Elizabeth diede l’ultimo sguardo al telefonino, prima di fare un respiro profondo ed andare in salotto. Il vociare si sentiva da camera sua, e non prometteva di estinguersi a breve. Nel corridoio si respirava il fumo di decine di sigarette, e le voci si sovrapponevano interrotte, ogni tanto, dal rumore di qualche passo.
Camminò lentamente, mentre Daisy la guardava da lontano. Abbaiò, senza che nessuno, al di fuori della sua padroncina, se ne accorgesse.
«Torna di là, piccola!» le ordinò Elizabeth. Daisy continuava a fissarla con i suoi occhi vivaci; le girò attorno, come aveva fatto diverse volte quella sera, senza dare a intendere alla piccola Liz cosa realmente volesse.
«Ti ho già detto che corriamo un rischio! E molto grosso, Dan!» diceva, nel frattempo, la signora Cole. Il giovane avvocato di famiglia continuava a insistere, sfogliando nervosamente le pagine del codice penale, abbondantemente sottolineato.
«Sarebbe come dichiarare guerra», aggiunse il marito, «e non vogliamo la guerra. Non ne abbiamo bisogno, e credo nemmeno loro.»
«Anche se continuano a provocare? Sono mesi che va avanti questa storia!» esclamò sua moglie, mentre Liz entrava timidamente in salotto.
«Mamma, non mi sento bene» disse dopo alcuni secondi, immobile davanti all’ingresso.
«Che cos’hai, piccola?» chiese suo padre.
«Cerca un’alternativa, Dan. Ci deve pur essere!» insisteva sua madre.
Liz, guardandola fumare nervosamente, non sapeva cosa dire. Suo padre, non avendo ricevuto risposta, continuò a passeggiare su e giù per la casa, parlando con i colleghi di lavoro che se ne stavano tranquillamente appoggiati su un angolo.
«Mamma», insistette Liz. «Ho ancora mal di stomaco…»
Sua madre si voltò verso di lei. La guardò per alcuni istanti, posando la sigaretta ancora accesa. Si alzò poi dal divano, per andarle incontro.
«Hai preso le pastiglie? Le ho lasciate in camera tua.»
«Non le ho trovate, mamma.»
«Beh, sarà il caso che tu le cerchi, Liz. Non posso dirti le cose cento volte, sei grande ormai. Sono nel primo cassetto del comodino.»
Dan, il giovane avvocato, si era girato in attesa di parlare nuovamente con la signora Cole. Anche suo padre si avvicinò, solo per un momento.
«Piccola, fa’ come dice tua madre. Ne avremo per molto ancora, qui.»
«Già», gli fece eco uno dei colleghi, «se non portiamo a casa la causa, la vedo dura che tuo padre potrà permettersi altre pastiglie!»
«Battuta sciocca, Phil», rispose il signor Cole. «Torniamo al lavoro.»
I suoi genitori si voltarono, mentre Liz rimaneva immobile, tenendosi la mano sulla pancia. Daisy le stava ancora vicino. Si era fermata accanto alla sua gamba, strusciando il muso sulla caviglia.
Tornò in camera, capendo bene come gli schiamazzi sarebbero durati per tutta la sera. Prese in mano il telefono, decisa su quale fosse la vera cura di cui avesse bisogno.
«Ho bisogno di te, amore mio» gli disse.
«Arrivo!» fu tutto ciò che il suo Wayne rispose. Si vestì in tutta fretta, dando poi uno sguardo al soggiorno. Entrambi i suoi genitori erano già andati a dormire. Scese comunque dalla finestra, per non destare alcun sospetto.
Pedalò velocemente. Liz distava alcuni chilometri, ma non impiegò molto a raggiungerla. La sua casa imponente era il ritratto perfetto della famiglia. La dolce Liz non aveva nulla a che fare con il mondo dal quale proveniva, e a questo Wayne pensava ogni volta che lasciava la bicicletta sul prato appena fuori il capanno.
Vide la luce accesa; batté un paio di colpi alla finestra, e subito udì i passi di Elizabeth. Aprì la porta, bella come sempre, ma con una strana espressione.
