Una storia d'inchiostro Onnigrafo Magazine

Una storia d'inchiostro

Com’è iniziata questa storia?

Beh, intanto mettetevi comodi, sarà lunga.

Difficile trovare il vero momento di inizio, per chi non c’era. Se proprio volete saperlo, nemmeno lei se lo ricorda. Ma io so perfettamente quando la prima goccia d’inchiostro toccò quel mare bianco della pagina vuota. 

Lo so perché io c’ero e ci sono sempre stata per lei, anche quando poi passò a quelle diavolerie tecnologiche, sì quelle dell’inizio, degli anni ’80 e ’90, che bastava pigiare un tasto per veder comparire una lettera e via così, a comporre ricerche e fantasia. Poi con un clic e un bel po’ di pazienza tutto veniva riversato sulla carta. Ma era una scrittura asettica, impersonale, uniformata.

C’ero quando quelle robe si trasferirono su dispositivi sempre più piccoli e portatili, quando le tastiere avevano solo dodici tasti e dovevi pigiare più volte lo stesso bottone per far comparire una sola lettera; c’ero quando poi divennero con tutte le lettere, ma con dei tastini così microscopici che per pigiarli serviva uno stuzzicadenti che sennò un dito ne schiacciava quattro insieme!

E c’ero anche quando, poi, i tasti sono scomparsi, diventando mera virtualizzazione video sullo schermo. Per non parlare di quando affinarono la tecnologia dell’assistente vocale: da quel momento non serviva più nemmeno sfiorare lo schermo, adesso la gente dice quello che vuole e… puff! Ricerca su Google fatta, immagini da Pinterest scodellate in pochi secondi, post – ora si chiama così l’arte di scrivere e comunicare qualcosa, prrr… - pubblicati on line sui social network o sui blog.

Ci sono sempre stata, muta testimone di una generazione che cambia.

L’era digitale, la chiamano. Ma io sono tutto, fuorché digitale. Credo che non esista nulla di più analogico di me. Tuttavia, io c’ero e ho visto questo cambiamento. L’ho vissuto, come molti altri. La maggior parte sono dovuti soccombere. Non sono riusciti ad adattarsi. Altri sono cambiati, una bizzarra forma di darwinismo oggettivistico. Ma io no. Non sono mai cambiata, non ho alcuna intenzione di cambiare. Non intendo dismettere o svilire la mia essenza, la mia nuda e cruda capacità di essere memoria.

Ora, illusioni e segreti sono disponibili a tutti, in pochi clic.

Perché so queste cose? Perché lei ha seguito tutte queste mode ed evoluzioni, ha regalato al mondo pensieri e sogni bit a bit. Byte a byte. Ho lasciato fare, ma non ho mai mollato. 

Ok, lo ammetto, ho anch’io un mio orgoglio e all’inizio facevo la preziosa. Non collaboravo. Mi facevo pregare da lei per aiutarla e cedevo solo dopo molte insistenze. Sì, ero gelosa. E chi non lo sarebbe al mio posto? Ma poi ho capito che era sciocco. Che bastava attendere.

Quando quei cosi finivano la loro autonomia, quando la loro batteria si esauriva e si spegnevano proprio nel bel mezzo di un post, un pensiero o un appunto, io ero lì. Pronta e gongolante. Insostituibile.

Poi, beh, ci sono anche i momenti di defaillance; dopo tanto attendere e a osservarla riversare fiumi di parole su quella carta virtuale senza nemmeno mai degnarti di uno sguardo, è inevitabile che ti salga l’ansia da prestazione e tutto vada a farsi benedire! Mi è capitato di fare cilecca, ok? 

Quindi, tornando a noi: chi sono io? Sono una custode. Sono memoria. Io ricordo, insomma. Ricordo anche quello che lei ha voluto dimenticare, cancellandolo con una distratta riga d’inchiostro o con scarabocchi nervosi, ricordo quello che ha dimenticato senza davvero farlo, quando ripercorre scelte che sono memoria atavica di ciò che è. 

