La parentela Onnigrafo Magazine

La parentela

Illustrazione Mary Pickford by Hartsook Photo, 1918

Ogni estate era d’obbligo una vacanza ad Ancona, per andare a trovare i parenti di mia madre; sua sorella Berta ci accoglieva sempre con tavolate di cibo che avrebbero sfamato un esercito e, dopo appena una settimana di pranzi e cene luculliane, rischiavo di non entrare più nel vestito da mare. La zia era solare e allegra e alla fine era piacevole stare in sua compagnia insieme a mia madre: passavo ore a sentire le loro chiacchiere fatte di ricordi che poi ruotavano attorno ai soliti pettegolezzi.

Una volta compiuti quindici anni, le mie estati ad Ancona dalla zia Berta le passavo da sola: mia madre rientrava a casa a Roma dal babbo, che reclamava la sua presenza dopo appena due settimane di lontananza.

La zia Berta era felice di avermi tutta per lei. Passavamo intere giornate a crogiolarci in spiaggia all’ombra, mangiando angurie lontano da occhi indiscreti, e poi mi permetteva di fare una buca nella sabbia e di sputarci dentro i semi. Se mia madre l’avesse saputo avrebbe inorridito trovandola una cosa volgare e sconveniente, ma a quanto raccontava la zia lo facevano anche da ragazze insieme: sì, anche mia madre sputava i semi dell’anguria mangiandola a morsi, china in avanti dalla sdraio in spiaggia. L’idea mi faceva sorridere: mia madre era sempre così compassata e perfetta, mai un capello fuori posto... Zia Berta era identica a lei, soprattutto quando rideva, ma mia madre conteneva subito la sua risata con quella mano candida che copriva la bocca piena di denti bianchi e perfetti, come a vergognarsi di tale licenza; la zia invece rideva serena e a bocca spalancata, a volte fino a farsi uscire le lacrime a volte, senza mani o pensieri che chiudessero la sua bocca. Ormai zia Berta era vedova da molti anni, e questo era sicuramente un punto a suo favore.

Mio cugino Andrea ha tre anni più di me. Fino a quando ha frequentato il liceo credo di averlo visto molto poco, sempre chiuso in camera sua a studiare; a tavola ci scambiavamo poche parole, a malapena ricordavo i giorni in cui avevamo giocato insieme da bambini. Io avrei voluto seguirlo dietro a un pallone, o a caccia di lucertole con i suoi amici, ma mio padre stringeva di più i fiocchi che avevo attorno alla vita e ribadiva che ero una femmina e dovevo comportarmi di conseguenza.

Andrea studiava giurisprudenza all’università di Urbino, ma stava spesso a casa per non lasciare troppo sola la madre, e in estate si spostava solo per dare gli esami; era molto bravo e, se tutto fosse andato come prevedeva, sarebbe diventato avvocato, o magari giudice.

Era l’estate prima del mio ultimo anno di liceo; mia madre aveva passato due settimane con noi dopo che il babbo era tornato a Roma, lasciandoci libere di respirare. Ero sola con mia zia ed ero pronta a godermi quell'estate così calda, ma forse l’aria era davvero troppo pesante e zia Berta, complice la pressione che le giocava brutti scherzi, oltre al giardino di casa non riusciva ad andare. Sebbene mi annoiassi stavo meglio lontano da Roma e da mio padre che brontolava su tutto: potevo andare in giro in giardino solo col vestito senza nessun dannato corsetto che mi stringeva e mi faceva sudare, senza calze, con delle ciabatte orribili trovate non so dove.

Andrea studiava come un matto, cercando il fresco ora in cantina ora sotto il pergolato. La noia mi spinse a cercarlo, portandomi dietro un libro da leggere come compagnia, mentre zia Berta sprofondava nel sonno in una delle poltrone di casa.



«Lo sai che da qui è possibile vedere sia l’alba che il tramonto al mare?» Andrea se ne era uscito così, come se anche lui non ne potesse più di libri e di noia in quel caldo afoso.

