Le Cronache di Oscailt, Rivelazioni Onnigrafo Magazine

Le Cronache di Oscailt, Rivelazioni

[da le "Storie dei Regni Unificati"]

Segui ciò che il cuore ti indica. Persegui ciò che
il vento ti sussurra. Insegui qualsiasi cosa ti dia
felicità. E quando tutto finirà, non piangere
perché esso è concluso, ma sorridi, dacché è
accaduto.

Detto Nord

Finalmente riuscì ad aprire gli occhi di nuovo. Si accorse di avere il respiro corto e si mise seduto sul bordo del letto, cercando di allontanarsi dall'incubo appena trascorso. Appoggiò i gomiti ai ginocchi e si mise il viso tra le mani callose, tentando di ricacciare indietro le lacrime. «Perché tutte le notti?», sussurrava disperato tra un respiro e l'altro. «Perché?»

Erano ormai due settimane che quelle visioni lo tormentavano; dapprima erano vaghe, come dei fugaci lampi durante la fase del sonno profondo, ma nelle ultime notti erano diventate delle vere e proprie esperienze, come se le vivesse in prima persona, con il suo corpo. Ma al risveglio non ricordava nulla di tutto ciò che aveva vissuto. Sollevò il viso, guardò da dove era seduto verso le fessure della finestra chiusa e si accorse che era ancora notte. Bisognoso di aria fresca, vi si diresse a grandi passi e le aprì con impeto, facendo sbattere le imposte all’esterno dell'abitazione. Da quando era andato a dormire era sorta la luna, ma non aveva fatto molto del suo percorso. Doveva aver dormito poco più di una campana; eppure il sogno di quella notte sembrava eterno.

Sentì bussare alla porta della propria camera e senza aspettare risposta entrò suo figlio, in calzoni da notte, seguito a piccoli passi dal suo lupo.

«Padre, abbiamo sentito sbattere!», chiese preoccupato il bambino. «Stai bene?»

Lo sguardo fuori dalla finestra, si nettò il volto da quello che rimaneva delle lacrime, trasse un profondo respiro e si volse verso il bimbo. «Stai tranquillo, Khylos», lo rassicurò, «il solito incubo. Si è presentato anche stanotte»

«Vuoi che io e Khyler rimaniamo qui con te?», insistette il piccolo, che intanto aveva preso in braccio il piccolo lupo. In un moto di affetto, con pochi passi si avvicinò al suo unico figlio, che gli ricordava così tanto Mhyssa, la sua defunta moglie; passandogli una mano sopra la testa, gli arruffò i capelli.

«Non preoccuparti, giovanotto!», rispose il padre mentre si avvicinava con un sorriso tra le labbra, cercando di dargli delle certezze che dentro di sé non trovava. «Ci vuole ben altro per spaventare il tuo vecchio»

Gli appoggiò un braccio sulla schiena e lo spinse fuori dalla stanza, accompagnandolo verso la sua camera.

«Non preoccuparti, figlio mio», disse con voce calda e calma, «i sogni rimangono sempre dove stanno, nei nostri pensieri; questo vale anche per gli incubi. Presto passeranno»

Il bimbo, rincuorato dalle parole del padre, si avviò nel corridoio facendo un enorme sbadiglio e, una volta entrato nella sua stanza, ne fece un altro alla vista del letto. Quella appena trascorsa nel maneggio era stata una giornata pesante nel e il suo corpicino da dodicenne non aveva ancora la forza necessaria per quelle sveglie forzate nel cuore della notte.

