfogliandone le larghe pagine ingiallite e vergando alcune note qui e lì con una piuma intinta nell’inchiostro.
La platea alle spalle di Giacomino a poco a poco si ammutolì, mentre l’imputato passava in rassegna i volti della schiera di Giudici che si ostinavano a non staccare lo sguardo da lui. Pareva avessero già raggiunto un verdetto nonostante il processo dovesse ancora cominciare.
Il Giudice Mastro chiuse il registro con un tonfo e lo spostò di lato. Poi srotolò una pergamena che gli fu passata al volo da un putto. “Giacomino, angelo di second’ordine, affiliato al quinto cielo,” la sua voce suonò stanca, quasi afflitta. “Non mi dilungherò a ripetere ciò che è sulla bocca di tutti oramai da un paio di giorni. Le regole sono regole. E l’accusa è la stessa che ti è stata mossa due giorni fa, quando una pattuglia di Arconti ti ha fermato. A un angelo della tua levatura non è permesso di interferire con l’esistenza dei comuni mortali, né direttamente né indirettamente. La legge è inconfutabile!”
“Sua eminenza…” si intromise Giacomino.
“Tuttavia”, riprese il Giudice Mastro alzando una mano per interrompere l’imputato, “abbiamo un testimone che ha scelto di restare nell’ombra fino allo svolgersi del processo. Si faccia avanti l’angelo osservatore Ermanno!”
La platea prese a mormorare e si scostò per lasciar passare un vecchio ricurvo con barba e capelli grigi. Giacomino tirò un sospiro di sollievo. Conosceva Ermanno di persona e l’anziano angelo non gli avrebbe giocato un brutto tiro. Forse.
Il vecchio raggiunse il palco dei testimoni senza degnare Giacomino di una seconda occhiata. Ricredendosi, quest’ultimo considerò che non era un buon segno.
“Io sono una Virtù ” esordì Ermanno con la sua voce gracchiante. Con occhi vivi e sgranati si rivolgeva agli astanti tra la platea e la giuria. “Come tutte le Virtù dedico il mio tempo all’osservazione degli uomini, registrando il mutamento della storia e il corso degli eventi. Per puro caso mi sono imbattuto nell’imputato e nel suo gesto illegale nei confronti del soldato Attilio.”
Quel nome risuonava nella mente di Giacomino ininterrottamente dalla notte del fattaccio. Quanto gli stava costando quell’errore, ma se avesse potuto tornare indietro l’avrebbe rifatto.
“Ma è meglio procedere con ordine, per avere un quadro completo degli eventi. Tutto cominciò due giorni or sono, precisamente la notte del 6 ottobre dell’anno 1916, lungo le rive del fiume…”
Isonzo. Ormai erano due mesi che non osservavano altro che il fiume. Mantenete la posizione, questi erano gli ordini. Non permettete che il nemico conquisti il fronte che abbiamo da poco riscattato. La facevano facile i generali, ma ormai da parecchie settimane poco si muoveva e nulla cambiava.
Attilio spostò la baionetta dalla spalla sinistra a quella destra. Se ne stava seduto nella trincea, la schiena poggiata contro una parete di terreno compatto. I suoi compagni camerati dormivano nelle cuccette situate poco lontano. Egli era di sentinella quella notte insieme a pochi altri, disposti ogni venti metri lungo il perimetro come da regolamento.
Il soldato fissava il cielo. Quella notte era particolarmente limpida e luminosa. La volta celeste era priva di nuvole che la oscurassero, i fumi degli accampamenti erano stati dispersi da un forte vento, tipico dell’autunno. Sopra al milite, una miriade di stelle punteggiava il cielo notturno. Tra di loro, la Luna piena la faceva da padrona.
Attilio non aveva mai passato una notte così in vita sua. Ore e ore spese a guardare le stelle, a fissarle mentre luccicavano impercettibilmente come a fargli un mezzo occhiolino.
I soldati erano costretti ad aspettare. Dopo la battaglia di agosto i viveri scarseggiavano e i pochi carichi di rifornimenti che arrivavano contenevano solo cibo, sapone e munizioni. Non c’era spazio per le lettere… La corrispondenza non arrivava più almeno da giugno.
Il soldato Attilio riportò la baionetta sulla spalla sinistra e tornò a fissare le stelle. Chissà se anche Amelia le stava guardando… Ah, Amelia. Ancora pochi mesi al fronte e sarebbe passato un anno da quando le aveva detto addio. Anzi, arrivederci; lei aveva insistito perché si sposassero prima che lui partisse per la guerra. Il paese di Somma Lombardo non era mai sembrato loro così bello come in quel giorno.
