Inganno in alto mare Onnigrafo Magazine

Inganno in alto mare

Dal boccaporto saliva una litania di lamenti e strappi di tosse, interrotta solo quando un’ondata più intensa riusciva a far cadere un po’ d’acqua nelle stive attraverso i boccaporti.

La Arzolu Tucatar solcava le onde a fatica; il vento gonfiava le vele, ma l’ampio scafo limitava la velocità.

«In che condizioni è il carico, signor Lendìn?» il capitano fissava i globi della Nerran’ ricevendo il riflesso deforme del proprio volto. Gli aghi indicavano la direzione dei tre veri Nord e con essi poteva calcolare la direzione del Nord Polare. Se il vento fosse di nuovo caduto, o se fossero sopravvissuti alla tempesta in arrivo erano informazioni che lo strumento non poteva offrire.

«Dalle stive 1 e 4 abbiamo perso altri due maturi, due maschi. Le stive 2 e 3 reggono bene. Faccio buttare a mare i cadaver…»

«Lasci i morti dove sono» l’altro serrò le mani sulle caviglie della ruota fino a sbiancare le nocche, «ce ne occuperemo se usciremo da questa situazione, voglio tutti gli uomini pronti».

Lendin annuì: «Il vento ci sta finalmente dando una mano. Se la bonaccia fosse continuata un altro giorno i gabbiani avrebbero avuto troppi motivi per festeggiare!» era un uomo giovane, dai lineamenti fissati dal sole e dal vento. Un tricorno logoro in testa nascondeva solo in parte i capelli neri legati in una coda unta di sporco e sale. Accanto stava ritto Hastur, il capitano. Il portamento dell’uomo, il fisico macilento e segnato da decenni in mare e il consunto pastrano blu che lo ricopriva erano una prova tangibile della sua capacità di governare qualsiasi nave.

«Qual è la sua stima sui tempi di arrivo?»

«A questa velocità due giorni, signore, se la tempesta non ci affonda prima» Lendìn si voltò e indicò una lunga linea nera a poppa, appollaiata sull’orizzonte proprio là dove il vento soffiava più intenso.

Il capitano grugnì e sputò fuoribordo un grumo di saliva con forza tale da avanzare controvento per un breve tratto prima che la sua parabola lo portasse incontro ai flutti.

«Per Dagon! Ne ho viste di più brutte, ma da nessuna di esse mi sono tirato fuori con la nave integra. Chiami il signor De Lupiac, subito, è una faccenda che deve risolvere lui!»


Conscio che non avrebbe mai raggiunto il Collegio R’lyeh in tempo per onorare il contratto col Sommo Prèvit, aveva ordinato al mago di bordo di forzare il vento. Adesso aveva di nuovo bisogno del suo intervento: doveva salvare la nave e il suo carico a qualsiasi costo!


«Maledetti kireziani» brontolò il nostromo mentre scendeva dalla timoniera, «Che accidenti gli importa se altri continuano a commerciare schiavi: mica è gente loro!».

Hastur non poté che annuire di fronte a quello sfogo. Anni prima la Repubblica di Kirezia aveva bandito definitivamente quel genere di traffici e ogni schiavo esistente sul territorio doveva essere liberato, ora e per sempre. Commerciare schiavi era diventato un reato punito con la morte e la sentenza veniva eseguita direttamente in mare. I vascelli in transito avevano dovuto cambiare rotta per evitare le golette a caccia di navi schiaviste.

Le rotte del commercio erano migrate più a sud e provocato la morte di molti più schiavi a causa delle tempeste e degli altri pericoli nascosti nel Mar d’Adra, tanto che alcuni preferivano fare scalo su Oìnek-Roi, l’isola principale del letale arcipelago di Thanathos, sfidando i cannibali e le creature mostruose che vi risiedevano.

Gaston De Lupiac uscì dalla cabina sotto la timoniera e salì sul castello di poppa seguito da Lendìn, che continuava a brontolare qualcosa

«Mi ha fatto chiamare, Capitano?»

Un onda più forte delle altre fece vibrare lo scafo e Hastur serrò la presa sul timone.La prima, non certo l’ultima o la più violenta.

Il capitano indicò la tempesta a poppa: «Signor De Lupiac, vorrei la sua opinione in merito. L’istinto mi dice che ci prenderà in pieno, e quando lo farà affonderemo. Anche il signor Lendìn è dello stesso avviso».

