Un dollaro d’alluminio
«Dove le hai viste?» chiese Mohamed.
«Al cimitero, oltre la collina. Ce ne sono a decine», rispose Jalal.
«Le avevo trovate a nord, ma mai da queste parti.»
«Ti dico che è così», continuò Jalal. «Valmara 69, fabbricazione italiana.»
«Italiana?» chiese stupito Mohamed.
«Sì», disse Jalal, dopo aver bevuto un altro sorso di tè.
«Pensavo fossero…»
«Italiane! Ti ho detto che so quello che dico!» affermò con tono deciso Jalal.
Gli italiani erano solo dottori o volontari per i curdi del villaggio. C’era un ospedale, a pochi chilometri da lì, dove medici stranieri, in gran numero italiani, prestavano servizio per diverse associazioni. Ogni settimana qualche camion li riforniva di medicinali, provviste, a volte addirittura di qualche macchinario.
Mohamed si era stabilito nel villaggio da poco, per sfuggire al fuoco nemico che in breve tempo lo avrebbe raggiunto nuovamente. Era stato proprio un medico italiano a soccorrerlo, in fuga da Mortka, prima che arrivasse lì.
«Nessuno è mai realmente innocente», gli disse ancora Jalal. «Non sono solo medici. Quelle mine le costruiscono anche loro, così come tutti gli altri.»
Appoggiò ancora la tazza a terra, lo sguardo fermo. Mohamed vedeva in lui la paura di una guerra che credeva non sarebbe finita mai.
«Abbiamo bisogno di altri due uomini. L’ho già fatto una volta.»
«A chi pensavi?» gli chiese Mohamed.
«Omar, Ferhat», rispose subito Jalal.
Decine di bombe disinnescate potevano valere una fortuna. Da ognuna avrebbero ricavato una quantità di alluminio valutabile anche un dollaro. Avrebbero dovuto dividersi la somma, ma così facendo il lavoro sarebbe stato sicuro. Jalal non aveva nessuna intenzione di rischiare da solo. Ne aveva già visti provare a mettere le mani su quegli ordigni da soli, e non era finita bene.
«Ho bisogno di quei soldi. Quando lo facciamo?» chiese impaziente Omar.
Aveva solo vent’anni. Aveva passato tutta la sua vita tra i rumori delle bombe, delle mine, scappando da un nemico che non sapeva nemmeno perché volesse la guerra.
«Possiamo andare anche adesso», gli disse Jalal. «Mancano un paio d’ore al tramonto. Andiamo a vedere, domattina all’alba saremo lì di nuovo.»
Li aveva riuniti tutti. C’erano lui, Mohamed, Omar e Ferhat. Tutti uomini in forza, i migliori del villaggio. Jalal era il più anziano, con i suoi trentanove anni. La guerra lo aveva segnato profondamente, ma i suoi capelli grigi parlavano di saggezza, soprattutto agli occhi del più piccolo, Omar, sempre seguito dal fratello Majed.
«Ti ho detto di andartene!» gli urlò bruscamente. Il fratellino di sette anni prendeva tutto come se fosse un gioco. Non aveva ancora gli orrori della guerra negli occhi, non abbastanza. Omar questo lo sapeva. Non voleva lo seguisse, perché di bambini che si erano privati degli arti ne aveva visti a decine.
«Se non lo fai tu, allora ci penso io!» urlò Ferhat.
«Non c’è bisogno di perdere tempo con queste sciocchezze!» disse allora Jalal. «Fai allontanare subito questo bambino!»
Il piccolo Majed provava timore di fronte a quegli uomini. Suo fratello non riusciva mai a imporsi con lui, ma questa volta era diverso. Le espressioni di Jalal e Ferhat suggerivano di andarsene. Omar lo vide allontanarsi lentamente, ben sapendo a cosa stesse pensando.
«Gliela faccio passare io la voglia di seguirci! Ora andiamo», disse Jalal.
Percorsero il sentiero oltre la collina per raggiungere il cimitero. Era un territorio pericoloso, occorreva la massima attenzione. Un piede fuori di qualche metro, e una delle tante mine sarebbe subito esplosa. Mohamed teneva lo sguardo basso, seguendo ogni passo di Jalal.
Pensava al rumore delle bombe, e a quello delle mine. In realtà pensava a quante ne aveva viste esplodere tra le mani di vecchi amici che le avevano portate al villaggio come trofeo. Aveva la memoria intrisa del sangue di poveri ragazzi come lui che, troppo giovani per saperlo, avevano giocato con la curiosità fino a compromettere la propria vita.