Da allora si erano scritti periodicamente, o meglio lei aveva dettato le lettere a una signora del paese che sapeva scrivere, Attilio se le era fatte leggere da un commilitone che era stato a scuola a Milano, e viceversa.
Quanto gli mancava Amelia, quanto gli mancava la sua città, i genitori, i fratelli e le sorelle, gli amici… La sua vera vita era a qualche centinaio di chilometri da lì; ma c’era il nemico da combattere. Gli austro-ungarici erano soldati tenaci, ben organizzati e meglio equipaggiati degli italiani. Presto sarebbero arrivati i rifornimenti e un nuovo assalto sarebbe cominciato.
“Ancora distratto, Attilio? Non capisco come tu faccia a non gelare, stando seduto lì immobile. Io per scaldarmi ogni tanto devo fare una breve passeggiata in trincea.”
Attilio si riebbe e si accorse che durante il flusso di pensieri quasi si era assopito. A parlare era un soldato di nome Onorato. Lo conosceva da qualche settimana, da quando l’avevano inviato dalla Brigata Sassari a sostituire un commilitone caduto. Questi era stato nella sua stessa legione dall’inizio della guerra ed era stato colpito da una pallottola austriaca durante l’assalto di agosto.
“In effetti sto rabbrividendo” rispose Attilio alzandosi in piedi e strofinandosi il fondoschiena per eliminare la polvere.
“Stai ancora a pensare a tua moglie? Come hai detto che si chiama? Adele?”
“Amelia. Stavo riflettendo se in questo momento stia dormendo tranquilla, riposando le membra dopo un’altra dura giornata di lavoro in fabbrica, o se sia sveglia, il suo pensiero rivolto a me…”
Onorato si accese una sigaretta. Chissà dove l’aveva trovata. “Fabbrica? Dove lavora tua moglie?”
“Quando l’Italia non era ancora entrata in guerra ha trovato impiego presso la Ditta Caproni, a Somma Lombardo, dove vivo io.” Vivevo, si corresse mentalmente.
Onorato aspirò una boccata, poi soffiò il fumo in faccia al compagno. “Ditta Caproni, eh? Cosa producono?”
Attilio agitò una mano per disperdere il fumo. “Assemblano pezzi di ricambio per aeroplani. Lei è addetta al reparto motori. Assembla i motori Piaggio alla fusoliera.”
“Bene, bene” commentò Onorato, che perdeva già interesse per la questione. “Coraggio, qualcosa mi dice che manca poco alla fine della guerra.”
Se per ogni volta che avesse sentito quella frase Attilio avesse ricevuto una lira, ora sarebbe stato ricco sfondato. “Lo spero proprio” concluse, ma Onorato se ne stava già tornando alla propria postazione.
Già che sono in piedi è meglio fare il mio dovere, pensò Attilio. Si aggrappò ai parapetti e sollevò il proprio peso avvalendosi di una scaletta. Appoggiò la baionetta al supporto e sporse il capo oltre il bordo della trincea, a livello del terreno.
Il fiume Isonzo, largo poco più di un canale, rifletteva la marea di stelle della volta celeste. Le sue acque erano calme, scure e quiete. Al di là, riparati da una folta muraglia di alberi, se ne stavano nascosti gli austriaci, con i loro temibili cannoni da trecentocinque millimetri pronti a debellare un’eventuale incursione italiana.
Attilio fece scorrere lo sguardo lungo la linea nemica. Non si vedeva nessuno, ma neppure gli austriaci potevano scorgere loro. Il buio non era un problema in quella notte stellata, ma la vegetazione e la conformazione del terreno…
Si bloccò d’improvviso. C’era qualcosa sulla riva del fiume, qualcosa che un secondo prima non c’era o non aveva notato. Una luminescenza bianca con la sagoma vagamente familiare di una persona. Fissò l’immagine cercando di mettere a fuoco, chiedendosi cosa potesse essere.
I suoi occhi si spalancarono involontariamente, la bocca e le spalle iniziarono a tremare. Lì, sulla riva italiana del fiume Isonzo, c’era Amelia. Era bellissima, tutta vestita di bianco come il giorno delle nozze, i capelli castani raccolti in una treccia, mossi da un vento impalpabile. E gli sorrideva. Lo guardava e gli sorrideva, le braccia aperte pronte ad accoglierlo.
Attilio perse completamente la cognizione di quando e dove si trovava. Gettò via la baionetta. Si arrampicò fuori della trincea usando entrambe le mani. Le sue unghie graffiavano il terreno cercando un appiglio solido. I muscoli delle braccia urlarono di dolore per lo sforzo improvviso e inaspettato ma Attilio non si accorse di nulla. C’era solo Amelia nella sua mente, Amelia che lo aspettava per rincuorarlo, per riscaldarlo, per dirgli che la guerra era finita e che sarebbero tornati a casa insieme per vivere tutta una vita piena di giornate intense e invecchiare fianco a fianco.
