A chi serve un Maynard? Le origini Onnigrafo Magazine

A chi serve un Maynard? Le origini

«A cosa pensi?»

«Niente.»

«Dai», disse ancora Kim, impaziente. «Che ti passa per la testa?»

«Lo stesso che mi passa da trentacinque anni. Niente», ripeté Robert.

«Quanto sei cretino!» disse quindi Kim, solleticandolo sul fianco destro. «Ci deve pur essere qualcosa, in questa bella testolina folta. Che mi fa impazzire…»

Un lungo bacio. Le lenzuola si strofinavano. Il dolce suono del tessuto pareva quello di un focolare acceso, in una fredda notte d’inverno. Ma non era freddo, non era notte, e non era inverno. Il letto sul quale Robert e Kim rimanevano avvinghiati occupava tutta la stanza. Nemmeno un ventilatore, c’era appena lo spazio per un armadio. Oltre la porta, un bagno decoroso, una tavola, un angolo cucina monotono, e l’ingresso.

«Dio, quanto adoro i tuoi capelli!» esclamò Kim.

«Sì», annuì lui, sorridendo. «Sono fortunato.»

«Sei bello.»

«E fortunato.»

«Guarda che i miei ricci te li sogni, tesoro.»

Ancora un bacio. La tentazione di farlo ancora. Ma era troppo tardi. Kim vedeva l’ora segnata sulla sveglia digitale. Fece due conti. Il tempo va curato, le aveva insegnato la buon’anima di suo padre. E allora usiamolo a parlare dei sogni, si disse. Robert aveva evitato il discorso. Lo faceva spesso. Ogni volta che provava a osservarlo al di là della sua immagine di belloccio bianco del Kansas, lui si chiudeva nel guscio.

«No, sul serio. Pensi a noi? Voglio dire, quando te ne stai così, a guardare il soffitto, e…»

«Perché me lo chiedi?»

«Perché mi interesso a te.»

Robert sorrise. Kim non può immaginare quale sia il mio passato, pensò. Le accarezzava la soffice pelle, si soffermava sulla bellezza delle mani. Bianche da una parte, scure dall’altra. Aveva ricevuto insulti e botte, per questo, in passato. Te la fai coi negri, gli avevano detto.

«Pensavo al lavoro. Alla casa. Pensavo a noi», mentì Robert.

«C’è qualcosa di noi che ti preoccupa?»

Mi preoccupa tutto di noi, tesoro, vorrebbe risponderle Robert. Ma Kim lo guardava come poche altre donne prima. Forse, come solo una donna aveva fatto, ma erano passati tanti anni. Era a lei che aveva pensato Robert, poco prima. Kimberly, donna affascinante e sensibile, aveva capito. Aveva letto nel suo sguardo un pensiero fuori dal comune. Uno di quelli che ti fa allontanare dalla realtà, anche se questa è la più desiderabile della tua vita.

«Voglio solo il meglio per noi, tesoro.»

«Lo voglio anch’io. E lo avremo.»

«Sei la cosa più bella che mi sia capitata in anni. Devo meritarti.»

«Ehi», disse Kim, appoggiando il gomito sul cuscino, e guardando meglio il suo Rob. «Chi ti ha messo in testa che non mi meriti? Io sono felicissima!»

Era vero. Bastava fare la stessa cosa che Kim aveva appena fatto con lui. Leggere il suo sguardo. Vedere al di là. Ma i pensieri di Robert tornavano al Kansas. Sdraiarsi sul letto, dopo l’amore, o solo per riposarsi, significava tornare per un attimo a Jessup. Aveva lasciato parte della sua vita, laggiù, come era possibile non ripensarci?

«Lo so, amore», le disse. «Forse ho troppi sogni per la testa. E vorrei che si realizzassero tutti.»

«Il tempo va curato. E così i nostri sogni.»

«Shakespeare?»

«No», rispose Kim, sorridendo. «Sammy Haynes, mio padre.»

Era sempre stata affezionatissima a lui. Robert, invece, non aveva grandi ricordi di suo padre. Era durato quel che era durato. Qualche buona parola, qualche insignificante gesto d’affetto, poi nulla. Se ne era andato troppo presto, vittima di un male precoce.

Quando era toccato a lui, poi, di diventare padre, era scappato. Sì. Se l’era data a gambe. Era successo tutto velocemente. Non si era sentito più innamorato, né desiderato. Dubbi e ripensamenti, vinti per un attimo dall’intervento di un vecchio amico, per poi ritornare sulla sua decisione.

A questo aveva pensato Robert Maynard, steso sul letto dei pensieri. Si era ritagliato del tempo per darsi del codardo un’altra volta. Era volato a Jessup con la mente, si era fatto due conti. Chissà che starà facendo, si era chiesto. E poi, grazie alla voce suadente di Kim, era tornato indietro.

«Sai», le disse, accendendosi una sigaretta, «ho passato la vita a sognare!»