Mentre Khylos si allungava per scivolare di nuovo velocemente tra le braccia della Dea dei Sogni, Khyler fuggì alla sua presa, scese velocemente dal letto e si mise a fianco del padre, fissandolo con insistenza. Intanto, l’uomo rabboccò le coperte al figlio e si sedette sul bordo del letto, finché non sentì il respiro regolare del sonno del bimbo. Rimase ancora un attimo a coccolare il suo unico figlio, pensando che un giorno avrebbe sicuramente lasciato la casa paterna per cercare avventura; più di una volta, a ogni loro visita al villaggio, aveva dimostrato interesse nei confronti delle Lame Scarlatte, tanto che si fermava a parlare col reclutatore e sergente maggiore Sigmund Tanuder per farsi raccontare le grandi avventure passate delle truppe, le disposizioni degli eserciti, le possibilità di carriera, gli appartamenti dei cadetti, e tante altre curiosità che avevano affascinato sempre più il piccolo Khylos. Come ogni buon padre, era preoccupato per il futuro che lo aspettava, ma al contempo non poteva tarpargli le ali. Inoltre doveva pensare anche al suo maneggio. Alla sua morte, l’avrebbe sicuramente lasciato in eredità al figlio, ma questo significava anche darlo in gestione a qualcuno di fiducia; merce rara, in quei tempi pazzi.

Dopo un’ultima carezza al figlio, gli sistemò meglio le coperte e si alzò; controllò che la finestra fosse ben chiusa, tirò la tenda di lana grezza in modo che né la luce della luna quella notte, né il sole il giorno seguente potessero svegliarlo e se ne andò piano dalla stanza, chiudendo la porta senza far rumore.

«Bene», sussurrò quindi al lupo, inginocchiandosi ad accarezzargli il garrese, «sembra che siamo rimasti io e te» La creaturina scodinzolò leggermente, leccò la mano dell’uomo e corse lungo il corridoio. Qui, con gli occhi ormai abituati al buio della casa, lo vide fermarsi in cima alle scale che portavano al piano sottostante, ovvero alla cucina; lo fissò con aspettativa, la lingua penzoloni, e corse di sotto. Sorridendo sotto i baffi, Tholos seguì il famiglio del figlio; scese le scale e trovò l’animale proprio dove si aspettava: oltre una porta che dava a un ulteriore piano interrato c’erano formaggi e prosciutti a stagionare, per di più a portata di grinfie del lupo. C’erano anche gli avanzi sotto sale della pernice che avevano mangiato a cena sopra il tavolo dove di solito consumavano i pasti; ma il piccolo animale, che ormai era in famiglia da quattro mesi, era seduto di fronte alla porta d’uscita, in attesa di uscire con il padrone.

Tholos rise brevemente e si avvicinò alla porta, mentre l’animale si girava, gli occhi, uno differente dall’altro, fissi sulla maniglia, nella speranza di vederla abbassata, di aprire la porta col muso e di correre subito fuori in esplorazione. «Non è ancora l’ora della nostra passeggiata mattutina, piccoletto!», sussurrò divertito l’uomo, «manca ancora molto all'aurora e tu hai bisogno di riposo»

Quindi lo prese in braccio, grattandogli la pancia, e lo mise davanti alla sua ciotola. Il cucciolo dimenticò in fretta la possibilità di un’uscita notturna appena vide il suo padrone mettere mano a uno spicchio di formaggio di fossa, una forma di pane e l’osso della parte finale di un prosciutto stagionato. Poggiato il tutto sopra il tavolo, prese un coltello seghettato per il pane e uno a filo liscio per quel che rimaneva del cosciotto. Controllò velocemente la lama, un’affilata veloce per levare le intaccature dovute all’incontro tra cartilagine e ferro e si sedette, come al solito, a capotavola.

Si mise all’opera, scartando velocemente gli ultimi resti di cotenna attaccati all’esterno, tagliò quello che poté di quel fine prosciutto e spezzò l’osso in due con un colpo secco, infilando la parte più grande direttamente tra le piccole zanne del lupo, che se lo portò subito alla sua ciotola, cominciando ad addentarlo come meglio poteva. Quel lavoro di mandibole avrebbe sicuramente prosciugato le ultime forze della creatura che, anche se cresceva a vista d’occhio, era comunque giovane; finito il pasto, sicuramente sarebbe crollato per risvegliarsi la mattina seguente insieme al “fratello”, secondo il codice stabilito tra lui e il figlio.

