Si era ritrovata lì, in quella stradina che sembrava dimenticata perfino da Dio, senza ricordarsi il percorso. Il temporale l'aveva condotta a cercare riparo in quei vicoli, talmente stretti, che perfino la pioggia sembrava non riuscisse a scendere. Il forte maestrale la portava a infrangersi sulla parte alta dei palazzi, per poi calare lungo i muri di pietra ormai ricoperti da un sottile strato di muffa che, man mano che si avvicinava al suolo, diventava sempre più verde e folta.
Neanche il sole riusciva a filtrare fino al livello del manto stradale. L'odore di muffa, unito a quello dei cani che marcavano il territorio, rendeva l'aria irrespirabile. I polmoni sembrava volessero rifiutarsi di accettare quell’olezzo, mentre i muscoli reclamavano l'ossigeno per muovere il suo corpo.
D'improvviso, lo sbattere incessante di una porta in legno, attirò la sua attenzione. Accelerò il passo sperando di trovare un riparo per il suo corpo freddo e dell'aria più sana per i suoi polmoni.
Gli ultimi passi in apnea la condussero nel vestibolo di un negozio di cui non riusciva a capirne la natura del commercio. L’aria pesante dell’esterno era addolcita da un’essenza di incenso, non riusciva a decifrarne le sfumature; un perfetto equilibrio di quello che sembrava essere bergamotto e cannella con un leggero sentore di mentolo. Sicuramente le stava aprendo i polmoni e il riparo acquisito, prima dell’ingresso nel locale, le permise di togliere il cappello di lana che la proteggeva dal freddo e dall’acqua. Lì, ferma in attesa che il tempo le permettesse di proseguire il cammino, decise di entrare.
I settori che provenivano dall’interno e la poca luce che filtrava, ebbero la meglio sulla sua curiosità.
Il calore interno del negozio esaltava i profumi che aveva percepito dall’esterno. Il bergamotto era sicuramente più forte mentre il retrogusto di cannella, dava un senso d’Oriente all’atmosfera, l'ultima nota di mentolo aprì definitivamente i suoi polmoni.
Ripreso finalmente sollievo con l’olfatto, la tenue luce interna le permise immediatamente di ambientarsi con la vista; in mancanza di lampadine, la luce sembrava essere affidata esclusivamente alle candele.
Due immensi candelabri pendevano dal soffitto, sorretti da funi di semplice iuta fissate alle pareti con delle bitte in legno, che probabilmente servivano al proprietario per calarli e provvedere al cambio dei moccoli di cera.
Ogni candelabro contava tre cerchi concentrici con sei moccoli per ogni circonferenza.
Alcuni portacandele occupavano le superfici piane dei tavoli e delle credenze che riempivano la sala. Quello che all’apparenza le sembrava una sistemazione disordinata, presto le apparve come una perfetta distribuzione dei punti luce; tutto il negozio le appariva perfettamente illuminato; nessun angolo rimaneva nascosto o in penombra.
Qualcosa, però, le creava un senso di disagio. Delle strane ombre si disegnavano tra i fumi degli incensi e sulle pareti; ci mise poco a trovarne la fonte.
Su ogni parete spiccavano dei Gargoyles. In breve tempo si ritrovò col pensiero sotto la cattedrale di Notre Dame, dove li aveva potuti osservare per la prima volta.
Anche allora la giornata era uggiosa e quelle figure animalesche le avevano procurato un po’ di ansia, quasi sfumate dalla nebbia parigina, non smettevano di osservarla; sembrava che riuscissero a tenerla sotto controllo, qualsiasi fosse la direzione che prendeva.
Ora la sensazione era diversa, forse anche più inquietante.
Quelle sculture erano vuote e dei piccoli lumini, posti al loro interno, proiettavano delle ombre agghiaccianti, filtrando la luce attraverso le fessure degli occhi e delle bocche.
Non aveva ancora terminato la conta di quelle creature, quando una voce la sorprese alle spalle.
«Buongiorno signorina, posso aiutarla?»
Presa alla sprovvista, sembrava non riuscisse a rispondere. Quella figura maschile spiccava nel locale, sembrava quasi stonasse.
La superava di almeno una ventina di centimetri: una folta capigliatura mossa delimitava un volto delicato dalla mascella appena accennata ed il taglio degli occhi sottile racchiudeva delle iridi scure che quasi rendevano impossibile individuarne le pupille. La corporatura slanciata, nascosta sotto un leggero trench di pelle nera, lo rendeva definitivamente affascinante.
