«Non ti è mai successo di parlare con un assassino, vero? Che poi assassino non sono, è soltanto un maledettissimo equivoco. Non ho mai ucciso nessuno, se non nel mio cuore.»
Gli faccio cenno di attendere. Devo accendere il registratore per cercare di non perdere nessun particolare e ufficializzare tutto.
“Click!”
«3 agosto 1999, ore 00. 27, Girona. Siamo in una delle Cases Pendajes sul fiume Onyar, senza numero civico. Io sono Victor Hortiz. Registrazione numero 1. Autorizzata dal signor Jaime Hernandez.»
Mentre il piccolo Sony registra appoggiato a bordo tavolo, osservo parlare quest'uomo come si farebbe con la carcassa di un animale morto da settimane. Puzza tale e quale.
Jaime, chiamato “El Rubio” dai loschi personaggi dei bassifondi di Barcellona, da un paio di settimane è barricato nel suo appartamento per nascondersi da Tony e dalla polizia. Ora è stravaccato di fronte a me, sopra una poltrona sudicia degli anni settanta, con la fodera in velluto marrone e la seduta sfondata. In mano stringe una banconota da cinquecento pesetas ben arrotolata tra il pollice e il medio, e la fissa smanioso, prima di avvicinarla al tavolino di vetro che ci divide.
Ci appoggia sopra la narice e aspira forte, scostando di colpo la testa all'indietro come se lo avessero punto mille api tra gli occhi. Li strizza forte e comincia a lacrimare senza riuscire a smettere; eppure sorride, soddisfatto. «Puttanaccia!» esclama «Questa è una cazzo di bomba».
Ci saranno quasi quaranta gradi densi e fusi sulle pareti, vomitati a intermittenza come ondate dallo sgangherato ventilatore. La puzza insopportabile mi costringe a trattenere l'ennesimo conato, eppure questo stronzo sembra non sentire nulla. In effetti non dovrei esserne meravigliato vista la montagna di merda che sta sniffando.
Accanto alla manciata di coca, una bottiglia di rum scadente e un bicchiere unto da impronte di labbra e dita sui bordi, e sul fondo una patina giallognola a tenere il segno. A terra ci sono fazzoletti di carta appallottolati: somigliano a piccoli tumbleweed in un deserto senza vento. La maglietta lo veste come un guanto di lattice bagnato; è così piena di chiazze che mi schifa immaginarne la provenienza. Ma ormai la mia testa è partita: probabilmente ci si è soffiato il naso decine di volte dopo aver finito i fazzoletti.
Continua a separare enormi righe con una lametta mentre la sua Marlboro brucia sopra un mucchio di cicche spente; il suo filtro è schiacciato come un tubetto di tempera sopra una tavolozza di colori cupi, usati per dipingere questo quadro assurdo. Ma non mollo, voglio ascoltare tutte le stronzate che temo mi sputerà addosso, insieme alla saliva di quella sua parlantina troppo veloce.
«Nemmeno tu credi alla mia innocenza, vero? Mi sono guardato allo specchio, prima. Faccio schifo; non mi crederei nemmeno io, se fossi al tuo posto. Ma non lo sono. Ho vissuto tutto, io.»
Assottiglia gli occhi come per mettere qualcosa a fuoco o forse per difendersi dalla luce filtrata tra le tapparelle; cerca uno spazio pulito sulla maglietta, si svuota il naso soffiandoci forte sopra e, prima di mollare la presa, osserva stupito... meglio non sapere.
«Arriva. Arriva sempre. Fosse anche per un istante. È un avvoltoio che ha scelto il suo cadavere: attende con pazienza dentro insistenti voli circolari che, lentamente, si stringono a imbuto finché non affonda gli artigli nella carne.»