Ripensò al piccolo Majed. Ogni tanto si voltava. Omar camminava a testa bassa. Mohamed sapeva che stesse pensando a suo fratello. Nessuno voleva che un altro bambino dovesse rovinarsi per colpa di quelle maledette mine.
«Ci siamo!» disse Jalal dopo essersi fermato.
Entrarono nel cimitero sfruttando gli ultimi raggi di sole. Jalal indicò ai suoi compagni tutti i punti dove erano nascoste le Valmara 69 delle quali aveva parlato. Se i calcoli erano giusti, doveva trattarsi di un totale di ventiquattro mine.
Riuscendo a disinnescarle, non solo avrebbero reso agibile quel territorio sacro, ma avrebbero anche ottenuto una buona somma.
«Un dollaro sicuro», disse Mohamed.
«Sì, ma occorre fare attenzione» ribatté quindi Jalal.
«All’alba ci mettiamo in cammino. Possiamo piazzare quei cilindri già dal giorno dopo», propose Ferhat. I suoi compagni lo guardarono annuendo. Tutti eccetto Mohamed, che si era fermato a guardare l’ingresso del cimitero.
«Qualcosa non va ?» gli chiese Omar.
«No, niente» rispose lui. «Andiamo. Sta per fare buio.»
Camminarono lentamente e in silenzio anche nella via del ritorno. Ormai tutti si muovevano alla perfezione, compiendo i passi necessari per arrivare incolumi. In ognuno di loro c’era la consapevolezza di appartenere totalmente a una terra che non avrebbero mai abbandonato.
Anche nel piccolo Majed vi era custodito questo piccolo sentimento. Sentiva che qualcosa stesse accadendo attorno a lui. Si parlava dei guerriglieri che sarebbero arrivati, prima o poi, sebbene lui non li avesse mai visti. E non aveva visto nemmeno una delle mine di cui parlava suo fratello.
Si svegliò prima di lui. Tenne gli occhi chiusi, e mantenne la stessa respirazione per non destare alcun sospetto. Omar cercava di sconfiggere il sonno pensando ai soldi che ne avrebbe ricavato. Avrebbe potuto mettere le mani anche su dollari americani, ma prima avrebbe dovuto farlo sulle mine del cimitero.
La squadra si ritrovò all’ora stabilita. L’ultimo ad arrivare fu Mohamed. Camminava lento e pensieroso come al solito. La testa bassa e gli occhi timidi lasciavano intravedere tutta la sua paura.
«Siamo tutti. Possiamo andare», disse quindi Jalal. Si mise in testa al gruppo. Le luci tiepide dell’alba scaldarono la collina durante il percorso. Era una terra meravigliosa, se solo uno di loro si fosse preso del tempo per guardarla.
A osservarli, distanziato a circa venti metri, il piccolo Majed. Sapeva bene come stesse correndo un pericolo. Ma sentiva di poterli seguire senza farsi vedere. Avrebbe visto come si faceva, e si sarebbe sentito proprio come Omar. Mohamed, nel frattempo, si fermò tutto d’un tratto.
«Che c’è ?» gli chiese Ferhat. Jalal e Omar, davanti a lui, si fermarono per cercare di capire.
«Credevo di aver sentito un rumore», disse Mohamed.
«L’unico rumore che non dobbiamo sentire è un altro, Mohamed», gli disse Omar, dandogli un colpo sulla spalla per incoraggiarlo. Ci aveva pensato anche lui che poco più indietro, forse, suo fratello li stesse seguendo. Guardando Mohamed negli occhi, sentì di condividere con lui lo stesso presentimento. Poi ripensò all’alluminio, e si rimise in cammino dietro a Jalal.
Arrivarono al cimitero di lì a poco. La prima mina sulla quale avrebbero messo le mani si trovava a pochi metri dall’ingresso. Avevano un raggio d’azione più che sufficiente per lavorare. Riuscirono ad estrarla in pochi secondi, ma impiegarono diversi minuti per riuscire a ricavare il cilindro.
«Per la prossima dobbiamo impiegarci di meno», disse Jalal. Tutti annuirono. Riuscirono effettivamente a compiere il lavoro in meno tempo con la seconda, sebbene fosse molto vicina a una terza sulla quale decisero di mettere le mani immediatamente dopo.
«Attenzione Mohamed», disse Jalal. «Ce ne è un’altra laggiù.»
«Lo so, lo so!» rispose lui.
Tutti avevano nella testa l’idea di fare in fretta. Un curioso Majed, nascosto dietro un cespuglio all’ingresso del cimitero, osservava con eccitazione. Sembrava un lavoro da uomo, di quelli che suo fratello faceva per mantenere la famiglia. Si sentiva fiero di lui. Pensò che un giorno sarebbe stato capace di fare altrettanto.