«Mi scusi, ero entrata per trovare riparo, in realtà non cercavo nulla di particolare.»
«Se ha qualche domanda, sono a sua disposizione.»
«Mi incuriosisce questo antiquariato, da dove viene?»
«Per lo più sono pezzi di cui non conosciamo la provenienza originale. Molte persone se ne liberano dopo aver ristrutturato vecchi casali o semplicemente dopo aver cambiato un arredamento.»
Il sapere che parte di quella merce fosse appartenuta a persone comuni, le diede una sensazione di tranquillità che non riusciva a spiegarsi; sicuramente le rendeva meno anonime.
«La maggior parte dei mobili arrivano in condizioni disastrose, noi provvediamo a ridargli il loro antico splendore, riportare fuori la loro anima e consentirgli una seconda vita. Consideri signorina che molti dei nostri clienti finali, restano così meravigliati del nostro lavoro che poi ci chiedono di restaurare antichi mobili di loro proprietà.»
«Lei però non mi da l'idea del restauratore, sembra molto giovane.»
«Effettivamente ad occuparsi del restauro è un vecchio falegname. Il mio compito è andare alla ricerca di pezzi unici, fatti a mano, dove valga la pena vendere l'anima al diavolo per riportarli in vita.»
«Addirittura vendere l'anima al diavolo, non le sembra di esagerare con il paragone, sono pur sempre mobili.»
«Beh signorina… mi scusi non mi sono ancora presentato, piacere Olaf.»
«Piacere, il mio nome è Catarina.»
Il ragazzo delicatamente portò il dorso della mano all'altezza delle labbra e senza toccarlo lo baciò fissandola negli occhi; quel gesto così galante la fece sorridere.
«Ci trova da ridere signorina Catarina?»
«Mi scusi, sono gesti che non si vedono più, non era un sorriso di scherno, ma di compiacimento.»
«Allora mi perdoni se ho pensato male.»
«Visto che ora ci siamo presentati, che ne pensi di darci del tu?»
«Come preferisci Catarina… tornando alla mia citazione… sai ci sono molte voci in merito alla vendita dell’anima al diavolo. Per molti è solo superstizione, per altri è una leggenda, tuttavia si narra di uomini che l’hanno venduta per interessi economici o per la guarigione e la vita di persone care. Lei cosa farebbe se avesse l’opportunità di poter fare qualcosa che duri in eterno o possa salvare la vita di un familiare?»
«Sinceramente non mi sono mai posta questa domanda. Quindi mi vuoi far credere che hai venduto l’anima al diavolo per ridare vita a vecchi mobili e far in modo che durino in eterno? E così, con loro, il suo nome?»
«Ma no, anche perché chi restaura i mobili è il vecchi falegname; io, al massimo, potrei essere il diavolo.»
Pronunciate quelle parole, tutte le fiammelle sembrarono aumentare la loro intensità. Quelle all'interno del gargoyle di fronte al ragazzo, proiettarono l’immagine della creatura animalesca sul suo volto. Tutto d'un tratto quel viso così rassicurante ed affascinante le apparve sinistro.
Olaf percepì quel senso di disagio.
«Tranquilla Catarina, si fa per dire.»
Le candele erano tornate al loro normale tremolio e lei si convinse che l'oggetto della discussione unito all’ambiente così suggestivo, le avessero giocato un brutto scherzo. Cercò subito di spostare il tema del discorso.
«Favole a parte, prima ho notato quel bel leggio sul tavolo. Quanto costa?»
«Guarda è un pezzo pregiato. Al suo interno abbiamo trovato degli intarsi raffiguranti stemmi nobiliari, ma non siamo riusciti a risalirne alla casata. Sulla parte frontale, invece, c'è questa scena di lotta tra quello che sembrerebbe essere un angelo ed un diavolo, come a simboleggiare l'eterna lotta tra il bene ed il male. A me piace pensare alla giornaliera diatriba tra le scelte che non si sa mai dove ci porteranno.»
«Ecco l’ultima spiegazione la preferisco, la trovo meno inquietante; ma ancora non mi hai detto il prezzo.»
«Il prezzo di vendita è di trecento euro, ma potrei lasciartelo a duecento ottanta euro.»