«Ovunque si più vedere il tramonto e l’alba»

Ero una ragazza acerba e spocchiosa, ma Andrea mi sorrise lo stesso.

«Sì, ovunque si può vedere alba e tramonto, ma se guardi il mare no, è possibile solo qui, per una particolare angolazione...»

Ero stupita, forse più dal fatto che mi stesse parlando che da quanto mi stava effettivamente dicendo. Di solito non andava più in là di un “buongiorno”.

Aveva la fronte imperlata di sudore, la camicia arrotolata sulle braccia e visibilmente umida. I capelli neri lisci ricadevano continuamente sul viso mentre leggeva a testa china. Io non replicai, e lui tornò con lo sguardo alle pagine che aveva davanti.

«È vero, sai, persino lord Byron ne rimase affascinato»

«Lord Byron... Quello aveva solo tempo per restare affascinato dalle bellezze estere, avesse pensato a fare il buon marito invece che andarsene a zonzo a far danni...»

«Non dirmi che al liceo vi fanno studiare Byron!»

«Poca roba, anzi, direi quasi nulla, ma una mia compagna ha una serie di biografie di autori e ho letto cose molto interessanti su questo Lord...»

Andrea chiuse il libro e si mosse a curiosità, forse più per me che per quanto gli dicevo.

«Beh è stato accusato praticamente di tutto… di incesto, di adulterio, di essere omosessuale e sodomita...»

Andrea uscì fuori con un laconico: «Interessante….» e rimase a guardarmi come un gatto guarda il lardo sul davanzale della finestra.

«E magari conosci anche il significato di tutte quelle parolone che hai detto, Clara?»

Mi sentii improvvisamente in imbarazzo, avevo nominato cose grandi e poi non ero in grado di padroneggiarle di fronte a lui; alla fine era solo mio cugino, non un uomo come tutti quelli fuori dalla porta di casa.

Probabilmente comprese il mio imbarazzo e cambiò rapidamente discorso.

«Ne ho abbastanza di stare sempre sui libri. Se vuoi possiamo fare una gita, domattina ci svegliamo prima dell’alba; dalla torretta dello studio si vede il mare e il sole che sorge lo vediamo da lì, poi torniamo a dormire, e verso le 9 andiamo al mare, restiamo lì tutto il giorno e ci guardiamo sempre dal mare il tramonto, così avrai la conferma che non dico scemenze»



Quando ancora era buio venne a bussare alla mia porta; aprii con indosso la vestaglia pesante perché avevo freddo. Salimmo le scale senza dire molto. Sbadigliavo, avevo sonno, e non ero affatto interessata a verificare se avesse ragione: non mi importava molto di vedere l’alba dal mare, avrei preferito dormire. Dalla torretta non si vedeva nulla, era ancora buio pesto e le vetrate lasciate aperte la sera prima avevano reso gelida quella grande stanza. Andrea mi strinse a sé, dicendomi che ero una ragazzina lagnosa. Erano le braccia di mio cugino, nulla di speciale, non quelle di un uomo fuori dalla porta di casa. Eppure, nel suo parlarmi vicino ai capelli c’era qualcosa di strano.

«Il sole è sorto, adesso posso andare a dormire?»

Andrea sorrise guardandosi attorno come declamando a una platea invisibile quanto fosse sciocca sua cugina. «Ti accompagno, dovessi svenire per le scale per il sonno!»

«Non c’è bisogno»

«Ti accompagno»

Da lì a svegliarmi tardi con lui accanto nel mio letto fu non dico un attimo, ma sicuramente rapido, insolito, incredibile e assurdo.

Davanti alla porta della mia stanza mi girai e lo guardai, perché lui mi stava guardando, lo stava facendo come lo farebbe un uomo, uno di quelli che stanno fuori dalla porta di casa. Ma lui era lì, era dentro casa, protetto da quelle pareti che alla fine dovevano proteggere anche me. Quindi tutto quello che accadde si realizzò nella protezione, nella riservatezza, nella totale perdita di senno, ma senza timore d’esser visti da qualcuno che non fosse conscio di dover tacere in proposito.