Sono sempre stata presente e lo sarò sempre. Per lei, per ricordarle quel primo sogno iniziato per noia e disdetta, quella prima vera goccia d’inchiostro sul mare bianco del foglio vuoto.

In fin dei conti, a ben guardare non mi ha mai davvero dimenticata, né sostituita. Non mi ha mai abbandonata. Ha usato i nuovi mezzi messi a disposizione dalla tecnologia, ma mi ha sempre portato con sé ovunque andasse, per affidarmi i ricordi che per lei contavano davvero, quelli importanti e concreti, non quelli effimeri condivisi con il mondo virtuale.

Sono stata io a registrare le sue grandi aspirazioni, non quel blog o come cavolo si chiama. Sono stata io a rimarcare nero su bianco all’eterno la sua gioia muta e senza nome di quando è nata sua figlia e sempre io ho raccolto e messo su carta le lacrime della sua disperazione prima e dopo la perdita della madre, raccogliendola dall’abisso in cui stava sprofondando, prima che fosse troppo tardi.

E infine… sono io che vi sto raccontando tutto questo, no? Io, non uno di quei cosi digitali. Oh, ma che resti tra noi, lei è un filino permalosa sulle questioni personali.

Quindi, tornando alla domanda di apertura, quando davvero tutto ebbe inizio?

Aveva dodici anni, frequentava la seconda media. Era metà mattina, di un giovedì di fine maggio. Verifica di italiano, tre tracce. Una meno appetibile dell’altra. Insomma, si passava dall’analizzare le vicende che portarono in Italia la trasformazione delle Signorie in Principati al disquisire delle problematiche ambientali successive al disastro di Chernobyl… già, lo abbiamo vissuto da vicino, ma lei si chiedeva di che cosa avrebbe potuto parlare una dodicenne su questo tema quando nemmeno i grandi sembravano capirci qualcosa. Neanche la terza traccia ispirava molto, la traccia libera lei l’ha sempre vista come una trappola. E ne aveva ben donde, la professoressa di italiano era famosa per leggere ad alta voce in classe due temi dopo ogni verifica: il migliore e il peggiore. E il peggiore veniva fuori sempre dall’onnipresente traccia a tema libero.

Insomma, aveva perso quasi metà del tempo a disposizione a fissare il vuoto. Io giocherellavo con lei, scribacchiando ghirigori sul foglio. Alla fine, la sua attenzione si fissò su una zanzara solitaria e sconclusionata che girava in classe in pieno giorno. Non stupitevi, dovete sapere che all’epoca le zanzare tigre ancora non c’erano da queste parti e quelle diurne erano rare come le mosche bianche! Poi sono arrivate le immigrate clandestine indiane e cinesi a scombinare tutto… Comunque sia, seguì quel ronzio e finì per cominciare a scrivere. Sulla traccia libera.

Avreste dovuto vederla. Era così ispirata! Ovviamente per essere una dodicenne, si trattava comunque di una scrittura acerba. Tuttavia, restai affascinata a guardare l’inchiostro fluire sul foglio. Quello fu il momento magico di cui mi avete chiesto. La prima goccia d’inchiostro che prese vita.

Non so quanti altri scrittori abbiano memoria di quel primo vero momento. A essere sincera, so che lei non lo ricorda. Forse fa finta di non ricordarlo. Questo non lo saprei.

Come dite? Se ricordo quel tema? Certo che sì! Era una divertente e infantile (insomma, dai, aveva dodici anni, che pretendete?) storia di vita quotidiana di una zanzara. Splattata finale compresa!

 Quindi, vedete, ho tanti bei ricordi con lei. A volte le chiedono perché ancora mi porta con sé. Ma io non mi offendo più, lascio correre. Mi basta sapere di esserle indispensabile. In fin dei conti, anche questa storia che vi sto raccontando… io l’ho scritta. E lei ve l’ha copiata, regalandovi un altro piccolo sogno analogico lasciato andare in questo mare digitale. Un piccolo fiume di bit nel mare bianco di internet.