Mentre sbocconcellava distrattamente pane, carne e formaggio, Tholos ripensò di nuovo alle visioni di quella notte. Cercò di ricordarle e di metterle a fuoco nella sua memoria, ma come al solito si accorse che solo alcuni particolari risultavano vividi, mentre lo sguardo d’insieme era troppo nebbioso perché potesse avere un senso. Gli amici a cui aveva raccontato di questi sogni agitati e dei risvegli altrettanto bruschi gli avevano consigliato di andare da una fattucchiera che viveva alle pendici del monte Qostiid, che nella lingua antica dei Nordici voleva dire “profeta”. Si diceva che, nel corso della storia, molti asceti avessero cercato la saggezza tra le sue alture, e quei pochi che l’avevano trovata erano diventati dei divinatori incredibili. Tholos era sempre rimasto scettico riguardo la veridicità delle loro parole; di contro, però, sapeva che alcuni sogni volevano dire qualcosa.

Al pensiero sbuffò sommessamente e spostò la sua attenzione di nuovo a Khyler. Il lupo stava ancora cercando di strappare pezzi di grasso attaccati all’osso del prosciutto e sembrava che quest’ultimo stesse avendo la meglio. Dai tentativi goffi e forzati messi in atto, si poteva notare la stanchezza della piccola creatura. Difatti, dopo qualche altro tentativo, ringhiò piano in direzione dell’osso, lo riprese tra le mandibole e lo mise nella sua ciotola, sicuro che l’indomani avrebbe potuto continuare a spolparlo. Dopo essersi leccato grasso e sale dai corti baffi bianchi, Khyler fece un grosso sbadiglio, si stiracchiò stanco le zampe anteriori e posteriori e si diresse verso il focolare attaccato al muro, dove solitamente la famiglia cuoceva le pietanze; c’erano ancora dei carboni ardenti, e solo allora Tholos notò che era ancora vestito da notte e che l’aria notturna era ancora fredda, nonostante la primavera fosse ormai cominciata da un mese.

Vicino al camino vi era anche una piccola legnaia con qualche ciocco e della legna più piccola e secca che fungeva da esca; Tholos prese una manciata di quest’ultima e la buttò sopra i tizzoni ancora accesi, che fecero divampare di nuovo il fuoco. Poco dopo aggiunse uno dei ceppi di tasso che aveva tagliato qualche giorno prima, abbastanza secco da poter prendere velocemente.

Il lupo quindi, dopo aver fatto qualche giro sul posto, si accoccolò in prossimità del fuoco nuovamente acceso e chiuse gli occhi, soddisfatto della mangiata e di aver fatto compagnia al suo padrone.

Nel mentre, Tholos era andato a prendere la pipa con la sacca contenente fumerba nanica, una sedia e uno stoppino. Posizionò la seduta vicino al focolare, si mise seduto vicino al lupo che, sentendo il rumore prodotto da quei movimenti, alzò le orecchie e un occhio, per poi riabbassare la palpebra e riprendere sonno, e infine accese la fumata. Dopo un paio di boccate, l’erba bruciò, rilasciando un gradevole odore misto tra silvestre e affumicato. Tholos si godette quel momento di pace, ebbro della fumerba e della quiete notturna. Man mano che le fiamme divoravano il ciocco, il freddo della notte se ne andò.

Osservando la legna ardere, Tholos ebbe un’improvvisa visione, come se fosse all’interno delle fiamme; vide, attraverso di esse, quello che doveva essere un uomo incappucciato che si abbassava ad accarezzare un animale, sussurrandogli qualcosa alle orecchie. L’animale quindi cominciò a correre e l’uomo gli diede subito appresso. Allora serrò forte le palpebre, cercando di scacciare quella sensazione. Preso da un’ondata di nausea, si passò una mano sul viso e si riscoprì a sudare freddo; si deterse subito con la manica dei vestiti da notte e cercò di fare un’altra boccata di fumerba, per cercare di ritrovare la pace che aveva provato poco prima.