Andrea è stato il mio primo uomo, e nonostante tutto mi ha dischiuso con la facilità di chi va a puttane ogni sera, non solo perché aveva mani capaci e parole che andavano dritte al punto, ma perché ero io ad essere spalancata come una finestra chiusa male durante una bufera di vento. Aveva avuto l’ardire di prendermi senza chiedere, nessuna scena romantica a far da contorno, nessun pudore; niente di tutto quello che alla mia età potevo aver letto contribuiva a farmi immaginare cosa sarebbe accaduto. Ma era andata così. Mi aveva afferrata alla nuca e stretta per i capelli, mi aveva baciata con una tale avidità da scambiare quel bacio per un tentativo di divorare la mia bocca, e forse era stata proprio quella mancanza di stucchevoli giri di parole e impercettibili sfioramenti a farmi esplodere. Io non ho detto “sì” perché lui non ha chiesto nulla: ha agito, e io non ho fatto altro che seguirlo. Mi sono ritrovata in pochi minuti a maneggiare con poca grazia il suo corpo, un corpo maschile solo immaginato attraverso le statue nude che decoravano palazzi, strade e musei, viste centinaia di volte. Quanta bellezza marmorea corrispondeva, allora, a tanta bellezza calda, pulsante, viva! Non parlava, non diceva nulla, Andrea guidava le mie mani alla scoperta di quel nuovo mondo e toglieva sorridendo le mie che provavano a rallentare la sua corsa, ma non le toglieva più quando invece le spingevo ad insistere su di me. Fresca e ingenua come un bocciolo di rosa che si affaccia al mondo. Ma non è vera la storia dei petali sgualciti e del profumo che cambia in odore di fiore consumato. Dopo averlo accolto con dolore ma con piacere, mi sentivo come una “rosa fresca aulentissima” pronta a ricominciare. Ero probabilmente più famelica di quanto potesse esserlo lui; tutti quei luoghi comuni sul piacere solo ed esclusivo degli uomini erano spariti, ed ero lieta di ciò che sentivo.

«Eri vergine, senza dubbio...» Andrea cercava di togliersi dall’impiccio di non saper cosa dire, in malo modo.

«Certo che lo ero!», fingevo senza impegno di esser offesa dalla sua affermazione.

«Ho colto la tua verginità Clara, ma non di certo il tuo primo piacere...»

Rimasi senza parole, oppure proprio senza fiato, perché in quel momento non potevo mentire o nascondere il mio rossore. Ero in silenzio, avvolta dai miei capelli biondi sulla pelle scottata e da un lenzuolo bianco arruffato. Andrea mise una mano sulla mia testa, come se all’improvviso fossi tornata una bimbetta, e mi baciò sulla fronte. «Guarda che è normale, toccarsi intendo, non lo fanno solo gli uomini, lo fanno anche le donne… Solo che non bisogna dirlo, e con il marito bisogna fingere di non sapere, magari anche che non ti piace, sennò chissà cosa penserebbe…»

Andrea aveva colpito nel segno, aveva riassunto il concetto di sessualità dei nostri giorni in poche semplici parole. E io lo sapevo, come sapevo anche cosa dover fare per fingere di essere vergine, me lo aveva raccontato una nostra cameriera, la finzione da tenere nella camera nuziale; ma quella non era certo la mia camera nuziale: quella era la mia libertà, e sarebbe stata una lunga estate molto, molto calda.

