Illustrazione Self-portrait di Alyson Bercher
L’hotel in cui si sarebbe svolta la conferenza, Il Gran Veliero, si trovava a Roma, nel quartiere della Magliana vecchia. Silvia non era mai stata una grande guidatrice e per molti anni aveva preferito occupare il posto del passeggero, lasciando a suo marito il compito di armeggiare con la macchina e soprattutto con l’inciviltà di alcuni automobilisti.
Ora, mentre guidava per raggiungere il luogo dell’incontro, si rese conto di quanto il vero prepotente fosse solo suo marito. Era sempre stato un abile oratore e con la dialettica riusciva a spostare gli equilibri dalla sua parte. Erano sempre gli altri il problema, in qualsiasi situazione o circostanza; sul lavoro era il più intelligente, l’unico ad avere delle buone idee, che però venivano prontamente ignorate dai vertici dell’azienda. E allora tornava a casa stanco, frustrato, e lei era sempre lì pronta a consolarlo. Niente gli andava bene perché anche sua moglie negli anni si era irrigidita, non era più la ragazza innamorata, focosa. A differenza sua, il tempo non l’aveva minimamente cambiato, tutt’altro, l’aveva reso migliore, come il vino. Lei era in deficit, i colleghi erano in deficit, gli altri automobilisti non sapevano guidare e per questo durante i viaggi estivi suo marito si ritrovava a guidare perennemente sulla corsia di sorpasso, lampeggiando a chiunque gli si trovasse davanti davanti ripetendo che non aveva intenzione di seguire delle lumache. Lei finiva per sedere rigida sul sedile, con la mano attorcigliata alla maniglia mentre le unghie si conficcavano nel palmo.
Più volte aveva esortato il marito a rallentare, sempre veniva messa a tacere con insulti sputati da una bocca velenosa che altre volte diceva di amarla. Silvia non ci credeva più, ponderava ogni carineria ricevuta perché sapeva che la mazzata sarebbe potuta arrivare all’improvviso. Finiva per rimanere immobile a fissare la strada muoversi rapida e le auto passare a pochi centimetri dallo specchietto fra un sorpasso e l’altro.
Ora però era tutto diverso. Johnny era andato a farsi benedire, viaggiava da sola, con la musica in sottofondo a mascherare il rumore del motore. Non poteva mai accenderla con Johnny, lo infastidiva, la radio faceva cagare e gli speaker erano dei buoni a nulla. Johnny, come Johnny Depp, ripeteva lui quando si presentava con quel suo disgustoso sorriso, come a dire: “Mi chiamo Johnny e non so se vedi, ma gli somiglio anche!” Cazzate. L’aveva fatto anche con lei inscenando un cavalleresco baciamano. Col senno di poi l’avrebbe tirata via alla velocità della luce. Invece c’era cascata con tutte le scarpe. Non l’aveva mai trovato bellissimo però, in effetti, con quel taglio di capelli, con quei baffi, forse gli somigliava davvero.
Negli anni aveva iniziato a notare più somiglianze con un altro Johnny, decisamente meno affasciante. Rideva pensando a Johnny Stecchino, il boss mafioso interpretato da Benigni. Ecco chi era il suo Johnny, un povero delinquente, uno sfigato.
L’aveva lasciato dopo la terza violenza in un mese. Come si era permesso? Quanto era stata stupida ad aspettare la terza purga per alzare la testa e cacciarlo via? Perché anche se alle botte erano seguite carezze, i lividi rimanevano impressi, violacei, come francobolli identificativi. Non aveva intenzione di essere pestata ancora, non gli serviva quella bestia che, probabilmente, anzi sicuramente, non aveva mai amato. Era sempre stata indipendente, assolutamente autonoma e l’idea prima, e il raggiungere poi da sola l’hotel della conferenza a centotrenta chilometri da casa, non faceva che fortificare la certezza di esserlo. Proprio come diceva Kàron.