Lo sguardo si perde annacquato nel vuoto, una mano invisibile sembra aver premuto il tasto off. Forse una piccola parte di cervello ancora sano cerca di connettersi sulla realtà attuale delle cose. Torna a stringere tra le dita quel suo piccolo tunnel verso l'inferno e, dopo aver sniffato un'altra riga, impreca per l'ennesimo colpo di grazia che non lo lascia libero di crepare. Il suo corpo viene percorso da uno spasmo che decide di curare con una lunga boccata di fumo, subito allontanata in una nuvola danzante tra le lamine di luce proiettate nella stanza.
«Chiunque penserebbe male di me e sputerebbe sentenze» la sua voce scorre come la puntina di un giradischi a fine corsa. «Ma lo farebbe senza aver passato quello che ho passato io. Tu, invece» sottolinea puntandomi un indice tremolante «sei sicuro di voler sapere quel che è successo? Perché quando ti ritrovi nelle mie condizioni è tutto schifosamente più complicato, come stare in bilico sulla cima all'Everest e guardare le dita dei piedi ciondolare nel vuoto: sei solo e hai una paura fottuta, ma non vedi l'ora di lasciarti andare e mettere fine a tutto.»
Si blocca di nuovo, perdendosi a seguire gli ultimi sinuosi fili di fumo.
«Vuoi fare un tiro?»
«No. E dovresti lasciar perdere anche tu.»
«Fanculo!»
Aspira, impreca ancora.
“Click!”
«Il registratore è andato, amico. Cambia la cassetta, proverò a non essere sboccato».
Una risatina improvvisa libera un colpo di tosse che gli scuote tutto il corpo, mentre involontarie lacrime scivolano da quegli occhi gonfi. Mi sorprendo a immaginarle come piccole colate di lava.
«Quel giorno mi sentivo l'uomo più felice della terra, nonostante l'ennesimo incubo. Accarezzavo le labbra di Ariela, le braccia che stringevano il corpo di Talitha accoccolato tra noi. Sorrideva, persa in qualche bel sogno che avrebbe dimenticato al risveglio. Ariela e Talitha sono state l'unico pensiero in grado di distrarmi da tutta una vita di merda, sai?»
Sì, questo potevo capirlo. Ma non glielo dico, aspetto che riprenda.
«Ero sdraiato accanto a loro e lui era lì. Fermo, sulla soglia, fa scattare la testa da un lato, facendo schioccare le ossa cervicali; poi con un ghigno solleva alta l'ascia, che prima teneva appoggiata a terra, e si avvicina».
Mima il movimento alzando le braccia in aria, con le mani unite, e le fa vibrare nello spazio muto; una mannaia immaginaria fende l'aria facendo esplodere e impazzire minuscole particelle di polvere davanti a sé.
«Abbatteva la sua rabbia su Ariela e Talitha, e il letto sobbalzava a ogni colpo, mentre io ero immobilizzato da un enorme serpente; sentivo il rumore delle loro ossa che si spezzavano. Avevo paura. Tanta. Mi sono pisciato addosso per il terrore, sai?»
Il suo corpo sussulta leggermente in preda alla visione che diventa reale nella sua testa annebbiata dalla droga. D'improvviso spinge la schiena contro la poltrona e tende le gambe. Urla. Un grido agghiacciante che libera lo sfogo rinchiuso in fondo alla gola ma ormai insopportabile da trattenere. Inizia a contare: «Dodici, tredici, quattordici...» e prima di proseguire a parlare si affloscia; crolla come se l'impalcatura invisibile che lo sosteneva avesse mollato l'ultima putrella.
«Sangue e brandelli di carne schizzavano dappertutto: imbrattavano lenzuola e pareti fino al soffitto; sia quando l'arma affondava colpi, tanto potenti da trapassare il materasso, che quando la sollevava sopra la testa. Ero un fottuto suddito lobotomizzato, obbligato a contare quei maledetti fendenti che straziavano l'unica ragione rimastami per vivere, senza riuscire a oppormi.»
