Come l'acqua sulla strada Onnigrafo Magazine

Come l'acqua sulla strada

Youssouf non si era mai chiesto chi fosse, o perché vivesse così. Sapeva solo che il suo paese era la Sierra Leone. Non aveva idea che ne esistessero altre, di Sierra Leone. Qualcuno al villaggio gli aveva parlato dell’Africa, una sorta di madre che guardava tutti dall’alto.

Si svegliava, e percorreva chilometri per arrivare al pozzo. Lo faceva ogni giorno, sempre da solo. Pensava alla gioia negli occhi di sua madre nel vederlo tornare con l’acqua, la cosa più preziosa che esistesse per lui e per la sua gente.

Se doveva pensare, lo faceva al sole. Se doveva parlare, parlava con gli occhi al cielo. Presto sarebbero arrivate le domande sul perché fare tutta quella strada, sul motivo per cui l’acqua era tutto. Non ebbe il tempo, il giovane Youssouf, perché prima arrivò la polvere, il rumore.

Fu in uno dei suoi tragitti per andare a prendere l’acqua che vide per la prima volta un fucile, e un ragazzo della sua età tenerlo in mano. Varie macchine incrociarono la sua strada, mentre i suoi occhi curiosi notavano la presenza di uomini e bambini tutti vestiti allo stesso modo.

Non vide più sua madre. Seppe che qualcuno aveva fatto sparire il suo villaggio, e con esso ogni bisogno di portare ancora dell’acqua. La sua vita cambiò in pochi istanti. Non volse lo sguardo al cielo. Non parlò. Rimase immobile, impietrito.

Gli diedero un fucile in mano, quando avrebbero potuto sparargli per completare l’opera. Decisero che sarebbe diventato uno dei loro, o almeno così decise il comandante Wobay. Il volto minaccioso, sul quale dominavano gli occhi tetri e insensibili, si era avvicinato al ragazzo e in lui aveva visto qualcosa. Era andata bene, al giovane Youssouf, sebbene non se ne rendesse conto.

Spesso sotto lo sguardo di Wobay i ragazzini tremavano, e per questo venivano presi e destinati a ben altra sorte, ma non Youssouf. La sua ingenuità conquistò Wobay, che lo prese con sé per farne un soldato. Senza una casa dove tornare, l’unico amico divenne il fucile, e la sola famiglia il Fronte del quale parlava il comandante.

Ovunque andassero, incontravano i traditori. Vedevano ragazzi come lui, donne e bambini che avevano venduto il loro paese al nemico, allo straniero, al nemico invisibile che si doveva combattere ad ogni costo.

Non c’era posto per i traditori. La via per la salvezza era solo il combattimento, la vittoria, e ci sarebbe stata vittoria solo quando tutti i traditori sarebbero scomparsi.

Alcuni venivano catturati vivi. Wobay li sceglieva uno ad uno, ma Youssouf non vide mai nessuno venire trattato come lui. Si convinse di avere la forza dentro, quella di cui parlava il comandante, e che i prigionieri altro non fossero che traditori, esseri senza scopo, se non quello di essere annientati senza pietà.

Il comandante aveva scelto lui, se gli altri non erano della stessa stoffa il problema non lo riguardava. Ebbe paura, in effetti. Sentì una voce, dentro di sè, urlare per la sofferenza di quei ragazzini. Venivano torturati, e venivano loro amputati gli arti. Qualcosa gli diceva che fosse sbagliato, ma la minaccia di Wobay si faceva sentire, e subito dopo sentiva il senso di colpa per avere dubitato delle sue parole.

«Colpisci! Adesso!» ordinava il comandante, tirando gli occhi crudeli e insensibili. Quattro o cinque ragazzi, tra cui Youssouf, colpivano con violenza il malcapitato. Un ragazzino come loro, solo che lui aveva tradito, secondo il comandante, i principi della rivoluzione. Per questo meritava la punizione.