«…il che vuol dire che fareste meglio a gettarvi in mare con una pietra al collo, per quello che varranno le vostre vite. Capitano Leng, quando mi ha fatto firmare il contratto mi ha mentito circa la natura del carico. Au contraire, non vi ho mai nascosto nulla quando vi ho avvertito che agire sulla forza del mare poteva avere conseguenze inesperats… imprevedibili» concluse il mago, sovrastando con la sua voce fluida e musicale lo sciabordio e gli strappi del vento nelle vele. La barba sfatta mal s'addiceva ai lineamenti delicati, quasi elfici, dell’uomo. La tunica rossa e incrostata di sale svolazzava attorno alla figura esile del mago. Una raffica più forte fece volar via dalla testa il cappuccio, bordato di rune dorate. Una cascata d’argento brillò al sole: nonostante i lineamenti giovanili aveva lunghi capelli grigi.

«Nessuno l’ha obbligata a firmare. L’abbiamo reclutata a Kaj Subdni, forse il più grande mercato di schiavi di questa parte del mondo, se non le piaceva il nostro carico poteva cercare un altro ingaggio!»

«Potrei rinforzare le vele: peut-être que nous arriv… che arriveremo da qualche parte nella penisola di Heaperis» proseguì Gaston, senza dar peso al rampognare di Hastur.

La Arzolu Tucatar aveva ogni vela spiegata nel tentativo di sfruttare la forza della tempesta per sfuggire alla sua furia distruttrice. I suoi tre alberi scricchiolavano e si flettevano sotto il carico delle vele tese dal vento.

«Con un’altra nave avrei approvato il suo piano, ma questa vecchia cicciona non può correre troppo: la forza delle onde sullo scafo rischierebbe di sfondare il fasciame! Non avete qualche altra magia nel vostro arsenale?»

«Dovrei studiare qualcosa per estendere gli effetti… » Hastur lo vide socchiudere gli occhi dorati, persi dietro il calcolo di possibilità che solo lui riusciva a considerare.

Lendìn sbottò, dando sfogo a tutta la frustrazione che aveva tenuto da parte fino a quel momento. «Tra due ore o poco più la tempesta ci tirerà addosso i suoi scrosci e il mare sarà abbastanza agitato da costringere l’equipaggio a legarsi ad alberi e murate. Entro tre ore saremo sul punto di affondare… voglio essere ottimista: quattro»

«Il suo ottimismo è fuori luogo, signor Lendìn» rispose Hastur, scuro in volto.

Gaston sostenne lo sguardo di entrambe gli uomini: «Forse riuscirò ad aumentare la resistenza dello scafo, oltre che delle vele… Non sarà facile mantenere due incantesimi sotto una tempesta. Naturalmente, prima che la nave affondi posso portare in salvo sia lei che il signor Lendìn».

«Grazie, ci penserò, ma visto a chi sono destinati questi schiavi, anche se dovessi diventare cibo per i pesci poi dovrei implorare Merat-Asua di custodire la mia anima, o i sacerdoti Dei-Talant la trascinerebbero indietro e quello che mi faranno sarà peggio di qualsiasi morte si possa immaginare: al Collegio R’Lyeh non scherzano mai!»

Gaston si inchinò e ritornò in cabina, lottando col vento che continuava a togliergli il cappuccio dalla testa e a scompigliargli i capelli.

Hastur accarezzò con la lingua il grumo di muco che avrebbe voluto sputare in faccia a quell’uomo, se non fosse stato tanto necessario. Si fece l’appunto di sbarcarlo e revocare il suo ingaggio una volta approdati all’Isola dell’Alba. Avrebbe scoperto a sue spese che i Dei-Talant non sono poi così accoglienti con gli stranieri senza lavoro.


Nella stiva gemiti e preghiere non si erano mai interrotti: uomini e donne, legati e ammassati come fossero casse o anfore, raccomandavano la propria anima agli dei, ognuno al proprio. Una litania incessante, una mescolanza di lingue differenti, ma dal medesimo significato, interrotta da tuoni, scrosci e bestemmie degli uomini dell’equipaggio. Le vibrazioni erano cresciute nel tempo fino a diventare veri e propri sussulti che scuotevano il fasciame. Rivoli d’acqua filtravano dal ponte di coperta e ruscellavano verso la sentina, portando via escrementi e cibo mal digerito.