Andrea era affamato, io impaziente, zia Berta, per nostra fortuna, sempre più schiacciata dal peso del caldo. Io scrivevo lettere a mia madre e a mio padre raccontando di lunghe passeggiate in giardino, della mia passione per la botanica e il giardinaggio e di quanto la lettura mi facesse star bene. Non avevo mai strappato un solo filo d’erba o reciso un fiore, non passeggiavo affatto e non avevo letto più nemmeno una pagina: trascorrevo le giornate a nascondermi negli anfratti della villa cercando scuse e sollazzo tra le braccia di mio cugino e passando le notti nel suo letto. Di giorno andava rintanandosi per poter studiare, ma mi lasciava indizi affinché potessi trovarlo. Una volta raggiunto lo molestavo fino a quando, spazientito, abbandonava i suoi libri e si rifugiava sotto il mio vestito.

«Chiavare con te è bello come chiavare con una servetta...», lo ripeteva sempre, e all’inizio mi offese quel suo paragone, poi capii: niente sottane, niente calze, quel mio essere discinta negli indumenti mi rendeva veloce e furtiva. Dopo la sua spiegazione iniziai a sorprenderlo anche senza mutande.

La notte era lunga; volevo sapere, imparare, stupirlo. Volevo essere sazia fino allo sfinimento, fino a crollare in un sonno senza sogno da quanto fosse profondo. E se cercava di spingermi via ridendo, chiedendo di riposare, allora gli mostravo cosa avevo imparato negli anni da sola. Lui mi guardava, sorridendo come un bambino di fronte alla fiera dei saltimbanchi, e quel suo sorriso era tutto mio, tutto solo per me.

L’estate stava finendo, gli esami si avvicinavano, zia Berta gironzolava per la casa e il giardino guardandoci in modo diverso, e mio padre venne a prendermi per riportarmi a casa. Non avrei rivisto mio cugino che durante le feste comandate, e comunque fino alle estati successive non ci saremmo mai più concessi nulla sotto lo stesso tetto, soprattutto quando mio padre era presente.

L’estate eravamo amanti, le altre stagioni solo parenti che non si vedevano se non in rari eventi. Non era la sua figura o la possibilità di parlare con lui a mancarmi: mi mancava il divertimento, la nostra fisicità, e d’altra parte, dopo aver accettato un fidanzamento a Roma non potevo certo permettermi di avere anche un amante. Conclusa l’università, il novello dottor Andrea ebbe subito un posto in un importante studio legale di Ancona. Aveva dunque un titolo, una professione, una agiatezza economica. Mancava solo l’ultimo tassello a completare la sua perfetta esistenza: una moglie.

Mentre io stavo in casa a ricamare le ultime federe del corredo in attesa di sposare il mio di dottore, un giovane medico di ottima famiglia, guarda caso figlio di un caro amico di mio padre, Andrea trovò moglie e si sposò con una certa fretta. Celebrò un distinto matrimonio in chiesa e festeggiò con tutti i famigliari nella sua bellissima villa materna; nello stesso giardino, in cui troppe volte ci eravamo avvinghiati sull’erba in animaleschi atti sessuali di somma bellezza, vennero serviti dolci e tramezzini annaffiati da vini pregiati. Nel mio abito blu cielo lo osservavo accanto alla sua deliziosa moglie, così perfetta con quei capelli tirati fino all’inverosimile sulle tempie scavate; lui conosceva i miei sguardi, sapeva cosa volessero dire, significavano adesso vediamo quanto sarà brava lei o se fingerà di non sapere, altrimenti chissà cosa penserai di lei…

A dire il vero non capì il mio sguardo, ma glielo dissi apertamente in un angolo dove lo trovai per un istante da solo. «Un tempo, Clara, i matrimoni tra cugini erano più tollerati, lo sai...»

Risi come mia zia quella volta, senza coprirmi la bocca con la mano. «Andrea ma sei matto? Non lo avrei mai fatto!»

Andrea era d’accordo con me, noi potevamo fare altro, solo altro.