Nel guardare il tabacco che ardeva, venne di nuovo gettato da un’altra parte: ora si trovava in prossimità di una fonte di luce immensa che emanava un fascio rivolto verso il cielo. Guardando in alto si ritrovò spinto verso il firmamento, dove brillava la luna piena. Improvvisamente vide l’uomo di prima che osservava con gli occhi pieni di sfida la fonte di luce, spada alla mano; poi cambiò visione, e vide tre elfi abbarbicati su un albero-montagna che, sbigottiti, osservavano, grazie ai loro sensi sovrumani, la colonna di luce a migliaia di miglia di distanza; la visione si spostò di nuovo, nei pressi di una montagna, ma non riuscì a mantenere il contatto con le apparizioni perché aveva avvertito di nuovo la sensazione di nausea.

Cercando di combattere il voltastomaco, Tholos si accorse che quello che aveva appena vissuto erano gli incubi che lo perseguivano da dozzine di notti; in tutta sincerità, non voleva viverli di nuovo.

Svuotò la pipa nel fuoco con qualche colpetto e la posò sul ripiano sopra al camino, vicino alla sacca con la fumerba dentro. Si alzò e si diresse verso l’uscita, in cerca di aria. Prese uno dei mantelli attaccati alla porta, se lo infilò e uscì, cercando di fare meno rumore possibile; l’aria notturna lo investì immediatamente e subito chiuse la porta alle sue spalle.

Stette un momento lì, in piedi sull’uscio di casa, assaporando quella notte primaverile; ma non si gustò troppo a lungo quell’istante, timoroso della ricomparsa delle apparizioni. Si diresse invece verso la stalla dove teneva i cavalli di famiglia. Nel maneggio dietro casa teneva gli altri cavalli, quelli destinati al baratto o alla vendita. Da generazioni, la famiglia di Tholos allevava quelle bestie, così presenti un tempo nei dintorni del villaggio; mentre prima i suoi avi cacciavano e soggiogavano i cavalli selvatici, ora si cercava di incrociare i destrieri che più si adattavano alle incombenze che avrebbero dovuto svolgere da adulti. Una cosa accomunava tutti i palafreni: erano della fiera razza nordica, col pelo più spesso e le gambe più corte e tozze rispetto ai loro parenti, ma con una resistenza da far invidia a qualsiasi destriero da guerra degli imperiali, giù al sud. Questa caratteristica li rendeva adatti a qualsiasi necessità, che fosse il traino, l’aratro o il semplice spostamento.

Tholos aprì piano le porte della stalla. All'entrata vi erano tutti gli attrezzi per accudire al meglio i quattro cavalli a uso privato dell’uomo e del figlio, due a uso condiviso per i pochi campi in loro possesso, che di solito venivano dati ai vassalli che li lavoravano, e uno a testa a uso esclusivo. Il cavallo di Tholos era uno stallone di otto anni a cui aveva dato il nome di Nonvul: nero, il pelo più lungo che gli cresceva subito sopra gli zoccoli, la criniera leggermente castana e tagliata corta, fiero e fedele, era una cavalcatura davvero affidabile e instancabile, ottimo per le lunghe cavalcate per i possedimenti della famiglia, per le uscite di caccia o solo per le passeggiate nei dintorni.

Il Nord si avviò verso lo stanziamento del suo animale, aprì il separé ed entrò. Trovò il fedele cavallo vigile, probabilmente svegliato dai cigolii del portone d’entrata della stalla; l'uomo allungò una mano verso il muso del compagno e glielo strofinò amorevolmente.