Kim lo ascoltava. Era ancora più bello, quando diventava serio. Qualsiasi frase avesse detto, avrebbe trovato le parole giuste per mantenere accesa la conversazione. Parlare con lui era come guardarlo. Guardarlo e ascoltarlo, poi, era una congiunzione astrale di piaceri. Rimaneva appoggiata sul gomito, la bella Kim. Lui le accarezzava i ricci morbidi.

«Poi, e non so ancora perché, ho messo da parte la chitarra. Forse volevo seguire le orme di mio padre. Lui ne era orgoglioso, all’inizio. Ma, sai… beveva. Dio, quanto beveva! Iniziai a pensare che fosse geloso di me, che non potesse sopportare la mia passione. Non che fossi un gran che, ma il solo mettere piede su un palco, prendere delle lezioni, dare tutto me stesso anche solo per una stupida recita, forse lo mandava in bestia.

Mi convinsi che la bottiglia gliela avessi passata io. Ero giovane, ma avevo capito la dipendenza meglio di lui. Coltivare il suo sogno, che stava diventando il mio, lo stava lentamente consumando.»

«Non sei colpevole per la morte di tuo padre, non dire così.»

«Non lo sto dicendo», riprese Robert. «Solo, sarebbe stato tutto più facile senza quel dannato whisky. Sai cosa intendo.»

«Certo», annuì Kim.

Non un musicista, non un attore. Cosa era diventato, quindi, si chiedeva ancora. Un operaio, un semplice operaio che si guadagnava da vivere per fuggire il passato. Condivideva le lenzuola con un angelo. Lo disse, una volta finita la cicca. Kim era il suo angelo, poiché era la sua salvezza.

«Un angelo nero.»

«Il più meraviglioso degli angeli», disse ancora Robert.

«Sai», disse Kim, «mi è venuta in mente un’altra frase di mio padre.»

«Spara.»

«Ci sono tre cose, nella vita, che non ti toglierai mai. I tuoi demoni, i tuoi angeli, e la tua famiglia.»

«Cazzo!»

«Che c’è?» chiese Kim, con il sorriso.

«Lode e gloria al signor Haynes! Perché diavolo non ha fatto il filosofo?»

«Perché è roba da bianchi, amore.»

«Io non sarei mai stato capace di dirla, una cosa del genere» tagliò corto Robert.

Si era fatto tardi. Kim aveva il turno di notte. Si alzò dal letto, lasciandosi toccare. Sorrise, sentendo le mani di Rob ancora su di lei. Il lenzuolo volteggiava, il suo sedere danzava.

«Faccio tardi!»

«Chi se ne frega», rispose Robert, baciandola.

«Sul serio, amore.»

Si fece una doccia veloce. Robert la sentì cantare. Dio, pensava, è brava anche a cantare. Ascoltarla lo fece rimanere con i piedi ben piantati lì dov’era, a Dolan, Alabama. Spostò la tenda della finestra per vedere il tempo. Uno schifo. Guardò anche l’ora. Era tardi, in effetti. Si mise la camicia avvolto nei soliti pensieri. Joe sarebbe arrivato a minuti.

«Ho fatto, tesoro.»

«Sei stupenda.»

Parlarono, attorno al tavolo disordinato del soggiorno. Kim si preparò un panino che a Robert parve di sole verdure. Così non ingrasso, fu la risposta istantanea di Kim. Sarà, si disse Rob. La vide scattare da una parte all’altra dell’ingresso, rimbalzando tra gli scaffali e i cassetti. Prese chiavi, occhiali, fazzoletti e altre diavolerie. Poi tornò da lui, per salutarlo.

«Un bacio al tuo angelo», gli sussurrò.

Rimasero attaccati più del previsto. Fu la volontà ferrea di Kim a staccarli, per evitare complicazioni. Quelle ce le avrò al lavoro, disse ridendo, se faccio tardi. C’era gente che aveva bisogno di lei, all’ospedale. E non era così vicino. Dei buoni quarantacinque minuti di auto.

«Ti aspetto domani.»

«A domani, amore.»

La porta si chiuse. Kim percorse il corridoio esterno della palazzina guardando in basso. Se era felice, guardava sempre in basso. Si chiese se anche per Rob fosse così. In fin dei conti, i dubbi sui pensieri del suo ragazzo le venivano solamente quando guardava il soffitto. Dopo alcuni metri a chiederselo, prese le scale, cercando nella borsa le chiavi della macchina.

Un uomo, ai piedi della scalinata, la fissava. Che, hai visto un fantasma, ebbe voglia di chiedergli. Interpretò il suo sguardo. Lo salutò, più per farsi strada, che per cortesia. La fece passare, spostandosi di pochi centimetri appena.

«Grazie!»

Non una parola. Kim mantenne il passo in direzione della macchina. L’uomo la stava ancora osservando, quando giunse alla portiera. Kim lo vide appena dallo specchietto. Poi scomparve sopra la scala, e non ci fece più caso.

«Chi è?»

«Polizia!»