Pamet pensò che la tempesta in arrivo, almeno, stava svolgendo un lavoro utile.

Salire su quella nave era stato solo l’ultimo atto di una storia triste.

I razziatori erano sbarcati e in una notte avevano svuotato la sua fattoria e quelle dei vicini. Mentre veniva imbarcato a forza aveva visto i banditi spartirsi i gioielli di sua madre e litigare per chi poteva stuprare per primo le ragazze, per poi essere picchiati dal loro capo, un tipo grosso e violento che li aveva messi in riga. «Niente stupri, o la merce perderà valore» aveva detto. Il pensiero volò a sua sorella Slada, così bella, così giovane… i razziatori li avevano sbarcati a Kaj Subdni, dove l’aveva vista per l’ultima volta. Che ne era stato di lei? E di suo fratello Snazan? E degli amici che erano stati catturati assieme a loro quella notte? Abbassò la testa fino ad appoggiarla sulle ginocchia, uno dei pochi movimenti che le catene gli permettevano di compiere, e rimase ad ascoltare i lamenti dei prigionieri mescolati al mugghiare rabbioso del mare.


Dopo appena un’ora il vento era raddoppiato e l’Arzolu Tucatar procedeva a tutta velocità sul fronte della tempesta. Il sole era sparito dietro un velo di nubi scure come la notte; la forza del mare riusciva a scuotere la mole della nave a ogni ondata.

«Signor Lendìn, crede ancora che avremo quelle tre ore?» un fulmine colpì il mare a poppavia, lontano dalla nave.

«Se il mago non si sbriga ci resta forse mezz’ora: quella tempesta sembra stia cercando noi!»

«Wgah!» inveì il capitano. «Mi ritrovo a desiderare di morire e restar morto!»

«Possiamo ancora farcela» Lendìn serrò la presa sulla barra del timone, Hastur seguì lo sguardo del nostromo puntato sulla Nerran’, gli aghi del nord dovevano rimanere quanto più possibile entro i valori stabiliti per la rotta. Si fidava più dello strumento che dell’ottimismo del nostromo.

Un rumore di tessuto lacerato richiamò la sua attenzione: uno dei fiocchi stava cedendo. Vide Lendìn aprire la bocca, ma lui lo fermò prima che potesse ordinare di ammainare le vele di bompresso. «No signor Lendìn, è inutile, ritardare anche solo di un minuto lo scontro con la tempesta può salvarci… preferisco avere la possibilità di ricomprare tutte le vele, se necessario».

Lendìn annuì e uno spruzzo d’acqua salata scavalcò la murata del castello di poppa, l’ondata colpì il timone con tanta forza che gli strappò i pioli dalle mani. Poi un tuono più forte degli altri gli comunicò che il tempo era scaduto.

«Signor Lendìn, si rialzi!» Hastur aveva afferrato la ruota del timone e stava faticosamente tenendola ferma. «Dobbiamo mantenere la rotta!»

L’uomo eseguì, un’altra ondata investì la murata di babordo e l’acqua travolse due membri dell’equipaggio, che resistettero all’impeto del mare grazie alle funi con cui si erano assicurati.

Le prime gocce di pioggia caddero per pochi secondi, prima di diventare una raffica d’aria gelida e salata. Se De Lupiac ne fu infastidito non lo diede a vedere.

Le vesti rosse del mago turbinavano come impazzite. Dopo qualche tentativo di tenere il cappuccio in testa si arrese e lasciò la chioma argentea libera di mulinare nelle raffiche di vento.

Salì la scaletta per montare sul castello di poppa e si pose a fianco dei due uomini intenti a governare il timone.

Il bastone apparve nella sua mano, un piede e mezzo di legno-ferro con una zampa artigliata in bronzo fissata sulla cima tra le cui unghie era incastonato un globo di cristallo.

«Capitano Leng, signor Lendìn, ora vedremo se la mia magia salverà questa nave e il suo prezioso carico»

Il globo sul bastone prese a scintillare, come i fuochi di Wu-Masau che apparivano sui pennoni quando i fulmini saettavano sopra la nave.

«Uhm Ya ‘gro!» declamò il mago, allargando le braccia.

Un fulmine colpì l’albero di trinchetto. Questo invece di esplodere, spezzarsi e bruciare fu circondato dal bagliore del lampo. L’energia dai riflessi blu elettrico si diffuse a tutta la nave e alle vele, circondandole di un alone sfolgorante.