Da qualche tempo seguiva le vicende di uno fra gli Yesman più in voga. Americano di origine, trapiantato in Italia all’età di cinque anni. Non era mai stata troppo avvezza ai predicatori, a quei guru che promettono tutto e niente con una nonchalance tale da lasciarti basito e incredulo. Eppure c’era qualcosa di diverso in Kàron Black, di autentico e prezioso, quell’uomo trasudava veridicità. I suoi occhi, così verdi da sembrare due smeraldi non vacillavano mai guardando in camera. Erano veri, sembravano non fermarsi allo schermo, lo bucavano e ti parlavano. Calma, fermezza, e altro non si poteva fare se non ascoltare le parole che svisceravano concetti senza tortuosi voli pindarici. Le frasi fatte le lasciava ai libri, Kàron Black. Lui non illudeva, era severo all’occorrenza e affrontava senza paura anche gli argomenti più scomodi, senza paura di sbattere la faccia contro il politically correct. Troppe volte camuffato da censura.
Silvia si era appassionata a quell’uomo con i capelli lunghi raccolti dietro alla nuca da un elastico, come non le capitava da quando leggeva Nicholas Sparks convinta di trovare l’amore eterno. Aveva trovato solo Johnny, niente di buono, ma ora c’era Kàron Black e lei stava per arrivare a destinazione, stava pervederlo.
Magari, si disse imboccando l’uscita Roma centro-Eur lungo la E-80, sarebbe riuscita per fino a toccarlo, a parlarci! Al solo pensiero sentiva la bocca inaridirsi come se avesse ingerito un cucchiaio di sabbia. Eppure non aveva intenzione di sprecare l’occasione, doveva dirgli che era stato lui a destarla dalle botte mentre si tamponava l’occhio gonfio con il ghiaccio. Quel post su Facebook scritto in grassetto le smosse qualcosa dentro. Era troppo personale, quasi dedicato, non come l’oroscopo. Alzala questa cazzo di testa! Per terra c’è quasi sempre l’asfalto, ma davanti? Fu come una scossa che esplose al termine del terzo pestaggio. Tardi certo, ma sapeva quanto era difficile ribellarsi, e in un angolo del suo cuore era felice di esserci riuscita.
Una manciata di minuti dopo vide sulla sinistra Il Gran Veliero, l’aspetto non tradiva il nome, e la struttura dell’hotel richiamava un galeone. Le due facciate, leggermente a mezzaluna, andavano a toccarsi nelle estremità formando il corpo della nave.
Silvia lasciò la macchina nel parcheggio riservatole dopo aver mostrato il biglietto prestampato all’addetto della sicurezza. Seguì le istruzioni, e solo allora si rese conto della quantità spropositata di automobili. Era stata fortunata ad aver trovato ancora un posto disponibile; era certa di essere in ritardo, la Room Zero conteneva al massimo cinquecento posti, e quando si era decisa mancavano pochi giorni… invece eccola con il biglietto stampato.
Ora se lo rigirava fra le mani entrando nel gigantesco hotel. Si mise in fila, il serpentone conteneva persone di tutte le età. C’era attesa di varcare la porta, di sedersi e aspettare Kàron Black. Percepiva il crescente trepidare della folla. Intorno a lei nessuno parlava d’altro, tutti sembravano avere un motivo per stimarlo e per la prima volta da tanto tempo, Silvia, sentì di essere esattamente nel posto giusto.
Vaffanculo Johnny ficcati le mani dove non batte il sole! Si disse mentre la fila scorreva. Arrivò il suo turno, fece vedere il biglietto e fu libera di accomodarsi. Di aspettare.
Venti minuti più tardi, un uomo alto, quasi sproporzionato dentro ad uno smoking troppo grande, calcò il palco fino al microfono posto su di un’asta al centro. Rimase dritto a fissare il pubblico con la bocca serrata, solo gli occhi guizzavano da una parte all’altra.