«Idiota», sbuffò Robert, dopo aver guardato dallo spioncino.

Joe entrò col suo portamento serio. Lo stesso che aveva avuto per le scale. Robert lo fece accomodare. Le solite domande: come va, trovato traffico. C’è della birra in frigo, aggiunse poi.

«Carina, la scimmietta» disse Joe, aprendo la lattina.

«Non parlare così, capito?» disse Robert, adirato in viso.

«Ehi, calma, amico!» esclamò Joe. «Non ti scaldare, stavo solo scherzando!»

«Siamo qui per parlare d’affari.»

«Certo, Robbie!» disse quindi Joe. «Era solo per rompere il ghiaccio!»

La televisione accesa offriva la solita dose giornaliera. Di crimini, prostituzione, un paese ancora scosso da chissà cosa. A Joe sembrava l’ideale per entrare in argomento. Si sentiva a casa sua, quando un telegiornale parlava del suo mondo. Era da settimane che avevano in mente di farlo.

«I titoli della Guaranty volano, hai sentito la radio?»

«Non ascolto la radio», rispose freddamente Robert.

«Ti sei perso tante belle cose, Robbie! Il momento giusto è questo, ne sono sempre più convinto.»

«Tommy che dice?»

«La pensa come me, amico. Manca solo il tuo sì.»

Robert era indeciso. Era a conoscenza di ogni rischio, ma aveva bisogno di soldi. Joe, guardandolo riflettere, ne ebbe conferma. Tra un sorso di birra e l’altro, parlò dei suoi progetti. Ne aveva abbastanza del suo appartamento, della sua macchina scassata. Aveva bisogno di qualcosa di proprio. Solo se il colpo fosse andato a buon fine, ce l’avrebbero fatta.

«E tu, che farai dopo?» gli chiese.

«Me ne vado di qui.»

«Te ne vai con lei?» chiese ancora Joe, indicando la porta d’ingresso, come se Kim stesse ancora percorrendo le scale.

«Già», fu tutto ciò che disse Robert.

In banca la gente riponeva i risparmi di una vita. Questo lo deprimeva, da un lato. Poi si ricordava come la vita non fosse stata mai tenera, né con lui, né con la gente. Si convinceva, quindi, come fosse la scelta da compiere, il prima possibile. La banca in questione l’avevano studiata da mesi. Un solo colpo, rapido ed efficace. Poi, forse, la vita avrebbe sorriso.

Joe si fermò da lui fino a tarda sera. Cenarono, con la partita alla tv, bevendo una birra dopo l’altra. Non c’era mai molto di più da fare, laggiù. Robert fu contento di aver trascorso l’ennesima serata lontana dai pentimenti. Da qualche tempo accadeva sempre più spesso. Di pensare a suo figlio, e anche a Emily.

La immaginava ancora a Jessup. Non aveva mai avuto la forza di lasciare quel posto. Era tutto ciò di cui aveva bisogno per essere sé stessa. Lei, di cambiare, non ne aveva mai avuto voglia. Anche quella sera si chiese se Robbie Jr. assomigliasse a lei. Tutto questo riflettere lo aveva travolto dal giorno alla notte. Forse la vicinanza con Kim, con le emozioni che lei aveva risvegliato, lo aveva convinto di essere un buon uomo. Perché, allora, se ne era andato?

«A che pensi?»

«Niente.»

«Sei proprio strano, Robert Jr.»

Il destino dei silenziosi, dei pensatori, dei solitari. Con quella frase ne aveva avuto la conferma ancora, il piccolo Robert Jr., che per un attimo si era chiesto dove fosse suo padre. Non poteva sapere, a miglia e miglia di distanza, chi realmente fosse Robert Maynard, la sua compagna Kimberly, dove si trovassero, e cosa avesse in mente per il futuro.

«Voglio dire», disse ancora Lucy, schivando con la ruota anteriore i sassi sul sentiero, «non ci devi pensare più di tanto. Ai tuoi, insomma. Io non ci penso affatto.»

«E chi te lo dice che stavo pensando ai miei?»

«Si vede lontano un miglio, Robert Jr.», gli rispose Lucy. «Dai, arriviamo fino a lì!»

Le ruote si imbizzarrirono come cavalli. Risero, entrambi. La mattinata era calda, condita da un venticello timido. Si sentiva il respiro dello stagno, la sua calma imperturbabile. Robert Jr. e Lucy si erano conosciuti proprio grazie a lui. Amavano andare ai piedi dello stagno, correre per i sentieri, allontanarsi per qualche ora dal silenzio assordante di Jessup.

«Non ne devi fare un dramma, capito?»

«Sì», disse Robert Jr., senza convinzione. Lucy lanciava i sassi nell’acqua. Non li faceva saltare, li lanciava e basta.

«Guarda i miei», disse ancora Lucy, «non si parlano quasi mai. Non vedo gran differenza.»