Il soldato corse sul terreno brullo devastato dalle incursioni, senza neppure udire i richiami dei commilitoni. Corse dimentico di tutto, ansioso solo di raggiungere la propria amata.
Nonostante il freddo, la fronte gli si imperlò di sudore, che presto gli andò negli occhi, a mescolarsi alle lacrime di un pianto silenzioso. Non si era nemmeno accorto dei singhiozzi fino a che dovette strofinarsi gli occhi per il bruciore. Quando li riaprì, Amelia era scomparsa, proprio quando al marito mancavano solo pochi metri per raggiungerla. Attilio comprese in un secondo di aver fatto una follia.
Udì il ruggito di un cannone e comprese che si trattava di un pezzo di artiglieria austriaco. Volse il capo in direzione della trincea amica e calcolò che la distanza da coprire per tornare indietro era inferiore ai venticinque metri. Poteva farcela.
Si mise a correre, ma non come in precedenza. Prima aveva corso insensibile ai richiami che il corpo gli mandava per essere stato troppo fermo nella stessa posizione. Ora subiva le conseguenze di quei traumi e correva come un ubriaco, i polpacci e le cosce scossi da crampi, le caviglie che schioccavano ad ogni passo.
Un proiettile esplose alla sua sinistra, rendendolo sordo da un orecchio. Per un istante, la notte si illuminò di giallo e rosso. Attilio poté avvertire il calore bruciante della fiammata. Barcollando verso la salvezza si massaggiò il braccio sinistro scoprendo di aver subito solo una lieve scottatura.
I botti dei cannoni si moltiplicarono, le esplosioni si susseguirono implacabili. Attilio vide che non mancavano che dieci metri, ma sembravano cento. I suoi commilitoni si sporgevano dalla trincea, sbracciandosi nel tentativo di incitarlo ulteriormente. Si chiese se quella sarebbe stata l’ultima immagine che avrebbe visto prima di morire.
Non ricordò di essersi lanciato, sporco e sudato, dritto dentro la trincea, atterrando tra le braccia dei compagni che si apprestarono subito a posarlo a terra. Ricordò invece che alcuni gli rivolgevano parole confortanti mentre altri scuotevano la testa dandogli del pazzo.
Più tardi si abbandonò al sonno, l’immagine della figura luminosa che proprio non voleva abbandonare la sua mente.
“Al soldato Attilio furono dati due turni di riposo, poi tutto fu archiviato in fretta e furia perché c’erano questioni più urgenti cui pensare.”
La Virtù Ermanno concluse il suo racconto lasciando la sala ammutolita. Come sempre, le chiacchiere della gente erano distorte e frammentarie. Questa era la prima volta che la platea udiva la versione completa della storia.
Dal canto loro, i Giudici non sembrarono sorpresi. Il Giudice Mastro si schiarì la voce e, riprendendo le redini dell’arringa, porse una domanda all’angelo di second’ordine Giacomino. “Il racconto della Virtù è stato chiaro e sincero. Quindi ora il sottoscritto, a nome di tutta la giuria, ti chiede: perché? Cosa ti ha spinto a far comparire l’immagine della moglie del soldato nel bel mezzo di una zona di nessuno?”
Giacomino si sentiva mortificato. Avere udito il racconto di Ermanno era stato come riviverlo di nuovo. “Amelia è morta quel giorno. E’ successo nella fabbrica in cui lavorava. Mentre il gruista stava calando un motore nella fusoliera di un aeroplano, una cinghia di supporto non ha tenuto e Amelia è stata travolta. Attilio non l’avrebbe saputo prima di molti mesi a causa dell’interruzione del servizio postale. I soldati in un campo di battaglia sono a rischio ogni giorno e volevo che Attilio avesse la possibilità di starle accanto un’ultima volta, semmai non fosse riuscito a tornare a Somma Lombardo per piangere sulla tomba della moglie. Desideravo che lei comparisse nella trincea e che avessero la possibilità di parlare, di giurarsi eterno amore come davanti all’altare. Ma, ahimè, ho sbagliato i calcoli e l’ho fatta apparire vicino al fiume. E solo per pochi secondi, per giunta. Non mi dichiaro innocente e sono pronto ad accogliere qualunque punizione la giuria vorrà affibbiarmi.”
Giacomino tenne lo sguardo fisso sui Giudici. Aveva sbagliato. Era pronto a pagarne le conseguenze. Ma abbassare gli occhi in quel momento gli sarebbe sembrato un gesto di codardia.
