Davanti allo specchio Onnigrafo Magazine

Davanti allo specchio

Milo si muoveva con la consueta eleganza. La giornata era splendida, l’ideale per cavalcarlo. Valeria lo accarezzò, e appoggiò la testa sul suo crine. Trascorsero pochi secondi. Milo roteò gli occhi, appariva impaziente. Una volta salita in sella, Valeria parlò con Giorgio, che le diede piena libertà nel percorso.

  Mentre il suo istruttore si allontanava per occuparsi dei ragazzini, Valeria si sistemò il caschetto e diede uno sguardo alla laguna. Venezia, in lontananza, era il solito spettacolo.

  «Hai sentito Milo?» disse poi al suo cavallo. «Possiamo cominciare. Andiamo a divertirci!»

Milo si muoveva assecondando ogni gesto di Valeria. La seguiva ad ogni movimento. Le mani sulle redini lo accompagnavano a ritmo. Poco più in là, il giovanissimo gruppetto di principianti, agli ordini di Giorgio, guardava curioso.

  «C’è tempo per arrivare a quello!» esclamò l’allenatore. «Abbiamo dell’altro lavoro da fare», disse ai suoi allievi, quasi tutti incantati dalla perfezione che era la cavalcata di Valeria. Ogni suo minimo gesto veniva tradotto al galoppo da Milo, che danzava tra un ostacolo e l’altro.

  Giorgio, che ogni tanto distoglieva lo sguardo per controllare Valeria, si chiedeva quanti dei suoi allievi, un giorno, avrebbero cavalcato con tale sicurezza. 

  La mattinata trascorse veloce. Nonostante l’affinità con Milo, Valeria sentì il bisogno di concedersi un paio di pause per il caldo. Lo accarezzava dopo ogni sorso. Era l’unico modo con cui riusciva a superare lo stress degli esami. 

  Milo avrebbe continuato a correre con lei per tutto il giorno ma, a mezzogiorno passato, il tempo terminava. L’ingresso di Sandra fece capire a tutti i presenti l’incombere dell’ora di pranzo. 

  «Abbiamo finito, amore!» le urlò il marito Giorgio, dal prato.

Sandra si fermò a fare due chiacchiere con Valeria, che aveva puntualmente terminato la sua attività, e salutato Milo a dovere.

  «Quando hai il prossimo?»

«Mercoledì. Non voglio neanche pensarci, Sandra» le disse la ragazza.

«Non ti preoccupare, andrà benissimo come sempre. Tua madre è molto contenta di te.»

  Una frase che la giovane aveva sentito più volte. L’aveva sentita da Sandra, da Giorgio, da qualsiasi persona la conoscesse abbastanza. Persone per lo più adulte, perché le sue poche amiche, e le compagne all’università, sapevano bene come potesse permettersi una media tanto alta.

  «Non ha vita sociale, di che ti stupisci?» Queste parole, pronunciate dalla più odiosa delle compagne che avesse mai potuto incontrare, tale Amanda dall’impronunciabile cognome tedesco, le risuonavano nella mente ogniqualvolta si tornava sull’argomento.

   «Non ti pare che abbia messo su qualche chilo?»

«Ma che dici!» esclamò, divertita, Sandra. «Avessi io il tuo fisico!» disse poi, ridendo. Ovviamente dello stesso parere fu sua madre, la sera stessa, durante la consueta conversazione a cena, davanti al telegiornale a basso volume.

  «Mi sarebbe piaciuto vederti gareggiare ancora.»

«Non ho tempo, mamma. Ne abbiamo già parlato.»

«Lo so, certo», disse sua madre. «Era per dire. L’importante è che tu non abbandoni le tue passioni, tesoro. Fai sempre quello che ti piace, la vita è un lampo.»

  Odiava quando faceva così. Abbassava la testa, guardando senza in realtà guardare il piatto sotto i suoi occhi, e si immergeva nella nostalgia. Valeria non lo sopportava. Vedeva in lei l’espressione della sofferenza, del rimpianto, di qualcosa che lei non avrebbe mai voluto essere.

  Nei suoi occhi tristi, che poi si rinvigorivano di fronte alle scenette comiche che davano una volta terminato il telegiornale, Valeria rivedeva suo padre. Non aveva mai superato la sua scomparsa.

  Le aveva insegnato lui a cavalcare, e la passione era cresciuta in lei di conseguenza. Ora l’unica figura paterna che si sentiva di avere a fianco era Milo. Altrimenti c’erano i libri: numeri, tabelle, grafici e calcoli di ogni tipo. 

  La carriera universitaria era cominciata da poco, e i risultati erano stati esaltanti. Valeria sapeva bene come il peggio dovesse ancora arrivare. Mentre tutti la vedevano già con le foglie d’alloro sulla testa, lei pensava al prossimo esame, alla media, al voto più alto.

  Ogni tanto si concedeva una pausa. Il bagno era il rifugio preferito, anche se ultimamente il grande specchio sopra il lavandino le creava dei problemi. I fianchi si erano allargati, nonostante le rassicurazioni di sua madre e di Sandra. A breve il busto avrebbe perso la sua naturale bellezza, e la forma compassata. Anche il sedere non era più lo stesso.