«Sono qui amore. Che cosa c’è?»
Liz lo abbracciò, e fece trascorrere diversi secondi prima di parlargli. La presenza del suo ragazzo era tutto ciò di cui aveva bisogno per evadere dalla soffocante realtà di casa, e dalla strana sensazione che sentiva da diverse ore.
«Passerà, amore. Ci sono io ora.»
«Non è solo quello. Avverto qualcosa di strano, come un presentimento», disse Liz.
La strana nausea che l’accompagnava era stata intuita anche dalla piccola Daisy, che faceva compagnia ai due giovanissimi amanti nel capanno in giardino, mentre a casa le discussioni sulle cause legali dell’azienda di famiglia continuavano senza sosta.
«Anche lei se ne è accorta. Non mi lascia mai, mi è sempre vicino.»
«E’ la tua Daisy», disse Wayne. «E’ normale che sia così.»
«Dovrebbe valere anche per mia madre e mio padre.»
Wayne la strinse a sé; Elizabeth chiudeva gli occhi, in momenti come quello, per pensare solo alla fortuna che aveva avuto. Lo aveva conosciuto solo un anno prima, ed era stata la cosa più bella della sua giovanissima vita. Le formalità, la noia, e le incomprensioni di casa avevano lasciato spazio all’amore che il suo ragazzo le aveva fatto conoscere per la prima volta.
Avevano solo sedici anni, ma nell’abbraccio che li unì per tutta la notte, vi era la convinzione di rimanere uniti per sempre. Ci pensava, Wayne, mentre accarezzava i capelli di Liz. Si chiese come sarebbero cambiate le cose con l’età, quando avrebbero avuto l’occasione di rimanere soli, senza dover sentire ogni giorno il lamento delle rispettive famiglie.
La notte, e il silenzio della campagna inglese tutta attorno a loro, li cullò fino alle prime luci dell’alba. Liz aprì gli occhi, e sorrise non appena lo rivide. Daisy aveva fatto compagnia a entrambi. La accarezzarono, provando dispiacere per il sopraggiungere del giorno.
Poco oltre, dalla finestra di camera sua, il signor Cole spostò leggermente la tenda. Tenne gli occhi fissi sul capanno. Vide il piccolo Wayne affrettarsi, prendere la bicicletta, ed andarsene velocemente senza voltarsi.
«Che cosa c’è, caro?» gli chiese, ancora assonnata e con un filo di voce, sua moglie.
«E’ stato qui! Ancora una volta!» disse, prima di vestirsi.
Liz tornò cercando di non fare rumore. Sapeva che suo padre si alzava presto, ma fino ad allora era stata scoperta solo una volta; entrò dalla cantina, come faceva sempre, per poi salire lentamente le scale, cercando di non fare rumore. Il signor Cole, a braccia conserte, la sentì salire dal corridoio. Rimase fermo e in silenzio fino a che non la vide.
«Quante volte te l’ho detto, Liz? Quante?»
«Papà! Io non credevo che...»
«Cosa?» chiese, alzando la voce, suo padre. «Che cosa non credevi? Che fossi già in piedi? Che potessi nascondermi quello che fai la notte ? Ora non ti senti più male, non è così?»
Elizabeth aveva abbassato la testa. Sentiva un urlo, venirle da dentro, ma il singhiozzo e le prime lacrime non le consentivano di parlare. Suo padre continuava a rimanere fermo, davanti a lei, aspettandosi una risposta che Liz non era in grado di dargli.
«Lavoriamo giorno e notte, ti offriamo il meglio che tu possa avere, e tu ti ostini a disobbedire, e soprattutto a vedere quel poco di buono che cerca di farmela sotto il naso!»
«Wayne non c’entra nulla, papà!» rispose, con tutta la forza che aveva in corpo. Era scoppiata a piangere; non era riuscita a trattenersi, e i dolori allo stomaco erano ricomparsi.
«Quel ragazzo c’entra eccome!» esclamò il signor Cole. «Da quando te ne vai in giro con lui, come una ragazzina qualsiasi, non sei più la stessa!»