«Mi chiamo Sallieu, non ho fatto niente!» si giustificava il primo che vide, sotto i colpi di frusta. Lei, così rapida ed efficace, lo colpiva, passando dalle giovani mani neo arruolate del Fronte, tra le quali vi erano quelle di Youssouf. Lo colpì, ripetutamente. Poi usarono i bastoni.

Agli altri, quelli che cercavano di reagire, o che avevano addirittura tentato la fuga in precedenza, tagliavano parti del corpo. I piedi andavano per la maggiore per i traditori vigliacchi che volevano fuggire dopo la cattura.

Wobay sorrideva, a volte pareva eccitarsi di fronte al dolore, ma ancor di più dinanzi al taglio netto, alla castrazione di qualsiasi volontà sovversiva, a qualunque senso di ribellione. I prigionieri perdevano la loro vita, intesa come voglia di manifestarsi per quello che erano, semplici uomini, donne o bambini che non avevano commesso alcun crimine.

«Il Fronte ringrazia, e vi benedice, soldati della patria. Il nemico verrà inseguito, stanato, annientato. Nessuno potrà opporsi alla nostra avanzata, fino a che la nostra terra sarà libera, e il nostro grido sarà udito e temuto oltre i confini!»

Parole gloriose, parole che giovani ragazzi non avevano mai sentito prima. Concetti come la gloria, l’onore, la forza e la resistenza, la giustizia e il destino venivano pronunciati e portati al loro cospetto da un uomo saggio e risoluto come nessun altro.

Wobay parlava di Dio, e lo faceva senza mai provare il minimo dubbio. A volte, mentre si rivolgeva loro e li guardava negli occhi, Youssouf temeva di tradirsi per quei pensieri frivoli ed inutili che aveva avuto. Aveva provato pietà per il nemico, e questo Wobay poteva leggerglielo con facilità.

Mantenne lo sguardo fiero, o almeno tentò di farlo, perché imitare il suo comandante non era affatto facile. Un giorno, forse, sarebbe diventato come lui.

«Ecco il sangue del nemico, ecco il sangue di chi vuole combatterci! Prendetelo», disse il comandante Wobay, «e fatelo vostro. Immergete le braccia, bagnatevi il capo, e bevete! La linfa del nemico sarà la vostra linfa!»

Il bagno delle braccia, delle giovani braccia dei nuovi soldati, avvenne tra i cadaveri degli innocenti. Il corpo del defunto Sallieu osservava la scena. I soldati, costretti a immergersi nel sangue, non sapevano in realtà cosa stessero facendo.


La piccola Farisa, qualche tempo dopo, stava tornando al villaggio con l’acqua. Fischiettava il canto della tribù, poiché la meta era ormai vicina. Pensava a come sarebbe stata sua sorella. Sua madre gliela faceva sentire sempre, dal suo grosso pancione.

Metteva l’orecchio vicino all’ombelico, e spesso lei si faceva sentire. Ancora prima che nascesse, era già la sua migliore amica. Cantava lo stesso motivo anche a lei, e glielo avrebbe cantato sempre, una volta fosse venuta al mondo.

Aveva appena imparato a fischiare, e lo preferiva al canto. Nessuno al villaggio fischiava, tranne lei, ma lo faceva sempre quando andava al pozzo, e nessuno la sentiva. La faceva sentire bene, in armonia con la natura che attraversava per chilometri di silenzio.

Quel giorno, però, la quiete venne improvvisamente interrotta. Farisa avvertì i primi rumori e si fermò. Capì presto che qualcosa si stesse muovendo verso di lei, e veniva proprio dalle sue spalle, dalla strada che aveva appena percorso.

Si voltò. Una grossa nube di polvere si alzava e avanzava, portando con sé il rumore che si faceva sempre più insistente. Ferma, nel bel mezzo della strada, si chiedeva cosa fosse, e cosa cercasse, quella nuvola di polvere che l’aveva seguita.