Vederli conversare da lontano lasciava intendere una certa intimità. James e i suoi amici la catturarono al volo. Ci furono momenti di silenzio, tra di loro. Si aspettava il cenno del capo di James, che tardava ad arrivare. Tardava perché lui, di Lucy Hager, era cotto.

«Andiamo!» disse poi.

Scesero fino alla riva. Non erano molto distanti da dove, giusto un paio di settimane prima, James aveva picchiato Robert Jr., e da allora non si erano più parlati. Forse non lo avrebbero fatto comunque, vista l’evidente sintonia che il piccolo Maynard aveva instaurato con Lucy.

«Tu non sai la fortuna che hai, Robbie.»

«Questa è bella!»

«Perché», disse lei, «credi che non sappia come suoni? Non viviamo in una metropoli, Robbie mio, ti sento quando ti metti alla batteria. Credo che tu vada alla grande!»

Robbie mio. Se solo James Saunders l’avesse sentita. Li osservava senza poterli ascoltare. Lui e la banda si avvicinarono lentamente, come a non voler rovinare l’atmosfera. Ma guastare il meraviglioso quadretto, ai piedi della pozza d’acqua appena fuori Jessup, era tutto ciò che avevano intenzione di fare. Non c’era altro modo.

«Guardali un po’, i piccioncini!» esclamò James.

«Che sei venuto a fare?» chiese, indispettita, Lucy.

«Qui è casa mia, piccola.»

«Pensavo che casa tua fosse uno schifo di fabbrica», disse ancora lei.

«Un giorno, piccola. Ma fino ad allora...»

Il solito Saunders, pensava Robbie. Cominciò a recitare il suo copione. Lui, che aveva avuto le peggiori parole per suo padre e suo nonno, ripeteva sempre lo stesso discorso sul lavoro, il futuro, i fannulloni e chissà che altro. L’unico motivo era farsi notare da Lucy.

«Andiamocene, Robert Jr., a scuola mi diverto di più», disse lei, guardando storto Saunders.

«E perché ve ne dovete andare?» chiese lui. «Ci possiamo divertire tutti assieme. Che ne dici, Robert Jr., sei dei nostri?»

«Lascialo stare», disse Lucy.

«Guarda che la bocca ce l’ha anche lui, piccola. Non ha bisogno della balia!»

Robert Jr. rimase in silenzio. I due amici di James, Andy e Trevor, ai suoi lati come alfieri, aspettavano una qualsiasi battuta per entrare in azione.

«Starà ancora pensando alle botte che ha preso due settimane fa!» disse James, enfatizzando il tutto con un’espressione da macho mal riuscita. «Oppure alle cazzate che ha sparato! Che cosa hai detto quel giorno, Robert? Ah già, vuole diventare un artista totale!»

Lucy guardò per un attimo Robbie. Egli avvertì la sua compassione. Si sentiva peggio così, che steso al suolo, sotto i colpi di James. Ebbe l’istinto di corrergli incontro. Non intendeva colpirlo, ma era meglio che star fermi. Come una marionetta, era legato ai fili invisibili dell’orgoglio.

«Smettila!» esclamò Lucy, fermandolo.

«Wow! Il nostro Robert Jr. vuole fare l’eroe! Fammi vedere l’artista totale!» esclamò, tra le risate convinte dei suoi amici.

«Se è per questo, io qui vedo solo uno stronzo totale!» rispose, di tutto punto, Lucy. «E voi», continuò, indicando gli altri ragazzi, «Andy Beard e Trevor Janis, o come cavolo ti chiami!»

«Javis!» la interruppe il ragazzino, contrariato.

«Javis, sì! Beh, non capisco perché dobbiate correre dietro a questo stronzetto!»

Quello che tutti capirono, invece, fu una cosa. James Saunders si lasciava offendere solo da Lucy Hager. Andy, e Trevor vattelapesca Janis, si guardarono. Avevano scoperto il punto debole del loro leader. Ogni capo ne ha uno. Il suo era costituito da una ragazzina, in carne e ossa. Passò tra di loro come se niente fosse, prese la sua bici. Robert Jr. la seguì, a testa alta, ricevendo una spallata leggera dal nemico.

«Fallito», disse James. Tanto non finisce qui, pensò tra sé. O forse era finita proprio lì. Che reputazione poteva costruirsi, il rampollo Saunders, dopo quell’episodio?

Nella strada di ritorno, Robert Jr. e Lucy continuarono a parlare di James. Passarono le fabbriche. Due, nei dintorni di Jessup. Se c’era una cosa su cui il ragazzo aveva ragione, era l’imminente espansione dell’azienda di suo padre. Avrebbe aperto a breve in tutto il Kansas. Ciò che lasciava perplessi era pensare al piccolo James a capo di tutto. Ma forse, come ebbe a pensare Lucy, il ragazzino non avrebbe avuto la stoffa.

«Non devi lasciarti intimorire da quello», disse.

«Sei stata brava.»

«Macché!»

«A chiamarlo stronzo! Sei stata brava.»