«Cosa? Per quella cifra pago qualcuno che me lo legge un libro, anche se devo ammettere che è molto bello e particolare.»
«Capisco che può sembrare una cifra esagerata, ma è un pezzo unico. Il tronco da cui è stato ricavato, doveva essere enorme. Se lo guardi attentamente, noterai che non ci sono giunture, sono pezzi di legno interi. Pensa a quanto lavoro sarà servito solo per fare la base con i piedini con un solo pezzo di legno, a quanto doveva essere vecchio l'albero per poter permettere questo lavoro. Senza parlare degli intarsi, credimi, non posso dartelo a meno.»
«Va bene, ci penserò. Posso attendere qui che diminuisca la pioggia?»
«Certo Catarina, posso offrirti un po' di tè caldo?»
«Siamo sicuri non sia fatto dal diavolo? Dopo i discorsi di prima, non mi stupirei.»
«Come minimo è fatto da lui in persona.»
Insieme scherzarono su quella parte del discorso, per creare un’atmosfera più tranquilla.
Olaf le servì la bevanda fumante su un vecchio tavolino davanti ad un divano in stile barocco invitandola ad accomodarsi; la seduta era così comoda che ci sprofondò dentro.
Man mano che la bevanda scendeva nel suo corpo si sentiva sempre più rilassata.
Il tema della discussione era cambiato più volte, finalmente si sentiva a suo agio e in poco tempo si accorse di non riuscire a distogliere lo sguardo dalle sue labbra. Mentre le parole fluivano i loro volti si avvicinavano sempre di più, fino a quando lei appoggiò le sue labbra delicatamente su quelle di lui.
L’istinto la portò subito a ritrarsi.
«Scusa non so cosa mi sia preso», cercando di mascherare il suo imbarazzo in un altro sorso di tè.
La bevanda, ormai tiepida, le permise una lunga sorsata e qualche secondo in più per riflettere.
«Non preoccuparti, non è successo nulla di così compromettente.»
Mentre pronunciava quelle parole, Olaf la fissava negli occhi.
Catarina non riusciva a capire se il calore che la invadeva fosse causato dalla bevanda o da quello sguardo magnetico.
Olaf capì che la ragazza stava cedendo, le sue difese stavano crollando come mattoni sotto il peso del suo sguardo.
Senza rendersene conto si ritrovò sdraiata sul divano con l’angioletto alla sua destra che la implorava di fermarsi, di non cedere, ma la voce demoniaca alla sua sinistra era più forte e lei aveva sempre ceduto ai suoi consigli.
«Però dopo posso considerare il leggio mio?» Furono le ultime parole che riuscì a proferire, prima di cedere definitivamente.
Olaf acconsentì con un sorriso.
«Il tuo corpo e tutto ciò che ne deriverà, per quel leggio? Va bene, contratto firmato?»
Lei, a suggellare quella firma, gli tolse la camicia con cui era rimasto, passò le mani su quel petto scolpito con una peluria appena accennata, poi, dopo aver portato una mano dietro la sua nuca, lo tirò a sé.
Le sembrò di fare l’amore sospesa nel vuoto, Olaf la stava portando a spasso nel tempo e nello spazio; nei brevi istanti in cui apriva gli occhi, non le sembrava neanche di riconoscere quelle pareti, finché, trovandosi davanti al sole, non si sentì riempire di calore mentre il suo corpo non smetteva di tremare.
Quando si riprese, le fiammelle sembravano più vive ed il suo amante la osservava con un’espressione compiaciuta.
Lei era un bagno di sudore, lui sembrava non ne avesse versata neanche una goccia.
Il suo respiro era ancora affannato, lui tranquillo come se avesse sorseggiato l’ultima tazza di tè.
Anche se sudata e con il fiato corto, si sentiva rigenerata.
Il tempo oramai era migliorato; la pioggia non si sentiva più ed il vento aveva cessato di fischiare tra i stretti vicoli.
Con lo sguardo malizioso si ricompose, bevve un ultimo sorso che le sembrò avesse cambiato sapore.
«Spero che non ti rimangerai la promessa: il leggio è mio, vero?»
«No Catarina, un contratto è un contratto e tra persone d'onore non serve una firma, basta la parola; il leggio per il tuo corpo e tutto ciò che ne deriverà, questo era il patto.»