Dopo il momento di stasi, l’uomo picchiettò l’indice sul microfono e le casse sparse nella stanza ne amplificarono il suono. “Okay, sì bene, funziona.” Bisbigliò scatenando nel pubblico un accenno di risate. “Wo…wo… ma quanti siete amici!” Rapido si levò uno scroscio di applausi che Silvia seguì subito. L’uomo andò avanti imperterrito: “Bene, vedo che siete carichi! Come state? Avete fatto un lungo viaggio? Qualcuno è di Roma?” Si mise ancor più dritto, rigido nel fissare le mani della folla alzarsi. L’uomo si lanciò in un lungo, ma rapido, appello delle regioni d’Italia. Quando arrivò il turno dell’Umbria la reazione di Silvia fu immediata, ma nella fretta non riuscì a vedere se fosse l’unica.
“Se siete qui probabilmente non stavate aspettando me, questo un po’ mi dispiace.” Fece il broncio, altre risate. “Il pezzo forte è sicuramente Kàron Black, dico bene?” Fischi d’approvazione fendettero l’aria. “Bene! Allora ecco a voi l’uomo che da una vita ascolta i vostri problemi, colui che non vi abbandonerebbe, ma soprattutto colui che mi paga lo stipendio! Kààààron Black!”
Silvia sorrise genuinamente mentre il cuore le batteva così forte da sentirlo a sinistra della gola, in mezzo all’esofago. Continuava ad applaudire.
Buio, nero. Tutte le luci della Room Zero si spensero all’unisono. Un grosso schermo a muro come quello del cinema si illuminò di bianco e sulla sua superfice comparve una scritta nera: Lasciate ogni, tre grossi puntini di sospensione che comparvero uno alla volta, pensiero negativo fuori di qui! Di nuovo il buio si ripresentò e quando le luci tornarono definitivamente, Kàron Black era al centro del palco.
Quello era davvero lui? Doveva essere uno scherzo, un modo per intrattenere il pubblico. Non poteva essere Kàron, piuttosto una caricatura grossolana. A guardarli c’era un uomo in canottiera, peli lunghi e neri sbucavano da quest’ultima. Indossava dei bruttissimi pantaloncini grigi, addirittura sporchi di una sostanza non meglio precisata all’altezza della patta. Kàron Black non è così, lui vive nell’eleganza, nella classe, nella forma fisica e quell’uomo simile a un barbone aveva la pancia gonfiata da troppa birra. Quel tizio ambiguo era sbagliato, non aveva niente… Silvia vide gli occhi verdi, identici, così intensi poteva averceli solo lui.
“Bhe, tutto qui?” Fece l’uomo grattandosi la nuca sotto i lunghi e sporchi capelli, dalla quale si staccarono granelli di forfora. “Prima eravate così carichi, entusiastici, e ora quello che vedete vi ha delusi? Ma tranquilli, tranquilli succede sempre, perché l’abito fa il monaco.” Prese a muoversi. “Il mio collega prima si è divertito, gli piace inscenare questo teatrino e se prima lo assecondavo, diciamo che da mille anni non lo faccio più. Mi sono proprio stancato, eppure questa resta la parte che più preferisco, perché sono libero di fare, mentre l’altra, quella che verrà dopo è solo una… come dire… costrizione.”
Si schiarì la voce, tirò giù il microfono e si sollevò i pantaloncini. Silvia, la folla, lo fissava in un silenzio così religioso da sembrare profano, come se la stanza fosse satura di parolacce e bestemmie. Eppure, ancora, nonostante tutto, sentiva di essere nel posto giusto.
“Voi mi avete visto, siete venuti da me, e ognuno si è immaginato la mia figura come la sua mente vuole. Per alcuni potrei parlare di Business, per altri di nuove tecnologie digitali e per altri ancora di motivazione personale. Eppure se vi foste confrontati avreste sentito solo ciò che volevate. In questa stanza solo io dico la verità.” Arrivò al bordo del palco e per un attimo sembrò volersi buttare, invece si sedette con le gambe a penzoloni.
“Quello che dico, sul fatto di non arrendersi, di perseverare, indovinate… sono stronzate! Sapete quand’è che effettivamente i pensieri negativi vengono lasciati fuori?” Attese spostando gli occhi verdi, erano ancora di quel colore? Nessuno ne incrociò lo sguardo, nessuno osava muoversi o protestare, figurarsi andarsene dalla Room Zero.
