Oriana Turus, Carmela Loria, Massimiliano Agarico
“Ciao a tutti. Mi chiamo Anita, e sono un’alcolista.”
No, così non va. È inutile, non funziona. Continuo a ripetere, allo specchio, la stessa frase imparata agli Alcolisti Anonimi, da ormai tre giorni ma. Giuro, non ce la faccio. Non fa proprio per me. Tutte quelle persone a fissarmi, incoraggiarmi e, inconsciamente, giudicarmi. Mi disprezzano. Loro odiano me e il sentimento è piuttosto reciproco.
Per non parlare dell’operatore e dello psicologo che mi guardano costantemente come se fossi l’essere più spregevole della storia, è così evidente quanto anche loro ce l’abbiano con me.
Come tutti quelli che mi stanno intorno.
«Devi frequentare se vuoi guarire», non fanno che ripetermi da quando ho messo piede in quella stanza.
Devi, devi, devi…sembra che non sappiano dire altro. Io li conosco i miei doveri e frequentare quel posto non fa certo parte di essi. Ho perso un’ora preziosa del mio tempo dietro a quel gruppo e non ho fatto altro che sentirmi inadeguata, come in ogni istante della mia vita, da quando sono venuta al mondo.
Che poi che esagerazione chiamarmi alcolista solo perché mi faccio qualche goccino ogni tanto. Un bicchiere di vino al giorno riduce lo stress e aiuta a vivere più a lungo, lo sostiene la scienza, mica io. Lo faccio regolarmente da vent’anni, poi passo ai superalcolici perché di vino la mia bocca è ormai satura. E il caffè corretto alla grappa di prima mattina è una manna. Mi dà la giusta carica per affrontare un’altra schifosissima giornata.
Lavoro nelle ferrovie da quando avevo ventidue anni e ho deciso di tentare il concorso perché quello per fare la maestra non era andato bene. Ho studiato per quello, in realtà. Volevo fare la maestra, ma suppongo ci sia stato qualche professore corrotto quando ho tentato l’esame e quindi non sono passata, in compenso nel settore pubblico ci sono finita ugualmente per cui il lavoro assicurato ce l’ho comunque e non mi posso certo lamentare. A parte forse dei turni ma a quello uno ci si abitua per forza anche se, di recente, ho ricevuto un richiamo dai miei superiori per un mio errore, ma è chiaro che si sbagliano e proprio non capisco perché vengano a dire certe cose proprio a me che questo lavoro lo faccio ormai da anni.
Comunque, è stato mio marito a convincermi ad andare in terapia, io non ho mai voluto, anche perché non credo di averne bisogno, ma lui ha insistito talmente tanto che alla fine ho accettato per disperazione. E ho deciso che non ci torno più. Gliel’ho detto l’altro giorno e lui si è pure offeso, dicendo che nego l’evidenza, che ne ho bisogno e che devo smettere prima che sia troppo tardi. Troppo tardi per cosa poi? Esattamente come tutti gli altri si ostina a volermi far credere di sapere di cosa ho bisogno e pretendere di decidere per me. Sono mai stata libera di scegliere, io? Non mi pare. Con mia madre che per tutta la vita ha controllato quello che facevo, era come stare in prigione. E io chiusa in una gabbia non ci voglio certo stare. Mio marito non fa che complicare le cose e, in più, ci sono pure i figli. Con loro sì che mi sento rinchiusa in un recinto di responsabilità e frustrazione.
Io, però, mica mi merito di restare ingabbiata. Ho diritto alla mia libertà.
Anche stamattina mi sono trascinata davanti allo specchio del bagno di servizio. Ormai l’unica cosa che riesce a farmi ritrovare è guardarmi dritta negli occhi; registro mentalmente tutte le esortazioni che colpiscono in faccia come un pugno il mio desiderio di slegarmi da tutti questi doveri.
Devo.
Quindi ora quale sarebbe il mio passo successivo?
“Ciao sono Anita e non bevo più da…” No, non funziona cazzo; la mia immagine riflessa mi rimanda un sorriso sardonico. Quasi mi spavento: quella non è una mia espressione.
Mi guardo mollemente intorno: ci penserò più tardi. Prima di andare a lavoro devo mettere su la lavatrice e almeno rifare i letti, poi caffè. Il caffè? Mi toccherà davvero prenderlo senza grappa?
Lui entra in bagno, ha gli occhi assonnati e una mezza erezione mattutina. Si struscia su di me come un gatto indolente, ma con l’intenzione di sfruttarla, se si palesa l’occasione; mi lascia un bacio leggero dietro il collo e scatena un brivido sottopelle che attraversa come corrente la superficie dei fasci muscolari e solletica un doloroso piacere, vorrei rifiutarlo con tutte le mie forze.