Continuò con i soliti discorsi, quelli che Liz proprio non riusciva più a sopportare. Ad ogni parola si sentiva ferita, lungi dall’essere solo incompresa. C’era molto di più nel pensiero e nelle parole di suo padre, una volontà che non era mai riuscita a comprendere, così come non comprendeva il silenzio di sua madre, che da camera sua non era ancora uscita.
Si mise una mano allo stomaco, sentendo ancora la stessa nausea della sera precedente. Ogni tanto Daisy abbaiava, mentre suo padre continuava a urlare di rabbia.
«Sarò chiaro con quel ragazzo! Tu non lo vedrai più, Elizabeth!» disse. «Ha fatto del male a te, e sta facendo il male della nostra famiglia. È evidente che non sei pronta per relazioni simili! Non permetterò mai che mia figlia si rovini senza nemmeno sapere il perché!»
Solo allora sua madre uscì dalla camera. Con la vestaglia e le pantofole, si avvicinò a sua figlia, cercando un abbraccio che Liz decise di non ricambiare. Se ne andò in camera sua, lasciando fuori dalla porta anche Daisy, agitata e innervosita quanto la sua padroncina.
«Ha sedici anni, Grace! Sedici!»
«Non essere così duro, Adam!» gli rispose sua moglie. «Non è questo il modo di farle capire le cose. Le parlerò io appena si sarà calmata.»
«Tra tutta la gente che conosciamo, si è intestardita con quella famiglia di ignoranti!» esclamò il signor Cole, camminando su e giù per il corridoio.
«Le passerà, Adam. È solo una fase.»
Liz piangeva sul cuscino. Aveva sentito ogni parola. Continuò a sentire il dialogo dei suoi genitori anche quando scesero per fare colazione, e mentre i primi telefoni cominciavano a squillare. Il lavoro non poteva conoscere altre soste.
Le varie cause dell’azienda, il suo fatturato in leggero calo rispetto all’anno precedente, e il malumore di alcuni clienti storici furono gli argomenti principali in casa da lì ai mesi successivi. Liz riuscì a nascondere il suo malessere, che ben presto divenne il correre al bagno, in solitudine, e in preda ai conati.
Vide Wayne di nascosto. Il signor Cole gli aveva impedito di venire a casa sua, così avevano escogitato altri sistemi per continuare a vedersi. Liz continuava a sentire la solita strana sensazione. Decise di parlarne alla sua amica Anne. Se era quello che pensava, forse sua madre avrebbe potuto aiutarla.
Così fece, in effetti, la dottoressa Miller. Parlare con lei era come parlare con sua figlia Anne. Liz invidiava tanto la fortuna di avere una madre così vicina alle esigenze di una figlia, sempre presente e in grado di aiutarla.
«Come andiamo, Liz?»
«Va un po’ meglio, Diana. Grazie per il tuo aiuto.»
«Mettiti comoda, piccola. Ho qualcosa da dirti.»
Elizabeth aveva evitato di fare il test, per mesi. La sola idea di provarlo, chiusa in bagno, con sua madre nei paraggi, aveva peggiorato il suo stato d’animo. Vi era un rifiuto, dentro di lei, nel ritenerlo possibile. Forse era dovuto all’educazione dei suoi genitori, o più semplicemente non si rendeva conto di essere già una donna.
Era incinta, e aveva solo sedici anni. I discorsi della dottoressa Diana Miller, vista come un’amica tanto quanto la figlia Anne, non potevano bastare. La sua debolezza appariva evidente, mentre le teneva la mano. Liz pensò a come avrebbero reagito i suoi genitori, senza aver capito ancora quale sarebbe stata la sua, di reazione.
Il giorno stesso parlò con Wayne. Stettero insieme delle ore, cercando di non pensare al ritorno a casa di Liz. Prima o poi avrebbe dovuto farsi coraggio.