«Scusa se ti ho svegliato, mio buon amico», gli sussurrò, mentre lo accarezzava. «Questa è un’altra

notte insonne per me. Hai voglia di farmi compagnia?» Per tutta risposta, il cavallo scosse la testa in alto e in basso con un leggero brontolio, come era solito fare quando vedeva il suo padrone guardarlo negli occhi, capendo sempre che aspettava una risposta. Tholos gli regalò un sorriso e una pacca sul robusto collo, si girò e prese un coperta di cuoio spesso non conciato, la piccola sella che usava di solito, le briglie con il morso e montò tutto in pochi movimenti. Diede un ultimo controllo alle cinghie e guidò il cavallo fuori dalla stalla.

Chiusa la porta alle sue spalle, Tholos mise un piede sulla staffa e salì agilmente in sella alla sua cavalcatura, regolò velocemente le briglie e si chinò verso le orecchie di Nonvul, dicendogli: «Oggi comandi te, amico mio. Vai dove meglio credi!», quindi diede due colpi di tallone all’altezza delle reni, accompagnati da un leggero schiocco della lingua per metterlo al trotto, lasciando le redini il più lente possibile. Si diresse, sul vialetto di casa, in direzione del basso cancello d’uscita, che scavalcò abilmente. Dapprima Nonvul si diresse verso il centro abitato, poco distante dalla casa Tholos, poi, a un tratto, fece una svolta stretta e condusse il suo padrone verso il bosco alle pendici del monte Joor: nome infelice, in verità, giacché voleva dire “mortale”, ma nessuno ricordava il perché di quella parola; in compenso, era un ottimo terreno di caccia al tasso e agli stambecchi. Tholos pensò che sarebbe stato saggio portarsi dietro un arco corto e qualche freccia, ma probabilmente avrebbe avuto i sensi vigili per poco, prima che il sonno lo riprendesse per riportarlo a casa, e scartò l’idea di tornare indietro e prendere l'arma. In compenso, nella bisaccia sempre attaccata alla sella portava un piccolo coltello con cui incideva e scuoiava gli animali cacciati: magari avrebbe potuto prendere qualcosa con quello, ma ne dubitava.

Mentre pensava a una possibile battuta notturna, Nonvul si era già addentrato nel fitto della foresta di faggi, abeti e cipressi; sembrava seguisse una strada che solo lui vedeva. La luna rischiarava il cielo e riusciva a penetrare nel fitto groviglio di fronde sopra la testa di Tholos, permettendogli una visione abbastanza chiara di quello che lo circondava. Ritrovata finalmente un po’ di pace, l’uomo fece un respiro profondo, rilassandosi e sentendosi felice per quella passeggiata: il contatto con la natura lo ristorava sempre e la presenza del suo fedele cavallo non gli faceva temere nulla.

Arrivarono in una piccola radura dove non vi erano alberi, solo erba alta; questa veniva, di solito, utilizzata come punto di ritrovo dai cacciatori, o come primo bivacco per cominciare la battuta del giorno. Tholos tirò le redini, facendo fermare il cavallo e si guardò un po’ intorno, cercando di vedere se qualche cacciatore distratto si fosse dimenticato qualcosa nei dintorni. Infatti, un luccichio in un punto dove l’erba era meno alta attirò la sua attenzione. Scese da Nonvul e si avvicinò con cautela. Si chinò per raccogliere l’oggetto e vide che era una punta di freccia, di buona qualità, per giunta. Sorrise del ritrovamento, sapendo che i più superstiziosi lo ritenevano di buon auspicio. Ne saggiò il filo, estremamente tagliente, e si ferì a una mano. Subito portò il dito ferito alla bocca e la punta gli cadde di mano. Guardando il punto dove era atterrata, notò che, nonostante fosse in ombra, il luccichio che lo aveva attirato continuava. Girandosi verso la luna, che aveva alle spalle, non poté che trovare strano questo fatto. Tirato fuori il dito dalla bocca, vide il taglio che si era fatto... e tutto si offuscò. Si passò la mano con la ferita sul viso e, riaprendo gli occhi, si accorse di trovarsi in mezzo a un campo di battaglia, apparentemente a guerra conclusa. C’erano corpi mutilati ovunque di esseri che sembravano uomini, elfi, nani e altre razze che non riuscì a distinguere, perché il senso di nausea provata in casa riapparve impetuoso e un velo rosso gli ricoprì la vista, come se stesse sanguinando da un taglio alla fronte. Si strofinò forte gli occhi per far sparire quella sensazione. Improvvisamente si sentì tirare da una spalla e, riaprendo gli occhi, si ritrovò di nuovo nella radura in cui Nonvul lo aveva portato: era stato proprio il cavallo a strattonarlo poco prima, riportandolo alla realtà. Toccando le sopracciglia, si accorse di essersi sporcato con il sangue del taglio al dito e un po’ si riebbe dallo sgomento dovuto alla visione improvvisa.