«È quel che si merita», sentenziò Lucy. «E poi mi chiama “piccola”, dannazione!»

«Ti da fastidio?»

«Mi urta i nervi!»

Pedalavano lentamente. Lucy si voltava spesso verso Robert Jr., che non spostava mai lo sguardo dalla strada. Il ciuffo davanti agli occhi si lasciava cullare dal vento fresco. I suoi lineamenti delicati si distinguevano dal paesaggio piatto e ripetitivo. Dalla pianura Robert Jr. non aveva preso nulla.

«Secondo me un giorno ce la farai.»

«A fare che? Picchiarlo? Non credere che…»

«No, che dici!» disse Lucy, ridendo. «Ad andartene di qui. Sei in gamba, Robbie! Troverai un buon lavoro. O magari, che so, metterai su una band!»

«Dici?»

«Sicuro!» esclamò Lucy. «Ti vedo, sai, come osservi tutto. Io non ci trovo niente da osservare, qui attorno. Eppure tu hai occhio per tutto. È un buon segno, troverai la tua strada!»

«A me pare di guardare solo le nuvole», disse allora Robert Jr., sorridendo. Si voltò verso Lucy per la prima volta da quando era salito in sella.

«Guarda quella!» disse poi.

«Che ha?»

«Sembra come una specie di paesaggio. Mi par di vedere una cartina, sai, come una cartina geografica, di quelle che abbiamo a scuola, e…»

«Lo vedi?»

Robert Jr. rimase in silenzio. Lucy si era accostata a lui, quasi agganciando la sua bicicletta per andare alla stessa velocità.

«Io non avrei mai pensato una cosa del genere.»

«È più forte di me.»

«Andiamo, su» disse quindi Lucy, regalando l’ennesimo sorriso. «È ora di tornare a casa, nuvola!»

Lucy abitava alle porte di Jessup. Viveva con i genitori, sebbene ultimamente ci fosse aria di divorzio. Si era abituata alla stessa vita di Robert Jr., la vita da bicicletta. Per i campi, per le strade deserte, lo stagno, qualsiasi zona a parte il recinto di casa. Fu per questo che si affezionò moltissimo a Robbie. Gli disse che l’avrebbe accompagnato.

«A casa ci sarà il compagno di mia madre», disse lui.

«E con questo?»

«Non è un bello spettacolo, Lucy.»

«Ti accompagno alla porta, poi me ne torno indietro. Se ti va ci vediamo il pomeriggio.»

«D’accordo.»

Robert Jr. era sempre d’accordo su tutto. Non che parlasse molto, ma non diceva mai di no. Lucy aveva notato ogni suo particolare. Dalla pedalata pigra, che poi si accendeva, alle mani ferme, lo sguardo profondo, la pelle chiara. E poi il ciuffo, ovvio. Era affascinante quanto riservato, ma le piaceva così com’era. Lei, in confronto, si sentiva molto più insignificante. I capelli che non si decidevano mai a stare in ordine, le lentiggini da bimba, e la fronte ampia ma senza pensieri, almeno così credeva chi non la conosceva veramente.

«Ci siamo, nuvola!»

«E smettila», disse Robert Jr., con una smorfia di simpatia sul volto.

«È ora di atterrare!» disse Lucy, modulando la voce. Lo prendeva in giro. Lo faceva per aiutarlo. Immaginava cosa provasse. Non era piacevole tornare a casa senza sapere cosa lo avrebbe aspettato. Lucy sminuiva sempre il problema, ma Robbie aveva ragione. Tutti ne parlavano.

Emily giocava. Emily di qua, Emily di là. Ha speso questo, ha speso l’altro. Non si reggeva in piedi. Cose di questo genere, ogni volta che si entrava in argomento. Da qualche settimana la passava a trovare tale Mike, tizio poco raccomandabile. Come la sua tenuta di vita, comunque.

«Dove diavolo è finita?» urlava dall’interno.

«Se vuoi resto a farti compagnia», disse Lucy.

«Non ti preoccupare. Ci vediamo dopo. Non si accorgeranno nemmeno.»

Guardava il viso tondo, ricco di speranza, della sua amica. La ringraziò con gli occhi. E con il silenzio, rotto appena dopo da un altro urlo disumano. Emily sembrava non essere in casa. Era lì, ma pareva non ci fosse.

Robert Jr. entrò, cercando di non farsi notare. Mike lo vide subito. Si fermò a riflettere per un istante a cosa potesse servirgli il ragazzo.

«Ehi, hai visto dove ha messo la sua busta rosa?»

«Sono appena rientrato…»

«La sua busta, la solita che porta sempre! Tu l’hai vista?»

«No. Non mi pare proprio.»

«Che cazzo sta succedendo qui?» disse Emily, in evidente stato confusionale. Sembrava essersi appena alzata dal divano. Gli occhi faticavano a rimanere aperti. Con la mano destra si toccava la fronte. Era pallida da far spavento. I capelli raccolti esaltavano il viso, simile in tutto a quello di suo figlio, che la guardava tra speranza e sconforto.