Settimane di nausea e silenzi non erano bastati a lasciare intendere qualcosa ai suoi genitori. Elizabeth si sentiva ormai una figura ingombrante in casa, sempre pervasa dal fumo passivo e dal silenzio nervoso di affari che una ragazzina di sedici anni non poteva comprendere.
«É il nostro amore, Liz. Nessuno ce lo può portare via.»
«Ma tu sei sicuro di volerlo?» chiese Liz singhiozzando. «Voglio dire, se un giorno tu non ne volessi più sapere, se avessi altro per la testa e…»
Le parole faticavano ad uscire. Liz, ancora troppo debole per sopportare il peso di una responsabilità tale, si sentiva soffocata dai dubbi. Si era chiesta se sarebbe stata all’altezza, e chiedeva al suo Wayne lo stesso.
Il giovane compagno non si dispiacque per quelle parole. Anzi, le comprese. Si sentì vicino come non mai a Liz, capì il vortice di pensieri e preoccupazioni che il suo giovane corpo doveva affrontare in un momento del genere. Le stette vicino, senza tante parole, ma con la sua semplice presenza, il suo calore.
«Io non ti abbandonerò mai.»
«Lo so, amore. Lo sento.»
«Affronteremo tutto insieme, sempre.»
Entrambi si chiedevano se crescere significasse ciò a cui stavano andando incontro. Avrebbero dovuto essere pronti, perché il loro bambino non avrebbe mai chiesto la loro età, ma il loro aiuto, la loro presenza, e il loro amore.
«Tu… cosa?» fu tutto ciò che suo padre, in bilico tra l’ira e la paura, riuscì a dire.
Sua madre Grace scoppiò in lacrime, mettendosi le mani sul volto. Coprì le lacrime, voltò le spalle a sua figlia, a anche a suo marito, che rimase immobile come la piccola Liz.
Aveva deciso di farlo da sola. La dottoressa Miller le aveva promesso il suo aiuto, pronta a essere bersagliata dai suoi genitori se ce ne fosse stato il bisogno, ma per Liz era giunto il momento di affrontare la questione apertamente. Aveva sentito che, in fondo, era quello il primo passo per diventare ciò che sarebbe sempre stata per tutto il resto della vita: madre.
Wayne l’aspettava fuori casa, con la sua bicicletta. Andava su e giù nervosamente, consumando le suole delle scarpe sul ciglio della strada che tanto amava e tanto odiava. Si chiedeva quando sarebbe uscita. Era pronto ad entrare, ma aveva promesso alla sua Liz di non farlo.
«Vattene via! Esci da questa casa!» urlò con rabbia suo padre. «Se vuoi diventare una di loro, fa’ pure!» disse ancora, incapace ormai di misurare ogni pensiero.
Fu così che Liz uscì, in tutta fretta, e tra mille lacrime, per raggiungere Wayne. Dalla finestra della splendida camera matrimoniale, questa volta, non si affacciò nessuno.
Le lacrime continuarono, all’interno della casa, e non fu solo la signora Cole a versarle. La piccola Daisy abbaiava, si chiedeva cosa stesse succedendo, sebbene lo avesse intuito ormai da tempo.
Wayne e Liz arrivarono a destinazione una mezz’ora più tardi. Anne li vide arrivare e aprì subito la porta. Sua madre era stata chiara: se fosse successo, li avrebbero accolti in casa loro.
Anne viveva con sua madre, dottoressa al vicino ospedale di Truro. Non aveva mai conosciuto il padre, scomparso poco dopo la sua nascita in un incidente stradale. Spesso, ascoltando Liz parlare dei suoi genitori, provava invidia. Anche se in un rapporto difficile, lei, almeno, un padre l’aveva ancora.
«Entrate. Vieni Liz, ora sei qui da noi», le disse, mentre l’abbracciava.
Diana e sua figlia Anne furono esemplari. Accolsero Liz, e aprirono le porte a Wayne quando necessario, per permettere loro di stare insieme, e di sentirsi un’unica famiglia. I genitori di Wayne, mal visti da quelli di Liz e anche, a dire il vero, dal figlio, seppero subito dell’accaduto.