«Beh, direi che ne sono derivate davvero belle emozioni.»
«Sono felice che la pensi così, potrebbero non essere finite qui.»
«Per ora direi di sì, in futuro chissà. Potrei tornare a comprare altro e firmare nuovi contratti.»
Olaf le portò una semplice sacca di juta che sembrava esser stata creata su misura per quell’oggetto. Lei strinse i due cordoncini e felice si avviò verso la strada. Arrivata sulla soglia si girò per un'ultima volta in sua direzione, ma era già sparito da dietro il bancone.
Passò tranquillamente i giorni successivi, non fosse stato per quell’articolo così particolare, si sarebbe presto scordata di quell’avventura, come già aveva rimosso quelle precedenti in cui si era concessa per molto meno.
Dopo qualche settimana quella tranquillità si affievolì, fino a tramutarsi in smarrimento al prolungarsi del suo ritardo mensile. Lo smarrimento si tramutò in vera e propria paura alla scoperta dello stato di gravidanza.
Percorse la strada verso la bottega con innumerevoli punti interrogativi; non sapeva come dirlo a lui e ciò che più l’attanagliava era la sua possibile reazione.
Si era preparata ad ogni eventuale risposta e situazione tranne quella che si trovò di fronte.
Varcata la soglia della porta, cercò di attirare l'attenzione dell'unica persona presente all'interno del negozio.
«Buongiorno, cercavo Olaf. Può chiamarlo per favore?»
«Buongiorno signorina, il signor Olaf non è qui al momento»
«Sa dirmi quando tornerà?»
L'uomo anziano prese un'agenda da sotto la scrivania. Più che un’agenda le sembrarono dei fogli in carta di papiro sparsi, contenuti in una cartellina di pelle.
Le mani secche e segnate da cicatrici, li sfogliavano con fatica; immaginò dovesse essere il vecchio falegname.
«Dai giri che aveva programmato, non credo prima di nove, dieci mesi.»
Quelle ultime parole, pronunciate con voce roca e flebile, le pesarono come macigni.
«Come nove dieci mesi? Io ho bisogno di parlare con lui immediatamente, non posso aspettare tutto questo tempo. Posso lasciarle un recapito, in modo da riferirglielo quando lo sentirà e farmi contattare urgentemente?»
«Va bene ma non so quando sarà possibile, solitamente chiama una volta al mese per sapere se ciò che ha spedito è arrivato e in quali condizioni, ma io non ho nessun recapito per contattarlo.»
«Gli dica che Catarina è passata, doveva parlargli disperatamente e di richiamarmi a questo numero.»
Mentre si avviava verso la porta e si girava per salutare il falegname, ebbe l’impressione che le fiamme aumentassero di intensità al suo passaggio, per poi tornare alla loro normale forza.
Di ricambio ricevette un timido sorriso, ma da lontano quella figura le sembrò diversa; le cicatrici meno vistose ed il suo volto con meno rughe, come ringiovanito. Passò qualche secondo prima di rivedere la stessa persona che fino a pochi minuti prima stava sfogliando quei fogli ingialliti.
Con il ritorno del normale crepitio delle candele, insieme alle cicatrici su quelle mani e alle rughe sul volto del falegname, pensò che lo stress degli ultimi giorni e la delusione di non esser riuscita ad incontrare Olaf, le avessero condizionato la vista ed i sensi.
Le settimane passarono senza notizie, Olaf sembrava svanito nel nulla. Ogni volta che si recava in quella bottega, riceveva sempre la stessa risposta: “Il signor Olaf ha detto che la contatterà appena possibile”.
Passarono i mesi; la pancia sempre più pronunciata e le domande degli amici sempre più scomode.
Il bambino al suo interno, sempre più agitato, sembrava trovar pace solo quando si recava in quella bottega, come percepisse il luogo del suo concepimento.
Il vecchio continuava a tranquillizzarla, Olaf gli aveva riferito che sarebbe tornato in tempo e si sarebbe assunto tutte le sue responsabilità. Ogni volta che Catarina parlava con lui, il suo volto e la sua voce erano rassicuranti; a volte le sembrava di rivedere e sentire lui, ma la verità era che non lo aveva più visto né sentito da quel giorno e forse neanche lo ricordava più.
Aveva ben impressi solo quegli occhi, così neri che sembravano contenere tutta l’oscurità del mondo.