Ce l’ho con lui. Maledettamente. Ha ignorato le mie intenzioni, annullato tutta la discussione dell’altro giorno, come se io fossi una fottuta bambina senza volontà propria, ha strumentalizzato i ragazzi, coinvolto tutta la famiglia per farmi desistere dai miei propositi. Dio se ce l’ho con lui!
Lo sa, lo sente, perciò mi cattura lo sguardo dallo specchio tenendomi la vita e mi dice:
«Niente è impossibile. Sarà duro, ma quale percorso non lo è?»
Sorride come chi sa di aver fatto centro nel punto esatto dei miei pensieri. Mi irrigidisco e avverto tutta la tensione che mi provoca quella sua faciloneria; la mia testa registra tutte le opposizioni raccolte in questi giorni e spinge la lingua a sputargliele in faccia. Alla fine una voce lontana e ovattata sussurra “non servirà, lascia perdere”. La assecondo, biascico un laconico : «Sì.»
L’unica cosa dura è il tuo cazzo e mi sa che a sto giro te la smazzi da solo bello mio.
Dentro di me esiste qualcuno, forse non è neanche una donna, forse è più grande d’età, forse c’è da sempre, forse è più saggio di me, forse è quello dei due che non beve. E questa è una manciata di cose che non so, quella che so per certo è che qualcuno esiste dentro di me e prenderà una decisione. Non dovrò prenderla io. Fosse per me non ci andrei più a quella fottuta riunione di “nonbevopiùisti”, non funziona quando non lo vuoi tu, lo sanno anche loro, perciò mi fasciano tutta con quegli sguardi sdilinquenti.
Torno a guardarmi nello specchio, il quadrato che abbiamo ricavato dalla stanza da letto per avere un bagno tutto nostro è completamente riempito dalla presenza di lui. Allunga un braccio per sostenersi alla parete di mattonelle color malva, dietro il vaso, e si prepara a svuotarsi. Prima di assistere a questa mansione fisiologica – che si ostina da anni a ripetere senza intimità nonostante sappia quanto la trovi disturbante – mi defilo verso i miei doveri. So cosa mi aspetta stamattina al lavoro e non ho proprio voglia di affrontare un richiamo per una cosa che non ricordo neanche di aver fatto. Attraverso il corridoio stretto che separa le camere da letto dalla cucina-salotto, è tappezzato di foto sorridenti; le sfioro con la punta delle dita: la mia dolce galera, il mio piccolo mondo, il microcosmo in cui ho perso e ritrovato me stessa mille volte. Sbraito qualcosa ai ragazzi per farli svegliare mentre passo davanti alla porta della loro camera e abbraccio con tutta me stessa l’idea del caffè che stamattina mi sembrerà solo acqua sporca bollente.
Gionatan e Adele. Ecco chi mi aiuta a non mandare tutto a puttane: i miei piccoli. Soltanto loro.
Quando Mario getta le bottiglie nascoste e mi fa la paternale, i loro sguardi acerbi bloccano il mio desiderio di ammazzarlo e sedermi di fianco al suo cadavere per festeggiare.
Non amo le costrizioni né le imposizioni, ma cerco di trattenermi. Mezzo bicchiere di limoncello e nient'altro, mentre aspetto Mario, guardo la notte fuori dalla finestra.
È buio e il cielo mi sputa addosso infinite gocce tiepide. L'ansia mi spoglia il cervello, lo violenta. Spalanco la bocca in cerca del mio liquido santo, ma il mio braccio trema e le lacrime fuggono veloci, le budella si torcono. Non so se per la mancanza o il senso di colpa.
Questa volta, dopo il primo sorso, non volo, precipito. Vorrei avere il coraggio di farlo dal terzo piano, ma succede solo dentro la mia testa.
Urlo una disperazione che rifiuta di lasciarmi, perché nel mio mondo esiste solo il nulla, e ci sto cadendo dentro.
E se invece di far male a chi mi vuol bene, scomparissi io?
Il vapore del mio respiro si condensa nell'aria. Non basta un golfino, e il limoncello è troppo poco. Stringo le spalle, abbasso il mento dentro il bavero e osservo: Mario è giù in strada, sta tornando dal turno pomeridiano.
Passa sotto il lampione. La sua ombra è agitata, si allunga distorta, si arrampica tra le mura delle abitazioni per cercare di nascondersi. Arriva al marciapiede del viale principale; qui la sua ombra sembra quasi sfidarmi: mi raggiunge, colpisce al mento, allo stomaco, alla tempia, ogni volta...
E mi sveglio di colpo: è stato lo scoppio del bicchiere di limoncello sul selciato, a pochi metri da Mario che mi impreca contro. Ma è caduto, non l'ho di certo fatto apposta, anche se non sarebbe stata una brutta idea.