Si sposò a maggio. Io mi sarei sposata a dicembre, perché desideravo tanto indossare la pelliccia di ermellino bianca, e mio padre acconsentì al mio capriccio. A inizio estate, mio cugino e sua moglie mi invitarono a trascorrere qualche settimana da loro nella nuova casa; mia madre non ci vide nulla di male, la moglie di Andrea non era di Ancona e passava molto tempo sola, mentre il marito era in giro tra uffici e tribunali, e un po' di compagnia l’avrebbe di certo aiutata ad ambientarsi. Mio padre come sempre ebbe da ridire e andammo quindi tutti insieme dalla zia Berta, che riuscì a trattenere mia madre, mandarmi a casa della nuova cugina acquisita e rispedire mio padre a Roma tra le sue scartoffie a brontolare da solo.

Andrea sembrò fin da subito felicissimo di avermi a casa sua, cosa che mi apparve molto strana, perché oltre alla nostra feroce carnalità non c’era mai stato nessun altro tipo di rapporto. Gustammo un pranzo delizioso nella veranda della sua nuova casa, una villetta su due piani con un grande giardino attorno, tutti insieme, con i miei genitori, mia zia, sua moglie. Era una ragazza dall’apparenza semplice, forse anche un po' rustica con le sue mani un po' tozze. Capelli castani e occhi scuri su un faccino simpatico, più che grazioso. Non poteva dirsi brutta, ma nemmeno del tutto affascinante. L’abito da sposa me l’aveva mostrata più leggiadra, ma è un errore di valutazione piuttosto comune. Aveva una fisicità altrettanto anonima come il suo viso, niente fianchi pronunciati o seno generoso, eppure non era proprio magra. Si chiamava Teodora, un nome importante che lei probabilmente non amava e correggeva, immediatamente dopo le presentazioni, in Dorina. Cercai di familiarizzare con lei, di scoprire cosa amasse, cosa avesse fatto fino ad allora. Dorina non amava molto i mestieri femminili: non aveva imparato a ricamare a dovere e le sue iniziali sul corredo erano piuttosto sbilenche, non amava il giardinaggio, e in questo mi trovava ben d’accordo sull’importanza vitale di avere un giardiniere fisso, aveva letto poco, non suonava alcuno strumento, non cantava né proclamava poesie. Dorina, però, dipingeva. Aveva una passione e un talento straordinari; disegnava con rapidità e con risultati per nulla dissimili alle fotografie, e personalmente apprezzavo molto questa sua capacità, allo stesso modo in cui detestavo quella spaventevole esplosione che determinava la fotografia stessa.

Dorina e Andrea avevano camere separate, divise da un salotto che comunicava con entrambe le stanze; la mia stanza si trovava al lato opposto. Una stanza bellissima, piena di coperte e cuscini a motivi floreali provenzali, di carta da parati fiorata e fiori freschi nei vasi, profumata e accogliente, piena di luce che filtrava da una grande finestra che dava sul roseto in giardino. La notte restavo sveglia, ma non sentivo alcun rumore in casa: c’era un silenzio assoluto. L’unico rumore che sentivo era il russare di Andrea in camera sua, e pensavo a quanto fosse strano.

Poi Andrea smise di russare e si iniziarono a sentire dei rumori, che più che rumori erano sospiri soffocati e gemiti nascosti in un cuscino, perché iniziò a passare la notte da me. Non capivo, ma alla fine non mi interessava troppo sapere cosa accadesse tra mio cugino e sua moglie, voleva solo quello che volevo anche io, e allora perché non darglielo? Era frustrato, nervoso, a volte cattivo nell’amplesso, ma a me piaceva proprio come in passato; non volevo tenerezze e amore, per quello stavo aspettando il mio futuro sposo.

Dorina sembrava non curarsi di quello che accadeva tra me e suo marito: forse non lo sapeva, o ,più probabilmente, fingeva. Facevamo colazione insieme tutti e tre: io in vestaglia consumata dalla notte, Andrea vestito di tutto punto, pronto per i suoi affari, e Dorina con abiti semplici, macchiati qua e là di colori a olio. Andrea finiva di mangiare in fretta, baciava la moglie e poi baciava me sul capo fuggendo via; non lo vedevamo fino a sera e restavamo sole in casa, o al massimo uscivamo a fare due passi. Mi sentivo strana, a disagio, perché ero certa che lei sapesse, ma restava serafica come nei primi giorni.