«Wgah!» stavolta fu Lendìn a imprecare. Poteva sentire la nave sotto di lui che accelerava e tentava di mandarlo a gambe all’aria: «Funziona! Per tutti i figli di Dagon, funziona!»

Gaston non poteva sentirlo. Le braccia spalancate, il bastone che sprizzava lampi, circondato da quella innaturale luce azzurra con gli occhi roteati all’indietro e la bocca socchiusa in un “oh” prolungato: tutto di quell’uomo indicava che la sua attenzione era altrove.

La Arzolu Tucatar si fece beffe del suo nome: si sollevò sulle onde e la sua velocità crebbe tanto da pensare che potesse spiccare il volo. Il vento ululava e ringhiava, tendeva le vele e cercava di spezzarle, ma la magia impediva al tessuto di lacerarsi e costringeva la forza della tempesta a sospingere lontano quella nave, verso la salvezza.

Lendìn e Leng tennero con tutta la loro forza la ruota del timone fissa sulla rotta. Avvezzi a quelle condizioni, sapevano che era la loro ultima possibilità.

Un’ondata più violenta delle altre strappò una delle manovre della randa dal suo alloggiamento, portando con sé il sostegno cui era legata. La vela si liberò con uno schiocco e il boma sfrecciò sopra le loro teste come il braccio di un gigante inferocito. La bitta rimasta appesa passò a meno di un palmo dalle teste dei due uomini che, come se non avessero fatto altro per tutta la vita, la schivarono, ma non riuscirono a impedirle di schiantarsi sulla Nerranssapmook.

«Ph’ngui, non ci voleva!» sbraitò il comandante.

«Ammainate la randa!» la voce di Lendìn squarciò l’ululato del vento, i marinai legati all’albero di mezzana eseguirono l’ordine e poi assicurarono il boma. «Con un solo ago è impossibile» proseguì il giovane ufficiale, «manca il pondus e passa da un navalt all’altro, porco…!» Un tuono più forte degli altri cancellò l’ultima parola del nostromo, come se il dio chiamato in causa l’avesse udito.

«Presti attenzione signor Lendìn, l’ago rimasto, senza più gli altri due a tenerlo in equilibrio cambiaheilut eaxòn ma non a casaccio, c’è un ordine preciso: trattenga le bestemmie per quando serviranno davvero!»

Lendìn obbedì, anche se quell’incidente poteva essere già un buon motivo per tirare giù qualche dio dal proprio scranno.

«Potremmo ripiegare su Albadens… dall’ultima posizione che avevamo era appena cinque gradi a bab… »

«Torni a bestemmiare: preferisco tirarmi contro l’ira di qualche dio, sfidare la tempesta perfetta e restare morto in fondo al mare, piuttosto che portare questa nave nell'unico porto, in acque maorni, controllato dai kireziani!»

Gaston, ritto sulla tolda a braccia spalancate, era circondato da quell’energia che ora avvolgeva l’intera nave e pareva tenere l’acqua lontana da lui e dal legno del vascello. Sorrideva, gli occhi socchiusi, come se la sferza del vento fosse la carezza di un’amante, incurante della discussione in corso.

«Affonderemo!»

«E se ci presentiamo al sommo Prèvit senza i suoi schiavi, colare a picco le sembrerà una pena lieve!» la voce di Hastur tuonò come la tempesta che incombeva a poppa, sempre più lontana.

Lendìn si ritrovò a mormorare un «Agli ordini».


Un fulmine più intenso degli altri filtrò attraverso i boccaporti e illuminò il viso scavato di Pamet. L’immagine di un anello della catena che si apriva rimase impresso nei suoi occhi.

Si stropicciò le palpebre. Aveva visto bene? Il tintinnare di catene attorno a lui gli comunicò che sì, era proprio quello che era appena accaduto. Si toccò le caviglie, e i ceppi che le imprigionavano caddero a terra. Il fulmine li aveva liberati.Ma è stato un fulmine? La domanda lo assillò per qualche istante: per quanto si sforzasse non aveva udito alcun tuono se pure, dato che la luce era stata tanto intensa da arrivare nella stiva, doveva essere caduto vicino.

«Non parlate, non gridate, o vi scopriranno trop lèu… troppo presto!» sussurrò qualcuno vicino a lui. La voce era strana, piena di R mosce e accenti nel posto sbagliato, ma il messaggio era inequivocabile. Seduto nel buio, sedette abbracciato a se stesso e chiuse gli occhi cullando la speranza che, dopo giorni, tornò a brillare nel suo cuore.