Le parole gli scivolavano scomposte tra i singhiozzi. Non pensavo fosse possibile, eppure mi faceva ancora più schifo: ripiegato su se stesso, un rivolo di bava penzolava seguendo ogni movimento delle labbra umide rivoltate in fuori.
«Cazzo! Non riesco ancora a crederci. Contavo i colpi di quel bastardo senza riuscire a fermarmi, neppure quando le lacrime cominciavano a mescolarsi con il sangue che avevo addosso, finché ho perso il conto.»
«Cosa?»
«Nel senso dello stramaledetto numero di fendenti. Ho perso il conto. Alcuni pezzi di carne mi hanno colpito la faccia distraendomi.»
«Quindi mi stai dicendo che tu eri sdraiato, a fianco di Ariela e Talitha, immobilizzato da un serpente immaginario e contavi i colpi d'ascia di una enorme ombra mentre le straziava?»
Avevo bisogno di riassumere la scena nella mia testa, per cercare una via d'uscita plausibile dalla surrealitá che aveva appena schiaffeggiato la mia capacità di comprensione.
«Che il serpente e l'assassino fossero immaginari lo dici tu. Io li ho visti come vedo ora te. Erano nella stanza, non lo so, forse un rito vudù o qualche altra cazzo di magia del genere. A un certo punto ho lanciato un urlo tanto potente da farlo sobbalzare, il bastardo. Si è fermato a fissarmi, sorpreso, quasi intimorito. Stringeva tra le mani la sua fottuta ascia, lasciandola appoggiata su quello che restava dei loro corpi ricoperti di sangue, pezzi di interiora e materia cerebrale. Ma si è fermato!»
Si avvicina per mostrarmi le ferite ancora fresche sulle labbra, il tanfo del suo alito invade l'aria, occupandola con un soffocante senso di claustrofobia che mi corrode i nervi, oltre che l'olfatto.
«Vedi? Ho cominciato a mordermi le labbra, e dopo ho spalancato la bocca contro quel maledetto, urlando, urlando e urlando, finché alla fine non ha abbassato lo sguardo e se n'è andato strisciando sul pavimento la sua ascia.»
Ormai anch'io respiro sangue, vomito e morte, mentre Jaime, dopo una specie di torsione all'indietro come se seguisse la ritirata del mostro, decide di piegarsi di nuovo in avanti, stavolta però per aspirare un altro po' di morte bianca.
«La porta» continua, dopo aver starnutito un paio di volte, «era stranamente ritorta e lentamente tornava nella posizione giusta, dritta sui suoi cardini. Mentre io non ero più sdraiato, ma mi sono ritrovato in piedi di fronte al letto e sentivo la scure scivolarmi a terra dalle mani.»
La pena e l'odio verso quel povero drogato si trasformano in terrore. Un'onda mi colpisce con forza, schiantandomi su una consapevolezza nuova e bruciante. Assottiglio gli occhi come per metterlo a fuoco e, così facendo, inquadro lo specchio che ho di fronte. Stringo forte i braccioli, le nocche sembrano volersi aprire per far fuoriuscire le ossa sotto. Sento il culo sprofondato nella poltrona, e inizio a guardare in faccia la mia pochezza di uomo e la mia vigliaccheria. Alla fine penso che forse, in fondo, non mi frega più un cazzo.
Quasi ovattato sento il suono del registratore che ha macinato anche il nastro della seconda cassetta.
“Click!”
Decido di essermi intervistato abbastanza. Tiro l'ultima riga dal tavolino, alla faccia di tutti: Tony, Talitha, Ariela, il merdoso mondo intero, a voi e persino a me stesso, che ora mi guardo allo specchio senza più stupore. Perché è dura riuscire a essere sempre sinceri fino in fondo, a volte impossibile.
Prima di alzarmi osservo il crocifisso di gesso inchiodato sopra l'ingresso: prima o poi cederà, sotto quei colpi così forti che lo fanno vibrare. Non mi ha certo aiutato in tutto questo casino ma io non l'ho nemmeno mai pregato quindi, chissà, forse non gli fregherebbe nemmeno ascoltarla, adesso, una mia cazzo di supplica.