Una mattina, però, accadde qualcosa.

«Clara, oggi vorrei farti un nuovo ritratto, vorresti posare?» Dorina aveva quel sorriso quasi irritante stampato sulle labbra.

«Ma certo, volentieri» Posare era perfetto: io in silenzio, e lei altrettanto.

«Però volevo fare una cosa diversa, un ritratto a figura intera, ci sistemiamo in salotto, vieni»

Salimmo le scale e mi avviai verso la mia camera per potermi vestire, ma Dorina dietro di me mi fermò, prendendomi per mano. «No lascia stare, stamattina sembri come una delle grazie, non legare i capelli, vieni andiamo in salotto»

Il salotto dove mi portò non era quello del piano di sotto, ma quello della sua camera da letto, un ampio salotto pieno di tele, cavalletti, ritratti e studi. Su un tavolo stavano pile di fogli con studi anatomici di statue famose, almeno trenta riproduzioni delle mani del David di Michelangelo. Dorina era veramente brava, così versatile nel suo dipingere soggetti tanto diversi, ero incantata dalla sua maestria; era una creatura talmente bella nella sua apparente mediocrità che mi faceva sentire quasi in colpa per come stavo tradendo la sua fiducia.

«Vieni Clara, hai presente il ritratto di Paolina Bonaparte? Siedi con le gambe stese su questo divano, poggia la testa sul tuo braccio… ecco, così...». Dorina mi sistemò per qualche minuto con cura maniacale i capelli e la sottoveste, sistemò la vestaglia e il fiocco che la stringeva in vita, spostò ancora qualche ciocca ribelle poi si allontanò per osservare l’armonia del tutto. Prese un grande blocco e iniziò a disegnare. Scrutava i dettagli con grande attenzione, ogni tanto posava il blocco, sospirava cancellando qualcosa e riprendeva il lavoro.

«Fa caldissimo, togliti la vestaglia».

Si avvicinò per aiutarmi a toglierla senza rovinare l’effetto che aveva ottenuto aggiustandomi i capelli, sfilò una manica poi l'altra, e infine mi fece cenno di sollevare i fianchi per toglierla da sotto. Mi passò un brivido, un brivido di quelli che si vedono, e lei lo vide, notò dalla sottoveste il mio seno diventare all’improvviso più teso e i miei capezzoli emergere. Dorina si avvicinò di più per sistemare la posizione della testa e i capelli, posò le sue mani attorno al mio collo e restò immobile per qualche secondo. Poi mi baciò. Un lento, lungo, delicatissimo bacio, con una lingua leggera morbida e lenta; la mia bocca si aprì di riflesso per accoglierla e iniziare una placida e voluttuosa danza. Le sue mani erano leggere come piume, le sue dita disegnavano il contorno delle mie scapole, scendevano sui seni e iniziavano a indugiare stringendo senza far male, ma producendo scosse che partivano come fulmini per arrivare dritte al cervello.

Mentre i miei pochi indumenti cadevano a terra Dorina mi sussurrava parole gentili, baciando ogni lembo della mia pelle. Ansimavo e fremevo e non capivo nulla di quanto stava accadendo. Nel momento in cui tuffò la sua faccia tra le mie gambe mi sentii nello stesso istante fortunata e orribile: fortunata ad aver la capacità di godere di un tale piacere, orribile perché poche ore prima nella stessa posizione c’era suo marito a banchettare. Ma l'immagine di Andrea sparì in un orgasmo, in una sensazione tanto profonda quanto delicata era stata delicata la lingua che l’aveva provocata.