Sopra il tavolino del soggiorno vide un paio di bottiglie. C’erano anche dei flaconcini, e delle pillole cadute sulla moquette. Il divano era in disordine. Tutta la casa era in disordine. Mike continuava la sua personale battaglia, con Emily nel goffo tentativo di tranquillizzarlo. Sembrava non ci fosse motivo di alzare la voce, ma Mike non voleva sentire ragioni.

«È tutto a posto, Mike. La troveremo. Torna a stenderti con me…»

Ma non ne voleva sapere. Robert Jr. vide negli occhi di sua madre una certa tranquillità. Non sembrava preoccupata. Si leggeva nella sua espressione il trascorrere sereno delle ore precedenti, sicuramente sdraiata, sotto l’effetto delle pasticche che aveva ingoiato.

Robert Jr. la salutò. Lei le diede il solito buffetto sulla guancia. Cominciò a cambiare espressione. Sarebbe passata dalla calma all’agitazione, alla fase che suo figlio conosceva bene, e che voleva evitare di rivedere.

Forse era meglio quando andava a cercarla per i bar, pensò. Magari dal vecchio Charlie, che era sempre gentile con lui. Entrò nella sua camera. Schivò la batteria, che occupava l’ingresso, e si mise a letto, cercando di non ascoltare. Ma era impossibile. Le pareti sottili sembravano assottigliarsi a ogni grido. Robbie credeva che un giorno le avrebbe viste accartocciate al suolo, così da perdere anche il minimo di intimità di cui aveva bisogno.

«Sei la solita stronza! Rovini sempre tutto, Cristo!»

«Mike, io non ci avevo…»

«Pensato?» sbraitò lui. «Non avevi pensato a quanto ne avessi bisogno?»

«Dai, torna qui con me, mettiamoci seduti.»

I battiti del cuore di Robert Jr. scandivano il tempo. Lo sentì pulsare forte, nel petto. Pregò di non udire altri rumori. Guardò dalla finestra la canonica, poco più in là. Padre Dawson era fuori città. Era andato a tenere un seminario, o almeno così aveva capito il ragazzo. In qualche maniera Robert Jr. credette di farsi sentire. Da padre Dawson, da Dio, dagli angeli o da chissà quale altro elemento degno della sua attenzione, perché in soggiorno smisero di urlare.

«Piano… Piano…» sussurrava sua madre. «È di là, ci può sentire…»

«Ha la batteria, no? Digli che suoni quella cazzo di batteria!» disse lui, ridendo. Rise anche Emily.

«Almeno andiamo a ritmo!» Giù a ridere ancora. Tutti, a parte Robert Jr., appollaiato sul suo materasso, con i piedi a toccare uno dei tamburi.

Cercò di pensare al ritmo migliore, perché a pochi metri di distanza i rumori cominciavano ad essere fastidiosi. I gemiti di sua madre si mescolavano al vigore frustrato di Mike. Un omone rozzo e sudato, che portava sempre una canottiera sporca. Da qualche tempo si era lasciato crescere i capelli, raccolti a coda di cavallo.

Di criniere di cavalli ne aveva viste tante, in vita. Aveva lavorato in molte fattorie, girato diverse contee, e un paio di stati. Ne sapeva abbastanza del suo lavoro. Se chiedevi a Michael Latham qualcosa sulla terra, come lavorarla e mantenerla, lui sapeva risponderti. Ma si era innamorato anche della droga. E in quel momento sapeva solo nitrire come i tanti cavalli del suo passato. Con la coda di capelli a roteare per il soggiorno, e la succube Emily ad assecondarlo, stesa sotto di lui.

«Piano! Ti ho detto piano!» gridò lei.

La insultò. Robert Jr. credette di udire il suono di uno schiaffo. Credette, perché era abituato a dare una seconda possibilità alle tragedie. Lo aveva sempre fatto. Per ogni occasione spiacevole, Robbie si fermava a contare i secondi, come se una frazione di tempo, di silenzio o attesa potessero cancellare un episodio negativo.

«Me ne vado, mi hai rotto!»

Ancora il silenzio a rispondere. Se parlava il silenzio, c’era poco da stare tranquilli. Robert Jr. si rese conto di avere ben compreso cosa fosse appena successo. Si era alzato dal letto, aveva aspettato il rumore dell’uscio di casa. Mike se ne era appena andato. Aprì appena la porta di camera sua. Diede un’altra occasione al male di sparire, come per magia. Ancora silenzio. Poi un gemito, e questa volta non di piacere, o presunto tale. Il suono arrendevole delle lacrime.

«Mamma?»

«Robbie…»

«Va tutto bene?»