«Vele a un terzo!» urlò il capitano. La luce che le avvolgeva lampeggiò una, due volte e poi svanì come una candela spenta dal vento. Ridotta la velatura, la pressione dell’acqua sullo scafo diminuì, gli scricchiolii del fasciame divennero un sussurro nel fragore del vento. La tempesta ormai era su di loro. Un muro d’acqua alto metà dell’albero di trinchetto investì la nave da poppa, che restò per un attimo con la chiglia al vento prima di ricadere nel ventre dell’onda. Leng si voltò e vide un secondo muro d’acqua corrergli incontro e risucchiarli con violenza sulla cresta. In cima si rese conto con orrore che le ondate successive erano ancora più alte.

«Ph’ngui!» immaginò il suo volto fosse diventato bianco come la spuma sulle onde. «Saldo sul timone, signor Lendìn!» ebbe la forza di urlare, «Tutti gli uomini si reggano a qualcosa di robusto!».

La nave superò la seconda ondata come la prima, ma con la terza non ebbe altrettanta fortuna e a metà della risalita ruotò di fianco, imbarcando più acqua di quella che le sentine potevano sopportare.
«Sgottare!» gridò il nostromo, che lottava col timone per riportare la nave in asse.

«Signor De Lupiac! Se non ha magie per tenerci a galla prenda un secchio anche lei!»

«Posso portarla in salvo! Ci pensi, signor Leng. Potrei trasportarvi a Reub, che conosco bene, e là potreste comprare abbastanza schiavi da far contento il Prèvit di R’Lyeh. Le ricordo che se accetta il contratto è sciolto»

Hastur sentì qualcosa dentro cedere. A Reub sarebbero costati il triplo di quanto li aveva pagati a Kaj Subdni, ma poteva permetterseli. Gli sarebbe rimasto abbastanza per una vecchiaia agiata. Provò un poco di rimorso per gli uomini che, armati di secchio, tentavano di mantenere la Arzolu Tucatar a galla: magari sarebbero comunque riusciti a salvarsi, ma la paura di morire aveva ormai preso il sopravvento e per lui potevano colare a picco assieme alla nave e al carico. Un’altra ondata squassò la nave da poppa a prua e lo spinse a dire «Accetto, ma andremo solo io e Lendìn». Un ammutinamento non se lo poteva permettere.

Gaston afferrò le mani dei due uomini, Hastur ricambiò il suo sguardo deciso e provò ribrezzo per il terrore puro che Lendìn stava mostrando.

Fu in quel momento che il capitano vide la Nerranssapmok di nuovo integra e gli parve di veder brillare il sole riflesso sui suoi globi. Il mago pronunciò le sillabe di potere mentre lui tentava di lasciare la presa di Gaston, ma la mano dell’uomo pareva essere divenuta d’acciaio nanico. Un lampo accecante e lui e Lendìn si ritrovarono al centro di una distesa di sabbia dorata e più oltre un muro di persone disposte su infinite gradinate urlava«Dagłį! Dagłį! Dagłį!».

Da sotto la sabbia si aprì un’ampia botola e da esse eruppe una testa serpentina grande quanto quella di un ciclope.

«Wgha! Ci ha fregati!» esclamò Lendìn, troppo tardi.

I due estrassero le sciabole mentre una voce potente annunciava, in lingua maorni, dello scontro tra la viverna Acqaedoac e due nuovi sfidanti a sorpresa.

«Be’, però ci ha portati a Reub» furono le ultime parole del nostromo.


La tempesta era scomparsa. La Arzolu Tucatar era ancora ferma nella bonaccia che la teneva imprigionata.

Gaston osservò i corpi degli uomini dell’equipaggio, privi di sensi e convinti di essere morti nella tempesta. Tenere più incantesimi attivi, lanciarne altri mentre era così concentrato una sfida che aveva appena vinto, era difficile,; lo sforzo mentale lo aveva spossato e si avvicinò barcollante a uno dei boccaporti. Lo aprì e vi calò una cima.