I colpi alla porta diventano sempre più sferzati da una rabbia violenta. Saranno di Tony? O qualche suo scagnozzo venuto a prendersi soldi e vita per questa montagna bianca di merda ancora da pagare. Magari sono fortunato, ed è soltanto la Polizia.
Leggo le parole tatuate sul mio avambraccio: “Ad omnia finem”. “Fino alla fine di tutto”.
Vado in camera e una folata di vento putrefatto mi schiaffeggia fino a farmi vomitare: i corpi smembrati sul letto sembrano sorridermi. Un ultimo guizzo di adrenalina mi pecorre dalla testa ai piedi; raccolgo l'ascia insanguinata e la lancio contro la finestra a picco sul fiume. Le grida confuse che sento non sono più nella mia testa: sono dietro di me, oltre la labile barriera dell'ingresso, intimano di aprire e consegnarmi nel nome della legge. Non è Tony, dunque.
Provo a nascondermi dentro a qualche attimo di confusa attesa, ma ormai sono intrappolato in un incubo senza uscita. Quale malefica magia mi ha scambiato con quell'Orco assassino?
Appoggio l'indice e il medio sulle labbra e lancio un bacio verso la carneficina sul letto. Inclino la testa per schioccare l'osso cervicale, abbasso lo sguardo e lo vedo, sul pavimento: un post it con una scritta larga, nera che spicca sullo sfondo giallo: Sono Victor e vivo dentro Jaime. Oggi lo ucciderò.
Deglutisco, cerco di ritrovare il centro con un respiro. Ora so cosa fare: lanciarmi attraverso il varco ignoto della finestra, sperando di finire il volo come sento di meritare; tra le pietre e senza vita.
Alle mie spalle il boato della porta sfondata, voci eccitate che mi ordinano di stare fermo. Ma è tardi, ormai, mi sono lanciato. L'ultimo pensiero è la ricerca di una libertà purificatrice. Che sia acqua o roccia non m'importa. Desidero soltanto riaprire gli occhi come dopo un incubo, oppure di non riaprirli mai più.
Mi sveglio.
Gli occhi appiccicati. Li richiudo, infastiditi. Non cambia niente; la luce che buca le tapparelle mi trafigge le palpebre e continua a violentarmi le pupille. Ho il naso incrostato di sangue, la saliva appiccicosa che come mantice impasta lingua e denti. Puzzo di vino e vomito, lo sento dalla bava sul cuscino. Avverto fitte dolorose in ogni singolo muscolo. Tutto mi torna in mente come un ago infilato nell'occhio della coscienza.
Quanto cazzo era bella. E io, rincoglionito a osservarla da lontano mentre sorrideva senza sapere di essere guardata. Avrebbe potuto essere la mia virgola, invece che un fottutissimo punto. Non l'avevo nemmeno sfiorata quel giorno, a fine serata; penso lo abbia percepito come qualcosa di rispettoso e oltraggioso allo stesso tempo. Me ne accorsi quando allungò il collo per baciarmi, io tenni le labbra socchiuse. Fu un bacio stranissimo, quasi all'assenzio, che lasciò entrambi tra sogno e sconforto.
Ho la gola secca. Provo a deglutire, ma sembra di ingoiare sabbia; lo stomaco mi si stringe come un tubetto di dentifricio premuto dal fondo ed esploso verso l'esterno: sputo tutto il catarro che ho in corpo. Implodo poi dall'interno contorcendomi tra fitte insopportabili. Riprendo a respirare, ingoio aria con affanno. Seduto sul bordo del letto, accumulo la patina di coca rimasta sul ripiano del comodino, lecco la sigaretta così da potercela appiccicare; sono pronto per la prima boccata.
Mi faccio un caffè.