Il comandante Wobay aveva visto Farisa già da diversi minuti. Manteneva la sua espressione seria, sotto gli occhi attenti dei suoi soldati.

«Che ne facciamo, comandante ?» chiese il capitano.

«Fermiamoci, capitano Silya», rispose Wobay. «Voglio guardarla negli occhi.»

Silya, che aveva già intuito le intenzioni del suo comandante, osservava Farisa mentre la camionetta le si avvicinava. Ripensò per un attimo al villaggio. Poi si voltò, cercando di cambiare espressione, verso i soldati. Erano tutti pronti, aspettando un cenno.

Farisa rimase immobile per tutto il tempo. Sapeva che quel mezzo sarebbe arrivato al villaggio. Si chiese perché, visto che non era il giorno giusto. Nessuno era atteso al villaggio, non quel mattino.

Wobay, in piedi a fianco del conducente, accennò un sorriso. Si fermarono proprio davanti a Farisa, che non si era mossa di un passo da quando li aveva visti.

Il comandante la fissò. Gli occhi della piccola brillavano di curiosità, e non vi era paura in essi, o almeno così credette di capire Wobay. Mostravano la stessa voglia di conoscere che vedeva nei soldati che arruolava, proprio come era stato con Youssouf. Lui, ormai esperto fuciliere, osservava la scena da dietro, insieme ai compagni.

«Come ti chiami, bambina ?» chiese Wobay.

«Farisa», disse lei a bassa voce. Timida, curiosa, e appena intimorita. Wobay sorrise ancora. Notava la fermezza con la quale teneva il secchio pieno d’acqua. Non l’aveva lasciato nemmeno per un momento. Le sue gambe non si erano mosse, i suoi occhi continuavano a chiedersi cosa stesse accadendo, e così avrebbero fatto anche nei minuti successivi.

«Andiamo! Forza! Per la patria, e per la gloria!» urlò il comandante. La camionetta avanzò, alzando una nube di polvere ancora più ingombrante, che si riversò su Farisa. Si spostò sul ciglio della strada, lasciando passare il comandante e i soldati. Proseguivano verso il villaggio, ad alta velocità. Due soldati la guardarono, compreso Youssouf.

Farisa cominciò a correre. Sentì di essere confusa, ma anche terribilmente agitata. Quegli uomini avevano degli strani oggetti tra le mani, e si dirigevano verso casa sua. L’acqua le cadeva, decise quindi di lasciarla lì.

«Che i traditori abbiano quello che si meritano! Per il Fronte!» urlava Wobay. Arrivarono al villaggio accolti dagli occhi increduli delle donne e dei bambini. Molti di loro non ebbero alcuna possibilità di capire. I proiettili tagliarono l’aria, il fuoco si accese sulle capanne, tra le urla disperate della gente.

I pochi uomini furono colpiti immediatamente. Spararono sulle gambe, e sui corpi agonizzanti.

Youssouf sparava e ricaricava con velocità fulminea. Wobay lo osservava. Aveva imparato in fretta, e aveva perso anche le minime esitazioni iniziali. Sparava, inseguiva, calciava con disprezzo i corpi inermi di chi piangeva al suolo chiedendo pietà. Non ne aveva più, Youssouf. Non capiva nemmeno perché gli chiedessero di risparmiarli, dato che si erano venduti tutti, dal primo all’ultimo.

Sentiva l’eccitazione corrergli lungo le vene. La droga muoveva ogni suo muscolo. Comandava il suo istinto, e aveva ormai congelato la sua umanità. Nemmeno guardando Farisa, poco prima, si era ricordato di chi fosse, e di quante volte anche lui avesse portato l’acqua alla sua gente.

Diversi bambini piccoli avevano tentato la fuga. Wobay ne risparmiò solo uno, come di consueto. Mentre decideva il da farsi, il capitano gli si avvicinò.