Si volse verso Nonvul e lo ringraziò con una pacca sul collo, dicendogli: «A volte il cervello umano gioca dei brutti tiri, amico mio»

Mentre si rimetteva in sella, sentì una voce femminile indistinta, che parlava nell’antica lingua del Nord, una lingua morta, che in pochissimi ricordavano ancora. Lui la conosceva perché il padre di suo padre gliel’aveva insegnata. Diceva sempre che «Per comprendere dove si sta andando, bisogna prima sapere da dove si viene» Tra i sussurri, Tholos riuscì solo a capire «Kiibor», che significa “seguire”, e «Ronaaz», che significa “freccia”. Da sopra il cavallo, Tholos guardò in basso, dove aveva lasciato la punta trovata poco prima, e si accorse che essa fluttuava nell’aria, sopra l’erba piegata dal suo passaggio. Seguì con lo sguardo la direzione che indicava e vide un punto alla fine della radura, dove c’erano degli alberi. Improvvisamente, alberi, arbusti ed erba si spostarono, come scansati da una mano divina, scoprendo un percorso tutto svolte e tornanti verso un lato della montagna.

«Ru! Nel!», sentì dire di nuovo dalla voce femminile. Cercò di guardarsi intorno, nella speranza di riuscire a scorgere chi avesse lanciato quegli ordini, ma non fece in tempo, perché Nonvul si tirò su impennando con le zampe posteriori, scalciando ferocemente con quelle anteriori, lanciò un nitrito potente e, una volta riatterrato sui quattro arti, partì con un lieve balzo in un galoppo sfrenato sul sentiero che si era appena venuto a creare. Il comportamento del cavallo spaventò non poco l’uomo, dato che l’animale solo in giovane età aveva compiuto questi atti irruenti. Ora invece si ritrovava attaccato spasmodicamente al collo di uno stallone più che adulto in preda all’isteria, che correva in un sentiero venuto fuori non si sa da dove. Cercò di tranquillizzarlo, urlando sopra alla corrente che cominciava a fischiare e dandogli vigorose pacche per farlo tornare in sé; mentre faceva questo, si accorse che gli occhi del cavallo... non erano i suoi. Essi brillavano ed erano concentrati sulla strada davanti a sé. Tholos sapeva che niente poteva distrarlo dal suo compito; quale che fosse, lo avrebbe scoperto di lì a breve.

Non potendo fare nulla per la sua cavalcatura, l’uomo cercò di rimanere in sella come poteva, gli alberi che continuavano ad aprirsi improvvisamente davanti alle zampe dell’animale, creando nuovo spazio per la corsa sfrenata. Tentò di abbassarsi e di scansare i rami bassi che gli ferivano la faccia e, mentre faceva questo, si ritrovò di nuovo sul campo di battaglia che gli era apparso in visione poco prima, stavolta nel pieno svolgimento della schermaglia. Tronchi e rami si erano trasformati, d’un tratto, in avversari armati di spade, asce e frecce da dover evitare. E lui non aveva altro che la sua agilità e la prontezza di riflessi del cavallo, che avanzava veloce e stregato.