Idiota, si disse con tutte le forze. Come vuoi che vada, si disse. La realtà era che Robert Jr. non conosceva affatto sua madre. Non sapeva se amasse Mike, se amasse la sua vita, se fosse indifferente ai suoi problemi, al maledetto videopoker, alla busta che il suo compagno drogato aveva cercato, e per il quale era diventato violento. Non sapeva se avesse tratto piacere dal breve rapporto sul divano con lui, prima dello schiaffo. Aveva suo figlio, disorientato davanti a lei, mentre cercava maldestramente di ricomporsi.

«È tutto a posto, Robbie. Sto bene», disse, asciugandosi una lacrima. «Non è nulla. Mike è tanto buono, Robbie, lo ho fatto arrabbiare. Non avrei dovuto.»

Se non era James Saunders, era Mike Latham, la criniera venuta dal nulla. Tutti mettevano le mani addosso. Tutti pensavano di poter fare ciò che desideravano, con le loro mani. Vide il burbero camminare verso la macchina, dalla finestra. Ancora la canottiera, la giacca tenuta con una mano, e i jeans sporchi da lavoratore. Solo che non aveva lavorato per niente.

Emily tornò in sé, e si sentì in colpa. Pensò di andare al bar, a giocare qualche decina di bigliettoni che il suo Mike le aveva lasciato. Era lì che si sentiva bene, perché non pensava più a niente. Ma c’era Robert Jr., con lei. A volte lo vedeva, altre no. In quest’occasione lo vedeva bene, accanto a sé, per consolarla.

Robert Jr. girava la testa verso l’altra finestra, a intervalli regolari. Se ne è andato a un seminario, ripeteva la sua mente. Padre Dawson era detestato da sua madre, ma non da lui. E Robbie lo ammirava così tanto, perché nessuno metteva le mani addosso a lui. O forse perché era l’anello di congiunzione con il vero vuoto della sua vita, un vuoto più vuoto di Jessup alle due del pomeriggio, suo padre Robert Maynard.

Lui, rintanato nel suo nido dell’Alabama, continuava a pensare al colpo. Ci stava pensando anche in quel momento esatto. Sì, mentre Robert Maynard Jr. si apprestava a sedere sulla batteria, dopo un diverso abbraccio con sua madre e un ti voglio bene, Robert Maynard pensava al colpo.

Le banche. Così dannatamente spietate, così dannatamente indispensabili. Aveva conosciuto molta gente che si era rovinata, per via delle banche. Altri, invece, avevano tenuto da parte un bel gruzzolo, in banca. C’erano aspetti positivi, a pensarci, e altri non proprio raccomandabili. Al diavolo, si diceva poi Robert, io ho bisogno di soldi. Con il tesoretto messo da parte dopo il colpo alla Guaranty si sarebbe finalmente inserito nei binari giusti.

Kim? Si sarebbe inventato qualcosa. Lei avrebbe capito. Sarebbero partiti. Avrebbero avviato un’attività, o investito, e soprattutto cancellato un passato di sacrifici.

L’unico problema era costituito da Joe. Non che per Tommy Barger, l’altro compare, avesse particolari simpatie. Però era un tipo a posto, che ci teneva al lavoro, e che sarebbe sparito per godersi il suo denaro. Joe preoccupava di più, in effetti. Sempre quei modi troppo confidenziali, sempre l’impressione di un retro-pensiero su tutto.

Robert parlò con Kimberly al telefono. Le disse di star bene, di aver bisogno di uscire con gli amici. Per Kim andava bene. Svegliatasi in pieno pomeriggio, dopo un faticoso turno notturno in reparto, decise di andare a trovare sua madre. Si sarebbero visti il giorno seguente. Certo, Kim non sospettava cosa Rob avesse in mente.

Da casa sua a casa di Joe ci si impiegava un’ora abbondante. Le strade dell’Alabama assecondavano i suoi pensieri, liberi di circolare all’interno dell’abitacolo. Si riferivano ai dettagli. Avevano studiato la mappa della filiale. Era così poco sorvegliata, pensava Robert, da invitarli in prima persona alla rapina.

Una volta arrivato, si accese una sigaretta prima di entrare. Era diverso fumare per nervosismo. Era l’opposto di quando fumava dopo un incontro intimo col suo angelo nero. Meglio non pensarci, si disse, dopo essersi divorato quasi anche il filtro. Ai suoi compari non piaceva il nero, e non era il caso di ricordarsi quanto barbari fossero. Perché, in fondo, gli servivano. Un colpo, e poi via a farsi una nuova vita, e dimenticare Dolan così come aveva dimenticato Jessup.

Joe lo accolse con una gioia a trentadue denti. Dava l’idea di essere più imponente di quanto già fosse, quando rideva. Non si era rasato, e aveva subito chiesto a Robert se la barba gli avrebbe conferito un’aria da rapinatore. Scherzando, ovviamente. Era solo per “rompere il ghiaccio”, come amava dire lui.

Tom arrivò poco dopo. Piccolo di statura, capello lungo ma non troppo, volto gentile e occhio vispo. Se qualcuno li avesse ritratti assieme, avrebbero dato l’impressione di un’allegra combriccola di scapoli donnaioli, con pochi pensieri per la testa. Di pensieri, però, ne avevano eccome. Li dispensarono uno ad uno, nel complicato compito di preparare il colpo.