I vestiti di Dorina raggiunsero i miei e ci abbandonammo sul suo letto, dove restai allacciata alle sua gambe per ore. Ero sfinita, felice e stupita.

Dopo tre giorni in cui anelavo a un po’ di riposo mi presi un pomeriggio libero, andando da sola a fare una passeggiata al mare. Ero stanchissima, la notte avevo una bestia nel mio letto, di giorno rotolavo io nelle lenzuola di quella ninfa. Arrivai a casa poco prima di cena e mi trovai davanti una scena che mi mise in notevole imbarazzo, soprattutto perché nell’entrare in salotto sentii distintamente pronunciare il mio nome più volte, parlavano di me, e quando mi affacciai sulla porta salutando si voltarono entrambi con un sorriso ampio e genuino. Stava succedendo qualcosa, ma non sapevo davvero cosa. La cameriera aveva ricevuto l’ordine di apparecchiare e portare tutte le pietanze della cena e poi di andar via: avrebbe ripulito la mattina seguente.

«Clara, siediti, stasera sarà una serata speciale per noi» Andrea aveva uno sguardo mai visto prima di quel momento: era sorprendente come lo stesso uomo che era uscito furtivo dal mio letto quella mattina avesse un’espressione tanto distesa, talmente privo di tensione da essere addirittura più bello. Gli anni lo avevano reso affascinante, quel sottile baffo sulle labbra gli dava un aspetto quasi cinematografico. E Dorina, cosa direi di lei, nel ricordo è impresso il suo bizzarro abito in tela color malva, fatto di riprese e fiocchetti in ogni dove quasi come una tenda caduta sul suo corpo e rappresa qua e là; non aveva gusto nel vestire Dorina, soprattutto quando si sforzava di apparire esageratamente femminile, ma quella sera era radiosa, aveva sciolto i capelli e indossato uno sguardo ammaliante. Io ero seduta tra loro al piccolo tavolo scelto per servire la cena, davanti a un enorme piatto di vitello tonnato e pomodorini misti ad altre verdure tagliate minuscole, del vino bianco fresco, un piatto enorme di formaggi e imbarazzo, il mio imbarazzo servito in coppa grande.

Mangiammo e bevemmo in abbondanza, ma sentivo con chiarezza che qualcosa non andava. Sentivo la mano di Andrea che da sotto il tavolo si posava sulla mia gamba e cercava di accarezzarmi sempre più su. A ogni boccone faticavo a inghiottire e lo accompagnavo con un abbondante sorso di vino. Sentivo il piccolo piede di Dorina che sfiorava leggero la mia caviglia mentre mi parlava, accarezzandomi con naturalezza la spalla nuda. Avrò mangiato un quarto del vassoio di vitello, e alla terza bottiglia stappata iniziai a vedere il tavolo che ondeggiava, e decisi di mettere un punto al cibo e al vino. Non riuscii più a tenere la bocca chiusa e iniziai a parlare senza avere più la connessione tra la bocca e il cervello, e quelle mani, quei piedi, quelle bocche. Si intrecciava tutto, danzava la stanza mentre sentivo i vestiti che si allontanavano dal mio corpo, le risate riempivano la casa, risate e profumi, umori, odori di una strana passione che si accendeva senza limiti, senza remore, senza alcun controllo. La mia bocca non era mai sazia, riempita da baci leggeri o pieni di virilità, e il mio corpo fremeva, scosso dal piacere dei sensi e forse anche di più dal pensiero di quanto di illecito si stava compiendo. A notte fonda mi risvegliai nel grande letto di Andrea, lui al mio fianco dormiva appoggiato sul mio seno, Dorina all’altro lato mi cingeva i fianchi con un braccio. Non mi mossi per paura di svegliarli, e con lo sguardo fisso al soffitto guardai per un tempo indefinito il riflesso delle foglie degli alberi proiettato dalla luna piena. Era tutto tremendamente bello e poetico, profumavamo di libertà in quel letto.