Corsero come se avessero la fine del mondo alle calcagna per un tempo interminabile, tanto che quando il cavallo si fermò, Tholos si ritrovò col fiato corto. Si stupì del proprio sangue freddo quando finalmente riaprì gli occhi e non si trovò in mezzo a nemici e armi affilate, ma in un posto che aveva visto solo da piccolo: il monte Qostiid.

«Dannazione!» esclamò l'uomo a voce alta, «abbiamo fatto centinaia di miglia per arrivare sul monte dei fattucchieri?»

«Stiild hi, Bromhuv», sentì dietro di sé Tholos dalla voce femminile invisibile, ora molto vicina. Si girò di scatto e vide una donna vestita di un mantello verde scuro, sbiadito e logoro, il volto in ombra da un cappuccio dal quale uscivano solo alcune ciocche di capelli rosso fuoco. Era slanciata, le forme del corpo nascoste dall’ampio manto, le mani pallide e curate incrociate sul ventre. Dal tono della voce, Tholos dedusse che doveva essere giovane, forse più di lui, ma con la magia non si poteva mai sapere, giacché molti maghi e fattucchieri potevano anche vivere in eterno se lo desideravano, dimostrandosi sempre giovani.

«Calmarmi?», disse quasi urlando, allora, l’uomo, «Mi hai fatto uscire dalla sicurezza della mia casa per farmi venire in questa terra dimenticata dagli dèi e dal Fato! Chi sei tu, donna? Cosa vuoi da me?»

Con una lieve scrollata di spalle, Tholos sentì la piccola risata gioviale della strega che aveva di fronte, che rispose: «Rah ahrk dez? Dèi e Fato non c’entrano, mio buon Tholos. Giacché, se i primi sono sordi alle voci di chi vive in questo mondo, il secondo esiste, oppure non esiste»

«Come tutte le fattucchiere cominci a parlare per enigmi?», disse spazientito l’uomo. «Parla chiaro, strega. Chi sei tu? Perché sono qui? Come fai a conoscere il mio nome? Quale bestia sacra ho ucciso per meritarmi quella corsa a perdifiato?»

«Yu laan. Troppe domande a cui rispondere. E abbiamo poco tempo» Mentre diceva questo, la donna si sfilò piano piano il cappuccio, rivelando il viso di una ventenne o poco più, il naso delicato e coperto di lentiggini, gli occhi di un verde chiaro che potevano scrutare l’anima di qualsiasi uomo, le labbra carnose e rosee. Da sotto le pieghe del cappuccio, sul collo, si intravedeva un gioiello stretto alla gola con incastrato uno zaffiro dello stesso colore degli occhi della maga. «Ho molti nomi, Bromhuv, Uomo del Nord. Vengo chiamata “Sibilla”, ma non in questo regno. In un altro mondo mi conoscono con il nome di “Lamia”. Qui, i tuoi avi mi chiamavano “Nahgahzii”, l’oracolo»

Incantato dalla bellezza della creatura che aveva davanti, Tholos non aveva ascoltato una sola parola. Scosse la testa, cercando di ritrovare la lucidità e concentrandosi su quello che aveva da dire, ma lei non gli diede il tempo di ragionare e continuò: «Sei stato chiamato a me perché hai una missione importante da portare a termine. E solo tu, Tholos di Ahrolsekey, puoi assolverla. Il tuo nome, come quello degli altri Krifiik Do Dez, i Condottieri del Destino, è conosciuto da eoni. Solo gli appartenenti a questa casta possono sperare di sconfiggere l'eterno susseguirsi della Ruota del Fato.

«Ti sono state mandate visioni di un futuro possibile. La Ruota del Fato ha decretato che la Lot Kein, la Grande Guerra, quella da cui sei fuggito con il tuo destriero, sarà l’unica soluzione accettabile. E questo significherà la totale estinzione della maggior parte delle razze che abitano questo Lein, il mondo in cui vivi. Ebbene, come ho detto prima, il Fato esiste e al contempo non esiste. Alcuni individui, pochi per ogni generazione, hanno il potere di proseguire non visti dalla Ruota del Fato; questi sono i Krifiik Do Dez, personaggi che fuggono dalle grinfie del Dez, del Destino. Paradossalmente, costoro sono destinati a combattere il destino se decidessero di abbracciare la loro missione, salvando così migliaia di vite, spesso con un sacrificio... o più di uno.