«La bambina, comandante», disse. «Sta tornando.»

«Portala da me, Silya» disse Wobay. «è pronto per diventare un uomo.»

Detto questo, Silya annuì. Incrociò lo sguardo pietoso di diverse donne, ricambiandolo con disprezzo. Procedette sicura verso Youssouf, che era intento a schiacciare il collo di un ragazzo con lo scarpone, puntandogli addosso il fucile all’altezza della testa.

Lo richiamò. La droga che scorreva in lui si risentì. Non poteva terminare il lavoro, e questo lo innervosì molto. Ma il comandante gli diede un altro ordine. Avrebbe preso la bambina, e l’avrebbe condotta dal suo comandante.

«Lasciami! Lasciami!» urlava Farisa. Nemmeno i colpi inferti da Youssouf la fecero desistere. Chiese dove fosse sua madre, e la sorellina nella sua pancia. Chiese che cosa volessero, chiese dove l’avrebbero portata. Piangeva. Ebbe il tempo di vedere la strada dietro di sé. Da qualche parte, lungo il percorso, aveva lasciato l’acqua. Era destinata a lasciare con sé anche una parte della sua vita.

«Ferma!» le ordinò Wobay, non appena Youssouf la scaraventò al suo cospetto. «Non hai diritto di parola di fronte al comandante Wobay, mocciosa!» le urlò, prima di colpirla violentemente a mano aperta, sotto gli occhi eccitati di Youssouf.

«Paghi le colpe della tua gente, paghi la tua inutile ignoranza!» le disse ancora. «Oggi diverrai donna, e farai di lui un uomo!»

Il capitano li raggiunse. Mentre Youssouf teneva ferma la piccola, Silya le apriva le gambe. La sua purezza era stata mantenuta, proprio come piaceva al comandante.

Wobay fece un cenno a lei, che rivolse l’ordine a Youssouf. Il giovanissimo soldato, che tanto piaceva al comandante, sarebbe diventato il prescelto. Non aveva dubbi, Wobay. Youssouf era l’uomo giusto, colui il quale affidare il compito di portare avanti la rivoluzione. Con uomini come lui tutto sarebbe accaduto secondo le previsioni.

Si eccitò nel vederlo aprirsi i pantaloni. Non lo aveva mai fatto prima, lo si vedeva da come si muoveva. Sebbene inesperto, Youssouf aveva capito bene cosa dovesse fare, e quanto sarebbe stato importante per la sua missione.

L’unica missione di Farisa, per i minuti successivi, fu quella di pensare ad altro. Youssouf la teneva ferma, facendo forza. Lei non oppose resistenza, cercando conforto nel pensare alla sua famiglia, e alla sua gente che proprio in quel giorno maledetto aveva finito di vivere.

Ripensò all’acqua, limpida e perfetta. Il secchio era ancora in mezzo alla strada. Sotto il sole cocente, sarebbe rimasto lì ancora per molto. Farisa pensò di essere quell’acqua, lontana da tutto il male che le stavano facendo, lontana da quel ragazzino che, dentro di lei, le stava portando via gran parte della sua vita.

Come l’acqua sulla strada, anche lei non era mai veramente tornata al villaggio. Non era Farisa, mentre urlava. Non sarebbe mai stata Farisa, dopo quell’episodio.

Il comandante Wobay, eccitato davanti alla scena, toccava il capitano con la mano. Lei, Silya, rimaneva immobile, passiva a tutto ciò che succedeva.

Wobay trascinò lei e Farisa, poco dopo che Youssouf ebbe terminato, verso una delle poche capanne alle quali non era stato appiccato il fuoco. Youssouf fece la guardia, appena fuori. Sentiva ancora tanta energia, dentro di sé. Sentiva di volerlo fare ancora. Moriva già dalla voglia di raggiungere il prossimo villaggio.