L’incantesimo spezzacatene aveva funzionato, ma era un giochetto del primo circolo. Quando aveva lanciato il teletrasporto l’illusione della tempesta aveva vacillato; Hastur doveva aver visto qualcosa della realtà circostante. Per sua fortuna il contratto era stato annullato pochi istanti prima: se il capitano avesse scoperto l’illusione prima di accettare l’offerta di essere teletrasportato in “salvo”, Gaston avrebbe fatto appena in tempo a vedere il proprio torace esplodere e il cuore schizzare via a tutta velocità.

Aveva rischiato, ma aveva funzionato. Albadens era vicina, e per condurre quella specie di chiatta fin là sarebbe bastato anche un equipaggio improvvisato.

Lasciò andare il bonacciale con cui aveva tenuto la nave bloccata e pochi secondi dopo il vento tornò a gonfiare le vele mentre sentiva la sua aura alleggerirsi di un peso che stava diventando insostenibile.


L’ingaggio, ricevuto dieci giorni prima a Spiegeldrag, era stato insolito: una giovane dama, la figura celata da cappuccio e mantello, gli aveva chiesto, o per meglio dire ordinato, di rintracciare il proprietario di una ciocca di capelli in cambio di mille spigel, una cifra interessante per uno come lui. Sacrificando una lacrima di Pelagòs aveva divinato con precisione la posizione di un giovane meroikano, prigioniero a Kaj Subdni come schiavo. Aveva informato la dama e questa gli aveva proposto, per una cifra dieci volte superiore, di liberarlo e condurlo a lei.

Aveva accettato senza neanche rilanciare: se mille era un gruzzolo interessante, per diecimila avrebbe rubato anche l’orecchino di Merat-Asua. Nel frattempo il ragazzo era stato imbarcato sulla Arzolu assieme ad altri; lui era giunto a Kaj Subdni appena in tempo per farsi reclutare da Lendìn al posto del mago di bordo. Un giovane deitalanteo con un debole per le puttane molto giovani. Era rimasto legato, ubriacato e imbavagliato nella cantina di un bordello del porto. Aveva preferito lasciarlo vivere: certe volte i morti sanno essere più loquaci dei vivi e questo vale soprattutto per i Dei-Talant.


Mentre gli ex schiavi si issavano fuori dai boccaporti li esaminò uno a uno e assegnò loro dei compiti, come impostare la rotta o legare i membri dell’equipaggio prima che si riprendessero, finché non vide il ragazzo che era venuto a cercare.

«Pamet?» domandò quando lo riconobbe.

Il ragazzo ricambiò il suo sguardo, forse l’unica cosa di lui che non avesse un aspetto miserabile.

«Chi sei? Perché ci hai liberato? Dove vuoi portarci?»

Gaston ristette un istante a fissarlo: aveva ancora un carattere indomito e pieno di curiosità, gli schiavisti non erano riusciti a spezzarlo. Annuì e rispose a tutte le sue domande nel modo più esaustivo che gli riuscì. «Qualcuno, non so chi, ha pagato per ritrovare te e liberarti assieme a tutti quelli che avresti avuto attorno. Tu che ne pensi?»

Il ragazzo scoppiò in lacrime. «Se fossi giunto prima avresti salvato tutta la mia famiglia! Vivevamo a sud di Spiegeldrag vicino al confine con Maor e in una notte i razziatori ci hanno portato via tutto, anche la libertà!»

Gaston ammirò la lucidità ed ebbe un quadro preciso dell’accaduto. Una decina di famiglie, forse più, era stata strappata a forza da una banda di razziatori maorni… e tutti erano stati venduti come schiavi nel granducato stesso.

Questo accese una fiaccola nel buio in cui aveva brancolato fino a quel momento.

«Seguimi, per favore» ordinò, poi si diresse verso la cabina sotto il castello di poppa, quella che era appartenuta all’appena scomparso Capitano Hastur Leng.

La stanza, perfettamente in ordine, odorava di mare e salsedine, con un vago sentore di putrefazione. Il diario di bordo era aperto sulla scrivania, fissato a essa con dei ganci. Il ragazzo lo seguì in silenzio.

Chi è che può permettersi di pagare diecimila spigel per liberare un ex contadino? E perché? Erano le domande che più lo incuriosivano. Cominciava ad avere un’idea precisa della misteriosa dama che lo aveva ingaggiato.