Il giorno del parto arrivò; i dolori forti ed incessanti del travaglio l’avevano portata quasi a perdere i sensi più di una volta.
Imprecò contro Olaf, la sua assenza in quel momento, l’assoluta mancanza della sua voce a tranquillizzarla; non gliela avrebbe perdonata.
Aveva perfino pensato di non farglielo vedere quel bambino, sicuramente non gli avrebbe chiesto o concesso di riconoscerlo. Sapeva che la vita sarebbe stata difficile senza una famiglia alle sue spalle. Si sarebbe dovuta occupare da sola di lui, ma quell’uomo, che l’aveva lasciata sola in quel momento, non credeva meritasse l’appellativo di padre.
Aveva sperato di vederlo fino al momento dell’entrata in sala parto ma l’infermiera, che era entrata in camera per chiamarla, aveva sciolto anche quell’ultima speranza.
Tutte le tensioni e le paure si erano sciolte con il pianto del neonato.
Le urla forti sembravano far vibrare le pareti, addirittura le luci parvero dargli il benvenuto con una leggera intermittenza.
Finalmente potè abbracciarlo; in quel breve lasso di tempo in cui la lasciarono sola con il suo maschietto, gli parlò, gli diede il benvenuto e lo riempì amorevolmente di baci e carezze, poi lo ripresero per lavarlo e riportarglielo per la prima poppata di lì a poco, quando sarebbe tornata nella sua camera.
Lo stava ancora allattando quando la porta si spalancò.
Olaf era di fronte a lei; il trench nero, lo stesso che indossava la prima volta che lo aveva incontrato, sembrava volare dietro la sua camminata, seppur lenta. La lunga chioma danzava sulle sue spalle seguendo ritmicamente la sua andatura.
Senza chiedere il permesso o proferir parola, le si avvicinò e le tolse il bambino di braccio.
Il piccolo, di cui non aveva ancora scelto il nome, emise un piccolo pianto che si interruppe non appena vide quel volto maschile.
«Ridammi il mio bambino!»
Catarina diede forza a tutte le sue energie, non era contenta di rivederlo solo ora e quell’ultimo gesto le aveva incrementato quel senso di rabbia che aveva covato per tutto quel tempo.
«Il tuo bambino?»
«Si! Il mio bambino. Sei sparito tutto questo tempo, ora che pretese hai?»
«Come che pretese ho? Sono venuto a riscuotere l’ultima parte del nostro contratto.»
«Ma quale contratto? Cosa vai vaneggiando?»
«Il tuo corpo e tutto ciò che ne deriverà per il leggio… ricordi queste parole, vero?»
«E tu credi che questo bambino rientri nei termini del contratto: ma chi ti credi di essere?»
«Come chi credo di essere? Non lo hai ancora capito?»
Il suo volto scoppiò in fragorosa risata, in un attimo vide i suoi tratti tramutarsi prima nel volto del vecchio falegname, poi cambiare ripetutamente nei volti dei Gargoyles presenti nella bottega.
Solo allora ripensò a tutto quello che era accaduto in quel breve lasso di tempo, alla strana combinazione dei lampadari, tre cerchi con sei candele ognuno; 666.
Al suo corpo che sembrava non avesse fatto nessuno sforzo dopo aver fatto l’amore abbinato a quello sguardo compiaciuto.
La paura iniziò ad impossessarsi di lei, paragonata a quella del momento, quella provata nei mesi precedenti era nulla in confronto.
Quel viaggio spazio temporale durante l’amplesso, le era sembrato di passare tutti i continenti, per poi finire nella galassia vicino al sole.
Le luci iniziarono ad accendersi e spegnersi velocemente e lui rimaneva avvolto in una strana aurea rosso fuoco.
Lo spavento fu così forte che perse i sensi.
La notte una folta nevicata aveva ricoperto tutto il panorama esterno. Catarina aprì gli occhi, le sembrò di aver avuto un incubo, ma non lo ricordava.
Con la tazza fumante di caffè e latte, si sedette alla scrivania con di fronte la vista della vallata.
Aprì il libro poggiato sul leggio.
Era strano, non riusciva a ricordare né quando né dove lo avesse preso. Era molto bello, ma soprattutto le sembrava che, pagina dopo pagina, riuscisse a vivere in prima persona la storia che stava leggendo.