Omar si voltò un paio di volte. Lo sentiva, in qualche maniera. Mohamed lo aveva capito, ma non disse nulla. Fu Jalal a notare la sua distrazione.
Majed non seppe mai se fu quella distrazione la causa di tutto. Non poté udire nulla delle loro parole, ma ciò che riuscì chiaramente a sentire fu il suono dell’inevitabilità.
In un attimo un gruppo di eroi al lavoro fu totalmente travolto. L’esplosione investì tutti, a cominciare da Jalal. Morì sul colpo. Omar e Mohamed furono scaraventati a due metri di distanza.
Ferhat, resosi conto dopo alcuni istanti dell’accaduto, si voltò. Cercò di scuotere il corpo di Jalal con il braccio che non aveva più. Era volato via, poco distante. Le ferite su tutto il corpo erano impressionanti. Majed vide tutto rimanendo incredulo, incapace di muoversi.
Urlò subito dopo. Era come se le sue grida isteriche cercassero di fermare quell’orrore. Ma il dolore era appena cominciato. I lamenti dei tre sopravvissuti durarono a lungo. Un bimbo corse verso il villaggio d’origine per dire a tutti che il fratello, e altri tre uomini, avevano avuto un incidente al vecchio cimitero.
Continuò a urlare, a piangere per tutto il tempo. I soccorsi furono avvisati, ma nelle montagne dimenticate della guerra il tempo non era un alleato per salvare vite.
Mohamed sentì tutto. La frenesia dei soccorritori, le voci di gente curda come lui ma anche italiana. I volontari, presenti per salvarlo, non riuscirono nel loro intento. Con gli occhi chiusi, morì in ospedale con ancora in mente l’immagine del ginocchio ridotto a un cumulo di sangue e tessuti di Jalal, che aveva avuto la fortuna di morire sul colpo.
Ferhat e Omar furono operati d’urgenza. Majed aspettò con sua madre. Pregò con rabbia per la salvezza di suo fratello. Gli fu amputato un arto. Omar, vent’anni da poco, avrebbe vissuto il resto della sua vita con una protesi, uno dei pochi fortunati ad averla.
Ferhat, che un braccio ridotto all’osso lo aveva lasciato al cimitero, morì nonostante l’intervento dei medici. L’equipe, guidata dalla dottoressa Paci, aveva al suo interno pareri contrastanti. Alcuni medici rimasero convinti che qualcosa in più si sarebbe potuto fare.
«Abbiamo bisogno di più fondi», disse il dottor Gardini.
«Non ci conto, Mario» le rispose, in tutta sincerità, la dottoressa Paci.
«Scriverò e telefonerò a Milano fino a che non otterremo quello di cui abbiamo bisogno!» esclamò con rabbia il dottor Gardini.
Nel frattempo Omar, unico superstite, trascorreva la notte non sapendo ancora di aver perso anche l’uso dell’occhio sinistro. Fu il mattino dopo che se ne rese conto. Col passare dei giorni emerse in lui la consapevolezza di essere stato fortunato. Suo fratello, che aveva il terrore dipinto ancora sul volto, aveva pregato tanto per la sua salvezza, proprio come sua madre Zara.
Si era verificato quello che non avrebbe mai voluto. Il piccolo Majed avrebbe avuto negli occhi lo scempio della guerra per tutta la vita. I guerriglieri un giorno sarebbero arrivati anche lì, e avrebbe visto il resto. Ma il suono dell’esplosione lo avrebbe accompagnato per sempre.
Se era vivo, si disse, forse era comunque merito del piccolo Majed. Li aveva seguiti, nonostante gli ammonimenti. Era stato lui a dare l’allarme. Si fece vedere sempre forte e sicuro, promettendogli che sarebbe tornato presto.
La notte, invece, piangeva. Lo faceva dall’unico occhio che gli era rimasto. Ripensava ai dialoghi con gli altri, alla sicurezza di Jalal, la fermezza di Ferhat, e la sensibilità di Mohamed.
Erano riusciti a estrarre due cilindri di alluminio. Pochi spiccioli a testa, ma la loro vita non sarebbe stata più ripagata. Guardando con l’occhio il suo corpo ferito, Omar promise a se stesso che sarebbe riuscito comunque a mantenere sua madre e il piccolo Majed.
«Le condizioni sono stabili, Ceci» disse il dottor Gardini.
«Mi fa piacere, è un bravo ragazzo, ed è forte come una quercia» rispose la dottoressa. Cecilia Paci, guardando dalla finestra della sua stanza le montagne del Kurdistan, si chiese quando mai sarebbero arrivate buone notizie dall’Italia.