Il Granducato di Meroikanev considera la schiavitù in modo molto differente e tollerante rispetto alla Repubblica di Kirezia, ma neanche al Granduca piace molto che si rubino i suoi stessi sudditi per poi rivenderglieli come schiavi.Nella documentazione indicata dallo scrupolosissimo ex Capitano Leng, gli schiavi imbarcati a Kaj Subdni erano stati dichiarati importati da Oinek-Roit. Gaston trattenne una bestemmia nel leggere la parola “importati”. Tutti conoscono le isole di Thanatos e le pessime abitudini dei loro abitanti. Quando le loro velocissime piroghe arrembano un mercantile, la nave è condannata: a meno di colpi di fortuna straordinari, il carico viene rubato con tutto il vascello e l’equipaggio trasformato in schiavi o in cibo. Qualche rara volta gli ex equipaggi diventano pirati essi stessi, vanificando così i tentativi di debellare il problema da quelle isole.

I documenti recavano i bolli della capitaneria di Kaj Subdni, con tanto di drago a due teste impresso ad arte. Un piccolo incantesimo di verifica gli permise di verificarne l’autenticità. Emise un fischio basso e, improvvisamente, sentì tutto il peso dei suoi trent’anni come se fossero diventati centoventi.

Hastur in un certo senso era innocente. Si era recato a Kaj Subdni per caricare 200 schiavi e tra questi c’era lo “schiavo sbagliato”, ma non poteva certo saperlo. Qualcuno aveva rapito quel contadino, Pamet, assieme ad altri cittadini meroviti e lo aveva rivenduto al mercato degli schiavi di Kaj Subdni, e il fatto che la cittadina fosse la marca di confine tra Meroikanev e Kirezia non poteva essere un caso. Sapeva bene che gli schiavisti kireziani, nonostante il divieto in vigore da dieci anni, avevano ancora i loro traffici bene proprio grazie alla tolleranza del Granduca verso questo commercio e all’enorme richiesta da parte di Maor e dell’impero Dei-Talant di manodopera a basso costo. Quei documenti non raccontavano nulla che non fosse già noto, ma il fatto che ci fosse un cittadino di uno stato filo-schiavista tra i prigionieri di un trasporto deitalanteo era una faccenda diversa, nuova in un certo senso.

Fino a quel momento,i tentativi delle autorità kireziane di sradicare il traffico di persone si erano rivelati tutti un buco nell’acqua: ogni carico intercettato veniva liberato e gli equipaggi interrogati e impiccati (non sempre in quest’ordine), ma le indagini finivano là. Gli schiavisti erano sempre in grado di accorgersi delle azioni contro di loro e di cancellare ogni traccia. Certo, con l’aiuto di maghi molto abili, o peggio. Ora era sottilmente diverso: Hastur Leng era un cliente. Aveva comprato gli schiavi e se ne stava tornando a casa lungo una rotta che, in teoria, l’avrebbe tenuto alla larga dai controlli della marina kireziana. Se a liberare il carico fosse stato qualcun altro, privo delle informazioni di cui lui disponeva, non avrebbe compreso l’importanza di Pamet e dei documenti che accompagnavano il carico di cui faceva parte. Cosa che invece doveva aver intuito la misteriosa fanciulla che lo aveva ingaggiato. Dubitava fosse una parente o la fidanzata: la differenza di classe era troppo ampia.

Si appoggiò allo schienale, i capelli argentei ricaddero morbidi sulle sue spalle e fissò il giovane ex schiavo che era rimasto in silenzio a fissarlo mentre lui studiava le carte dell’ex capitano.

Cosa fare? Risalire ai mandanti e vendergli il mio silenzio? Sicuramente potrei ottenere un gruzzolo dieci volte superiore a quello pattuito con la misteriosa fanciulla. D’altro canto anche la ragazza aveva pagato senza battere ciglio e la lettera di credito da diecimila spigel che gli aveva mostrato era autentica e pronta a finire nelle sue tasche.

Unì i polpastrelli mentre i suoi occhi dorati percorrevano la figura emaciata del ragazzo.

«Pamet… hai o avevi anche una famiglia? Come si chiama» domandò una volta presa la decisione.

Il ragazzo si riscosse dai suoi pensieri e rispose «Pozajmi, il mio nome è Pamet Pozajmi».

«Molto bene, signor Pozajmi, sto per farle una proposta che proprio non dovrà rifiutare» disse, mentre avvertiva l’eccitazione per quanto sarebbe accaduto presto, molto presto.

Finalmente, dopo tanti giorni di tensione, poté sorridere senza doversi nascondere.