“Nessuno? Non siamo a scuola, non vi metto i voti. Davvero? E va bene, allora ve lo dico io. Si è liberi con la morte, siete d’accordo?” Di nuovo il mutismo la fece da padrone. “Cavolo, pubblico difficile. Allora tenetevi forte perché anche questa è una stronzata. La morte non fa che dare il via al dolore. E volete sapere un’altra cosa, la più interessante?” Sorrideva beffardo, nessuno raccolse la domanda.
“Voi tutti, dal più giovane al più vecchio, siete morti.”
Un rumore riempì le orecchie di Silvia, un suono liquido, come acqua che scorre.
La protesta arrivò fulminea, lontana, ma udibile. “Basta dire puttanate, ciarlatano. Me ne vado.” Un uomo in sesta fila era scattato in piedi e provava con tutto se stesso a muoversi dal posto. Non ci riusciva, le gambe pesavano tonnellate.
“Ah eccolo lo scettico, c’è sempre, ogni volta!” Ancora seduto prese a far andare le gambe come se stesse scalciando via l’aria. “Tu sei come San Tommaso, vero? Devi vedere per credere.” Increspò la fronte cercando di inquadrarlo da lontano. “Regia, cortesemente potresti illuminare i presenti dalla sesta alla tredicesima fila?” Una luce bianca dall’alto fece esattamente ciò che Kàron Black aveva chiesto.
“Ma guardatevi, vi siete anche messi vicini! Per caso vi conoscete? No? Non vi siete mai visti, vero? Però io so per certo che avete tutti preso lo stesso treno, l’interregionale Milano-Roma del 14 aprile ore 9:10. È corretto?” Kàron Black vide gli occhi degli interpellati allargarsi, stupirsi. “E naturalmente siete arrivati a destinazione. Bhe… è una vostra fantasia perché il treno si è schiantato contro un vagone merci fermo su un binario che non dovevate percorrere.” Sbuffò annoiato nel microfono prima di proseguire: “Continuate ad essere scettici? Regia mi mandi sullo schermo le immagini dei telegiornali?”
Subito una carrellata di foto e video mostrarono il disastro. Il treno era ridotto ad una lattina schiacciata, ribaltato su se stesso, e steso di lato come la carcassa di una balena. Una balena di ferro. Almeno novanta morti riportavano i titoli.
“Guardate come la morte, quella strega, vi ha ridotto, o povere anime!” Kàron Black sbatté le mani e le persone delle sette file illuminate presero a contorcersi. Si sentivano le ossa rompersi, scricchiolare, uscire dalle articolazioni. All’uomo che aveva parlato il collo si allungò a destra, le vertebre non lo contenevano più e questo prese a penzolare mollo. Poi la tibia destra come una lama spezzata lacerò la carne costringendolo a piegarsi. Quelle povere bestie divennero un agglomerato di corpi rotti; qualcuno non aveva più un braccio, altri la testa, eppure vivevano.
Silvia ora era certa di sentire l’acqua scorrere tutt’intorno alla Room Zero.
La paura impregnò l’aria amalgamandosi alle urla disperate dei mutilati. Volevano fuggire, andarsene, ma non potevano, perché erano esattamente nel posto giusto, l’unico e solo.
“Non guardate me! Io non c‘entro, oh povere anime. Io faccio solo il mio lavoro e ad essere sinceri, lo odio!” Kàron spostò lo sguardo in direzione di Silvia, attirato dalle urla della sua vicina di posto.
Non guardarmi, non farlo! Si disse, i suoi occhi non erano più verdi.
“Io non sono morta!” Urlava la sua vicina. “Sono viva come non mai!”
Kàron Black si lasciò andare ad una fragorosa risata, senza riuscire a trattenere la saliva in bocca: “Non sei morta?! Diamine donna se lo sei! Sei schiattata e anche male. Il tuo ex marito è venuto a trovarti a Perugia con il suo amico. Te sei convinta di non averli fatti entrare, in realtà ti hanno sbudellata, caricata nel portabagagli e seppellito in un sacco nei boschi a pochi chilometri da Terni. Stai marcendo sottoterra!”