La filiale si trovava ad Arlington, in un luogo sufficientemente distante dalle loro abitazioni, e quindi, a detta di tutti, dai sospetti iniziali. Un colpo in banca lontano da casa metteva i soggetti a proprio agio, in antitesi con la teoria secondo la quale occorreva nascondersi nella tana del lupo. Questi e altri termini furono adoperati da Tom Barger con persuasione. I suoi compagni lo ascoltavano con attenzione. Un ladro poco convinto non sarà mai un ladro, disse Tom.

A Robert ogni frase ad effetto di Tom fece venire in mente la sua Kim, quando gli parlava del caro vecchio Sam Haynes, suo compianto padre. Che uomo, pensava tra sé, a sentire tutti gli aneddoti che la sua ragazza aveva dispensato nel tempo in cui si erano frequentati.

«Bob, mi senti?» chiese Tom.

«A lui piace essere chiamato Rob», disse Joe.

«Certo», rispose Robert.

«La sfasciacarrozze è d’accordo con me, ma ci dobbiamo andare tutti assieme.»

«Non c’è problema. Via la macchina, via i sospetti.»

Passarono in rassegna i nomi dei dipendenti, le loro abitudini, la guardia sovrappeso che avevano individuato come tallone d’Achille, e i possibili testimoni lungo la strada. Pochi negozi, poco passaggio, tanta indifferenza per lo più, ma in casi del genere non sai mai cosa ti capita, disse ancora Tom, innamorato della sua parlantina quanto del suo pericoloso lavoro.

Mangiarono tacos e li ammazzarono con la birra, la giusta quantità per rimanere lucidi e continuare a preparare il piano. Arrivarono a parlare del loro aspetto. Sarebbe stato sobrio, comune, con una bella maschera sul viso, di sicuro meglio di una bandana qualunque.

«E se poi ci da fastidio?» obiettò Joe.

«Saremo fuori prima ancora che te ne renda conto, Joe», disse Tom.

«Che proponi, i presidenti? Sei troppo bello per appiccicarti un Nixon sulla faccia.»

«Porta sfiga.»

«Mica ci faremo beccare come lui.»

«Questo è fuori questione.»

«Già», disse Joe. «Dimenticavo che tu fossi dell’altra squadra.»

«Io non sto per nessuna cazzo di squadra! La politica è politica, ruba alla luce del sole. Noi, invece, ci dobbiamo nascondere.»

«Niente presidenti, capito. Viva il caro vecchio passamontagna!»

Continuarono fino a notte inoltrata. Robert fu silenzioso più degli altri, ma sempre attento, e propositivo quanto bastava. Se ne andò da casa di Joe sollevato per aver avuto le sue conferme: i suoi compari non erano l’ideale della simpatia, ma ci sapevano fare. Occorreva sporcarsi le mani appena un po’ per rimanere puliti negli anni a venire.

Quella stessa sera, intanto, padre Dawson tornava dal seminario. Aveva tenuto diversi discorsi sulla comunità, sull’importanza del dialogo, del rispetto, del perdono. Il perdono che Gesù Cristo aveva dispensato su tutta la Terra non lo aveva mai visto in dote a nessun uomo, ma continuava a sperarci, poiché questa era la sua missione.

Per combinazione, aveva pensato al suo vecchio amico Robert proprio nella strada di ritorno. Cercò di ricostruire l’intreccio dei suoi ricordi, e capire come fosse arrivato a Rob. Probabilmente era stata la preghiera ai ragazzi della sua comunità, tra cui Robert Jr., che abitava poco distante da lui e sua moglie Kirstie.

«Come è andata, tesoro?» le chiese lei, appena rientrò.

«Come al solito, amore. Non mi ascolta nessuno.»

«Sempre il solito Carl!» esclamò lei. «Ti preparo qualcosa.»

Padre Dawson cenò rapidamente, alzando e abbassando lo sguardo sul pensiero costante di quel ragazzino. Kirstie lo notò. Parlarono di Emily, naturalmente. Emily di qua, Emily di là, proprio come facevano tutti.

«Lo vedo in chiesa, ogni tanto. Accosta la bici. A volte entra, altre no. Credo che ti cerchi.»

«Cerca Dio, Kirstie, non me.»

«Parla con lui.»

«Lo hai mai sentito suonare? Picchia come un fabbro!»

«È per via di Emily. Meglio così.»

«E chi ha detto che è un male?» riprese a dire padre Dawson. «Anche io ho trovato Dio picchiando. È stato molto tempo fa, lo sai bene. E ripensavo proprio a quello, in macchina. Ripensavo alla Florida, ripensavo alla strada.»

Kirstie lo guardava con la solita dedizione. Era innamorata della sua storia, compresi i giorni trascorsi nei quartieri di Tampa, molto prima di compiere il suo destino.

«Ripensavo a Rob.»