Mentre soffio sulla tazzina, il filo di fumo aromatico mi fa perdere nei meandri dei meccanismi bislacchi della mente umana: ci fa catturare profumi e li accomuna a situazioni e momenti, il più delle volte senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. Li effonde intorno a noi e ci catapulta in emozioni vissute, ma così perdute che poi lei stessa si smarrisce, nel tentativo di afferrarle e incollarle a qualche ricordo lontano.
Ecco, in questo periodo vivo di profumi. Nessuno scritto o parola, nè sguardi. Resto immobile dentro una piccola bolla di pensieri, satura di odori che inseguono ricordi ingoiati dal tempo. L'unica immagine che resta a galla, sempre presente in questo baccanale di pensieri, è la mia anima sporca.
Ho annusato il suo corpo nudo e assopito, quando non riuscivo più a vederla come l'avevo sempre sognata: sfuggente, come tutto il resto nella bolla. Ho continuato a farlo anche quando non la percepivo più nemmeno nella mente. Ne ho respirato il sangue raffermo sulle ferite, le lacrime cristallizzate lungo le guance, gli umori densi tra le cosce dischiuse; provando fremiti troppo brevi che mi lasciavano vuoti ogni volta più profondi. Persisteva quella sensazione di dover ripetere sforzi sovrumani per raccogliere soltanto pochi secondi di orgasmo.
È rimasta legata al letto finché lentamente non si è decomposta davanti ai miei occhi. Ho leccato ogni centimetro della sua pelle fino a quando non ha emanato un odore così forte e pungente da farmi vomitare. I suoi occhi di vetro guardavano l'infinito, ma il suo sguardo era impresso come una fotografia: stupito e terrorizzato. Mi eccitava da morire. Mi sono masturbato non so quante volte, facendole schizzare lo sperma su viso e corpo, che poi leccavo per nutrirmene, come un neonato.
Ogni gesto ripetuto sempre uguale come un automa, per giorni, settimane, forse un paio di mesi. Fino a quando la sua pelle si è ammorbidita e ha perso quell'odore ripugnante. Fino a farmela sentire gustosa mentre ne masticavo piccoli bocconi, con la paura che finisse troppo presto.
Hai presente i fili di una ragnatela con tantissime gemme di rugiada appese?
Lisci, sottili, bagnati, i capelli le cadevano fin sulle spalle. Le coprivano anche la parte sinistra del viso per via del capo chinato dalla parte opposta, con il mento che poggiava sulla clavicola. Aveva tre bellissime fossette: una proprio sul mento e le altre due, lo ricordo bene, comparivano sulle guance a ogni sorriso. Aveva solo quel sottile rigagnolo, secco e trasparente, che dal lato interno dell'occhio scendeva fino al collo.
E poi il suo profumo. Dio, il suo profumo. Lo sento forte ancora adesso, anche con gli occhi socchiusi. Ne ho le narici pregne. Sangue e carne.
Desiderio e senso di colpa che si rincorrevano di continuo, fino ad abbracciarsi.
Tu. Hai mai provato i morsi della fame? Quella vera, intendo. Di quando non mangi da giorni e lo stomaco gonfio d'aria ti si contorce dentro con dolori insopportabili.
Sento quell'odore rancido diventare profumo, quel rimorso per un pensiero anormale si trasforma in desiderio, inconfessabile e meraviglioso. Avvicino il naso al suo collo e annuso, allungo la punta della lingua per sentirne la morbidezza e il calore. Sogno di poterne assaggiare anche un solo piccolo lembo crudo, e sospiro. La salivazione aumenta, la lingua aperta scivola dalla clavicola fino a dietro l'orecchio, dove stringo il lobo tra le labbra, succhio e sento un piacere incontrollabile.
Ariela!
Dio, quanto la amo. La guardo e la amo così tanto che la mangerei fino a farla diventare parte di me. Non so se lei mi abbia mai amato veramente. Io sì, tantissimo. Anche adesso che mi sento stanco e desidero chiudere di nuovo gli occhi per restare qui, vicino a lei, per sempre.