Cercarono di chiamare i Cole, ma Adam fu intransigente con loro tanto quanto lo era stato con sua figlia. Uno strano orgoglio gli vietò ogni tentativo di approfondire, o almeno rimediare, una situazione complicata che, volente o no, sarebbe terminata con la nascita di un bambino.
Quindi, nonostante sapessero dove si trovasse sua figlia, Adam e Grace continuarono a seguire l’onda emotiva della loro vita, impegnata ormai totalmente dal fatturato dell’azienda, dai suoi esuberi, i costi destinati a salire ulteriormente, e un’ingente causa che con gli avvocati avevano deciso di continuare a portare avanti.
A volte, sua madre passava per Truro, per poi proseguire verso casa di Diana, che conosceva appena. Osservava il campanello. Miller, una scritta dietro alla quale si nascondeva sua figlia. La sua nuova casa per quelle settimane appariva sempre silenziosa.
Con il passare dei mesi ci furono dei contatti. Sua madre la vide, le parlò. Si instaurò un rapporto di reciproco rispetto con Diana e la piccola Anne, ma nulla più.
Adam osservava tutto dalla distanza, tra una sigaretta e l’altra, con le mani occupate da documenti da firmare, o da telefoni che squillavano.
Non ci furono dunque pranzi, cene o pomeriggi tutti assieme, forzando la vicinanza di persone che dal momento della nascita del piccolo sarebbero diventati parenti, e legati a vita. Liz rifiutò sempre l’idea di riunire tutti attorno a un tavolo. La famiglia di suo figlio sarebbero stati lei e Wayne; poi, col tempo, le cose sarebbero migliorate.
A volte ripensava al capanno, alle notti d’amore con Wayne che l’avevano portata fino a lì. Non rimpianse mai nulla, e così fece il suo giovane compagno.
I nove mesi non fecero tempo a trascorrere, poiché le doglie arrivarono prima del previsto. Sotto la supervisione della dottoressa Miller, Liz fu ricoverata e seguita dall’ottimo personale dell’ospedale dove lavorava ormai da vent’anni.
Fu un parto difficile da principio; tutto lo staff ebbe il suo da fare per mettere a suo agio la ragazza, così giovane e fuori luogo in una sala parto. Al suo fianco, un ragazzino di nome Wayne, divenuto timido all’improvviso, aspettava con gli occhi sbarrati di vedere il simbolo del suo amore.
Il piccolo Michael nacque alle prime luci dell’alba del 22 novembre, tra le lacrime di due genitori che avevano percorso in fretta il loro divenire grandi.
Tutto lo staff si affrettò a far sentire la sua vicinanza. Michael fu subito inondato da ogni sorta di regalo, pensiero, e parole d’affetto. I suoi occhietti chiusi ricordarono a molti la fragilità della coppia che l’aveva messo al mondo, e che ora si sentiva cambiata e pronta a stargli vicino.
Solo Grace si presentò al parto. Adam, e i genitori di Wayne, non ne vollero sapere. Per tutti era stato un duro colpo accettare l’imprevisto della nascita del piccolo Michael; imprevisto, così era visto dal loro stile di vita che non avevano intenzione di cambiare, nemmeno per i loro figli.
Diana sapeva che il suo compito fosse finito. Liz sarebbe andata a vivere da persone preparate ad accoglierla, in una casa in città, facilmente raggiungibile da tutti, anche dai Cole, se l’avessero voluto. Già sapeva che Grace sarebbe andata a trovarli sempre e, prima o poi, lo avrebbe fatto anche Adam.
Sarebbe bastata un’occhiata al piccolo Michael per cambiare le cose, o forse no. Non erano stati Wayne e Liz ad essere rifiutati, ma era stato Michael, e tutto ciò che rappresentava, sebbene se ne sarebbe reso conto solo di lì a qualche anno.
Diana vedeva nei suoi occhi la voglia di crescere. Anche lui un giorno avrebbe sofferto e tenuto tutto dentro come i suoi genitori. Si augurò, togliendosi il camice, che sarebbe cresciuto senza le sofferenze di sua madre.