Prima dell’alba eravamo di nuovi svegli e pronti all’amore, ma un barlume di razionalità arrivò a dare un senso a quel triangolo carnale.

Dorina mi prese le mani con tenerezza. «Clara, tesoro carissimo, è giusto darti una spiegazione arrivati a questo punto»

Andrea si sistemò i capelli, come se, da nudo quale era, il suo aspetto potesse risultare meno sconveniente, e si schiarì la voce. «Clara, se sei qui è perché sei l’unica persona della quale possiamo fidarci io e mia moglie. L’unica persona alla quale possiamo mettere in mano la nostra stessa esistenza»

Dorina si fece sfuggire qualche lacrima mentre restava sorridente, Andrea a tratti tradì un certo imbarazzo, ma la storia finì per venire a galla tutta, nella sua perversa semplicità.

Mio cugino non amava troppo le donne, o meglio, non amava solo quelle: da anni aveva allacciato una relazione carnale con un collega di università, poi suo diretto collaboratore, e non voleva rinunciarvi, ma per ovviare alle chiacchiere che si stavano diffondendo doveva correre ai ripari con un matrimonio che mettesse tutto a tacere. Dorina si era rivelata la moglie e complice perfetta: si conoscevano per la frequentazione di particolari salotti, e la loro unione era sembrata la soluzione migliore per mettere a tacere anche la famiglia della stessa Dorina, che ormai a ventisei anni era guardata come zitella dalla sua famiglia, e troppe volte era stata sorpresa in atteggiamenti poco consoni a una signorina per bene, in compagnia di una sua servetta. Andrea aveva confessato tutto a Dorina e lei aveva fatto altrettanto, e nelle confessioni era arrivato anche il mio nome e tutto quello che mi legava a mio cugino. Dorina mi aveva trovata bella e affabile, mi aveva sedotta e introdotta ai suoi piaceri. Pensai dapprima che tutto ciò fosse stato dettato da una forma di gelosia o dalla subdola voglia di fare quello strano gioco mentre raccontavano quanto accaduto, ma c’era dell’altro. Per riabilitare appieno la loro figura e riscattarsi agli occhi della società, era necessario che quel matrimonio avesse il suo sbocco naturale: dei figli. E Dorina non riusciva ad avere un reale amplesso con suo marito, e Andrea non riusciva a godere con sua moglie che, per quanto lo eccitasse il solo pensiero di saperla con un’altra donna, non riusciva a farlo arrivare al culmine. Io ero servita a questo: a creare il culmine e portarlo nel logo a lui dedicato, a rendere pronta Dorina a ricevere il seme di suo marito. Le successive notti furono dunque dense di passione: venivo sfinita da entrambi, e al momento opportuno Andrea si scaricava dentro sua moglie, che cercava di nascondere il fastidio di quella penetrazione stringendomi a sé più forte che poteva.

A dicembre furono testimoni alle mie nozze. Dorina sfoggiava un buffo abito color pesca che le nascondeva il ventre appena gonfio, io un candido abito bianco in pizzo francese e velluto e la mia splendida pelliccia di ermellino. Recitai perfettamente la parte della giovane sposa con il mio elegante e perfetto marito e sanguinai come una gallina appena sgozzata sul bellissimo lenzuolo di lino che avevo ricamato io stessa, rendendo col tempo mio marito un amante gentile e illudendolo di essere l’unico uomo della mia vita e maestro del mio umile e sporadico piacere.


Ovviamente, da quel momento in poi, i miei viaggi ad Ancona hanno iniziato a essere molto più frequenti, per via del lavoro di mio marito, che spesso è fuori per settimane, della mia salute cagionevole dopo la nascita dei miei bambini, del bisogno di aria di mare e dei giochi sulla bellissima spiaggia di Ancona, da dove si può vedere il sole sorgere e tramontare. E poi c’è l’immenso amore per i miei nipoti: quattro bellissimi bambini nati dall’amore di Andrea e Dorina, e me.