«Tu sei stato già messo alla prova, Bromhuv. Hai perso la tua amata moglie, morta per parto con il tuo secondogenito. E questo non è passato inosservato. Ti è stato inviato uno Stahdim Grohiik, un Lupo con le capacità di poter vedere oltre il visibile. E il fatto che il tuo primogenito gli abbia dato il nome del figlio che non hai mai avuto è tutt’altro che un caso»

Tholos si preparò per fare altre domande, ma la donna alzò una mano, anticipandolo e zittendolo, e continuò: «Sì, Tholos di Ahrolsekey, tuo figlio Khylos è un Krifiik Do Dez come te. Ed è proprio lui la tua missione. Ti è stato fatto vedere ciò che succederà, ciò che lui vedrà, ma ciò che lui farà o non farà starà solo ed esclusivamente al suo arbitrio. Io e gli altri Nahgahzii confidiamo che tu lo sappia addestrare alla sua missione come hai fatto fino ad adesso, per quanto inconsapevolmente»

Mentre ascoltava titubante la donna, l’uomo si sentì osservato, ma da una presenza amica. Infatti, dietro di lui, vicino al Nonvul che stava brucando l’erba, gli occhi di nuovo normali, vide Khyler che osservava la situazione, gli occhi illuminati di una strana luce cangiante, come quelli di un lupo di un racconto della sua infanzia. Ed era una presenza beneaccetta, perché, nonostante all’inizio l’animale gli avesse ispirato qualche reticenza, col passare delle settimane questo si era rivelato un elemento non solo utile nelle faccende di casa e di lavoro, ma anche un utile compagno di vita per il figlio, giacché spesso gli evitava dei guai anche seri. Tholos guardò quegli occhi così luminescenti e, in un gesto d’affetto, aprì la mano e la rivolse verso l'animale, che subito si avvicinò e la leccò.

L’uomo si sporse verso il lupo, affondò il viso nella pelliccia e mentre gli accarezzava il garrese si ritrovò a versare lacrime calde; non riusciva a capire a cosa fossero dovute, ma era come se le trattenesse da tanto, troppo tempo.

Allora alzò lo sguardo e lo fissò sulla maga, gli occhi rossi e gonfi, ed ella disse benevola: «Bromhuv, Uomo del Nord, questo Grohiik non solo è un animale sacro, ma è anche infuso dello spirito di quel figlio che non hai mai potuto abbracciare. Quando tu non ci sarai, il tuo primogenito sarà in buone mani».

Ancora con il viso rigato e con voce tremante per le così tante emozioni vissute quella notte, Tholos si alzò in piedi e cercò di ricomporsi, raccolse tutta la forza di volontà che aveva e guardò negli occhi la donna che aveva di fronte: «Non ho mai creduto nel Destino. Mi sono sempre fatto strada con le mie mani e sono sempre stato sicuro che quello che ho deciso nella mia vita è successo perché è sempre stata una mia scelta. E voglio che mio figlio, anzi, i miei figli crescano con lo stesso spirito!» Fece una pausa e prese un lembo del mantello per tergersi le lacrime, poi guardò in basso, verso Khyler. Il lupo aveva di nuovo i suoi occhi, uno diverso dall’altro, che lo fissavano come in attesa; solo allora notò che uno dei due ricordava così tanto lo sguardo della sua amata Mhyssa. Lo accarezzò di nuovo sopra la testa, trattenendo a stento nuove lacrime e sentendolo vicino come non gli era mai capitato. Infine si rivolse di nuovo alla maga, la voce decisa, e chiese: «Che devo fare?»