Al contrario, il Giudice Mastro evitò di guardarlo per concentrarsi su di un nuovo rotolo di pergamena, anche questo passatogli al volo da un Putto che, dopo essere sceso in picchiata sull’anziano, risalì fischiettando come un fringuello. “Al contrario di Ermanno, tu non sei un angelo osservatore e, come a lui, ti è vietato interferire con i mortali. Prima di riferire il suo racconto alla giuria, la Virtù Ermanno mi ha reso partecipe della sua testimonianza in sede privata. E abbiamo indagato più a fondo sulla vicenda…”
Il Giudice Mastro si interruppe, fece un grosso sospiro, poi tornò a sostenere lo sguardo di Giacomino. “Il soldato Attilio è stato ucciso questa mattina.”
La frase ebbe sulla platea l’effetto di un breve terremoto. Tutti si mossero a disagio sulle sedie mentre quello che era cominciato come un brusio di sottofondo divenne un parlottio concitato.
Giacomino era rimasto congelato, a bocca aperta, incapace di dire o fare alcunché. Si era affezionato ad Attilio e alla sua vicenda. Ma quel soldato se ne era andato. La guerra aveva mietuto un’altra vittima.
Il Giudice Mastro fu costretto a usare il martelletto per riportare la calma in sala. “Non importano le circostanze in cui Attilio è morto. E’ accaduto durante un assalto. Il soldato aveva appena ripreso il servizio dopo i due turni di riposo. Non ha accusato il colpo, non ha sofferto e non è stato ucciso a causa delle tue azioni. Forse sarebbe accaduto comunque, forse no. Non è dato a noi saperlo.”
Il Giudice Mastro concesse qualche secondo di pausa agli astanti per riprendersi e assimilare ciò che avevano udito. Giacomino andò a cercare lo sguardo di Ermanno e sorprendentemente si accorse che l’angelo osservatore lo stava già fissando. Nella sua espressione vi lesse tristezza, compassione. Ma c’era anche qualcos’altro di indecifrabile.
Il capo dei Giudici riprese la parola. “Abbiamo scoperto anche dell’altro. Tre settimane prima di morire, Amelia ha dato alla luce un bambino, il figlio di Attilio!”
In quell’istante la folla esplose. Tutti sembravano avere mille commenti e mille domande. Giacomino era immobile come una statua. Il Giudice Mastro fu costretto a sbattere più e più volte il martelletto sulla gilda, l’apposito ripiano tondo di legno.
“Attilio non ha mai saputo nemmeno che Amelia fosse incinta a causa dell’interruzione del servizio postale. Il bimbo ora è accudito da una zia che gli fa da levatrice, ma presto finirà in orfanotrofio, dove vivrà nella solitudine e nella povertà.
Giacomino, dopo la testimonianza della Virtù Ermanno e la tua stessa ammissione, la Corte dei Giudici non può far altro che considerarti colpevole. E abbiamo già anche convenuto una punizione adeguata.”
Giacomino abbassò la testa, la platea ammutolì. Il verdetto era da sempre stato scontato, la punizione per aver infranto una regola così importante era una cosa che suscitava maggiore curiosità.
“Giacomino, angelo di second’ordine, affiliato al quinto cerchio, io ti ordino di scendere sulla Terra e raggiungere il figlio di Attilio e Amelia. Lo accompagnerai nella sua crescita, lo affiancherai in ogni giornata, lo sosterrai quando ne avrà maggiormente bisogno. Sarai una presenza invisibile e impalpabile, ma comunque confortante. Tu sarai il suo angelo custode. Così è stato deciso, per ordine di Colui Che Tutto Può.”
La platea esplose in un fragore per la seconda volta, ma al contrario di prima furono parole di sollievo e approvazione.
Giacomino, incredulo, tornò a guardare l’angelo Osservatore Ermanno, che sorrideva. Quindi comprese. Quella che gli era stata imposta non era una vera punizione ma serviva a vari scopi. L’avrebbe tenuto lontano per un po’ dai Cieli evitando che combinasse altri guai. Avrebbe vissuto tra i mortali che lo affascinavano tanto ma al tempo stesso non si sarebbe intromesso nelle loro vite per la sua intangibilità. Avrebbe avuto modo di rendere un favore al soldato Attilio redimendosi per il suo errore e prendendosi cura del figlio che aveva avuto con Amelia.
La folla lo seguì mentre percorreva la navata centrale dell’edificio per uscire all’aperto, dove il sole splendeva e i Cieli erano luminosi. Aveva una missione da compiere sin da subito. Quando un bambino ha bisogno di aiuto non lo si fa aspettare. E la guerra non era ancora terminata.