Subito il ventre della donna si squarciò e da esso fuoriuscì un unico budello sporco di sangue. Altre ferite da coltello le deturparono il corpo mentre la pelle le si sporcava di terra, segno inequivocabile che il sacco aveva ceduto sotto alla pressione del terreno.
Kàron Black continuò a scrutare, e per la prima volta da quando quella folle conferenza era iniziata, sembrò meravigliarsi. La stava guardando, fissava Silvia con quei suoi occhi rossi impregnati d’odio e rammarico.
“Oh… alla fine sei arrivata, mi chiedevo per quanto tempo ancora avrei dovuto aspettare. Parlo con te Silvia, non fare orecchie da mercante. Ecco… brava, guardami. Ho provato a metterti in guardia contraddicendo alla mia natura, ma non ce l’ho fatta. Johnny è stato più veloce.”
Ora il fiume era carico, avvolgente, li avrebbe travolti.
“Io Johnny l’ho lasciato. L’ho cacciato via.”
“Sì certo, ci hai provato, ma avete litigato, furiosamente direi, e ti ha sparato un bel colpo di pistola in fronte. Adesso se ne sta seduto in una pozza stringendoti in un abbraccio. Percepisci l’ironia?”
Un liquido caldo iniziò a gocciolare dalla fronte di Silvia. Passò fra le sopracciglia, fin dentro agli occhi. Lei si portò le mani alla testa e fu in quel momento che toccò il foro del proiettile.
Kàron Black lasciò cadere il microfono, eppure la sua voce sembrava ancora più cavernosa, vecchia di secoli. Andò per un momento dietro alle quinte del palcoscenico, e una volta tornato, in mano stringeva un grosso remo.
Con le carni nude, libere da quegli stracci mortali, recitò: “La parte divertente è finita. Ora per me si va nella città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente!” I muri della Room Zero tremarono, collassarono rivelando il limbo nero, l’antro tanto profondo da essere esso stesso l’abisso dal quale è impossibile fuggire.
Il pavimento si alzò, prese a mutare in una forma concava ai lati. In un momento la sala si trasformò in un enorme veliero spinto da Kàron. Vennero traghettati lungo il fiume. L’Acheronte era placido, ambiguo. Kàron scese fra loro dopo aver dato un’energica pagaiata con il remo nel liquido putrido, nero e carico di zolfo. Milioni di teste e braccia sgusciarono fuori dall’acqua come a voler risalire la china, chiedendo perdono e grazia.
Un uomo si sporse, incantato dal vorticare delle mani emerse, e il nocchiero, rapido, riportò la disciplina colpendolo col legno vecchio di ere. “Guai a voi, anime prave!” Urlò agitandolo.
“Io no, non posso stare qui! Voglio il paradiso!” Fece supplicando un uomo morto bruciato e ancora avvolto dalle fiamme. Tutti ormai stavano subendo la causa della loro fine.
“Se siete qui il paradiso mai vedrete! Dolori vi aspettano giunti all’altra riva. Non sta a me decider quali!” Affermò il vecchio remando.
Silvia capì dove sarebbe rimasta in eterno. Lo comprese ancor prima di finire al cospetto di Minosse, il giudicatore. Prima di vedere la sua coda attorcigliarsi intorno al corpo un numero pari al cerchio a lei destinatole.
Aveva tradito Johnny pochi anni dopo averlo spostato. Era stata l’amante di un ricco uomo d’affari prima che questo morisse improvvisamente. L’aveva amato, aveva pianto senza confessarlo mai. Il Cerchio dei lussuriosi la stava già aspettando, sarebbe stata costretta a vagare bersagliata da un vento eterno.
Kàron Black continuava a spingere il veliero verso le profondità dell’Inferno, con i suoi occhi di brace, mentre li portava via. Per sempre.