  Ci pensava anche mentre si vestiva. Sebbene i suoi pantaloni preferiti la facessero sentire bene, Valeria guardava oltre lo specchio, immaginando la sua gamba costretta tra il tessuto, imprigionata e non più reale come quando si vedeva nuda.

  Il caldo, che per tutto il mese non diede tregua, fece il resto. Una mattina, libera da impegni, Valeria decise di tornare al galoppatoio. Saltò in sella alla sua bicicletta. Da casa impiegava circa sette minuti. Si fermò prima delle strisce pedonali, lasciando passare una mamma con un passeggino. Si voltò quindi alla sua sinistra, attirata dalla vetrina del negozio di vestiti.

 Le bastò un secondo. Sentì vampate di calore per tutto il corpo, e un senso di vergogna che mai aveva provato in precedenza. I fori sulla sua coscia, evidenti sotto la luce del sole, si riflettevano sulla vetrina, visibili a tutti.

  Tolse il piede dal pedale, per stendere la gamba. Ciò che aveva visto le diede la nausea. Pensò che a nulla serviva nascondere la realtà; avrebbe ripiegato la coscia per pedalare di lì a poco, e poi si sarebbe seduta sopra Milo, per cavalcalo. Il pantalone avrebbe solo nascosto il difetto, che restava, e sarebbe restato sempre, anche se nessuno l’avrebbe visto.

  Ad ogni pedalata ebbe l’istinto di abbassare la testa, ma preferì tenere gli occhi sulla strada. I pantaloncini corti la stavano mettendo in ridicolo di fronte a tutti. Una ragazza carina, ma pur sempre con le gambe grosse, e la cellulite. La vergogna dipinta sul volto.

  Non riuscì a pensare ad altro per tutta la mattina. Il primo ad accorgersene, naturalmente, fu Milo.

«Attenzione, Vale!» le urlò, in un paio di occasioni, Giorgio. «Lo fai innervosire!»

Valeria sapeva bene il fatto suo, non aveva bisogno di consigli, ma non poteva impedire a se stessa di sentirsi turbata. 

  A cena parlò pochissimo con sua madre. Ebbe il terrore di andare in bagno. Ci mise alcuni giorni a guardarsi completamente, per vedere in quanti altri modi dovesse avere paura del suo corpo. Le cosce, i fianchi, persino l’addome erano cambiati. Pensò al peggio. Sarebbe ingrassata a dismisura, nonostante Milo, nonostante la sua attività fisica.

  Trascorse l’intera estate sui libri, cercando di dimenticare. Gli esami furono un successo, ma nessun sorriso accompagnò la giovane Valeria durante le sessioni. Nessun sollievo per la studentessa con la media più alta del corso, e poca voglia di parlare.

  Forse era vero che non aveva vita sociale, come diceva Amanda la tedesca. Le sue non erano state parole di invidia. Si era ridotta così solo per colpa sua. 

  Sua madre ne parlò anche con Sandra, che le diede il numero di un ottimo dietologo. Valeria, chiusa in se stessa, faticò ad accettarlo. Poi si convinse; era stato proprio il cibo, assieme all’ansia per lo studio, la causa di tutto. Dimagrendo avrebbe ritrovato il sorriso.

  I primi mesi di dieta furono un successo. Sebbene andasse a cavalcare con sempre meno frequenza, ebbe comunque la gioia di vedere i risultati di fronte al solito specchio. Voltandosi prima su un fianco, e poi sull’altro, rivide la Valeria di qualche anno prima.

  Era comunque difficile liberarsi della cellulite. Si toccava in continuazione, e la vedeva prendersi gioco di lei. Il suo medico non lo riteneva un problema, per Valeria invece rappresentava la frustrazione. Ce l’aveva addosso, la sentiva, la pensava quando si sedeva per studiare. La copriva con le mani anche prima di andare a dormire, dopo aver passato una buona mezz’ora a spalmare un’inutile crema.

   Erano passati sei mesi da quando aveva cominciato la dieta e, nonostante i risultati fossero visibili a tutti, Valeria decise di andare oltre. Ebbe nausea del frigorifero, dei suoi odori. La verdura alla griglia, che sua madre le preparava ogni sera, cominciò a darle il voltastomaco.

  Si alzò appena dopo l’inizio del film. Corse in bagno. Sua madre si voltò verso la porta che aveva chiuso con violenza; passati alcuni secondi, la sentì. Il freddo dell’inverno aveva seminato la solita pericolosa influenza. Non c’era da stupirsi se sua figlia stesse vomitando.

  Valeria, ogni volta che alzava la testa e si guardava allo specchio, vedeva una persona che non voleva in nessun modo vedere. Rimetteva la mano sui capelli, li tirava all’indietro con forza, e chiudeva gli occhi per farlo di nuovo. Ad ogni sforzo pensava a quanto tempo avrebbe impiegato per depurare totalmente il suo corpo. 

  Le visite di controllo dal dottor Del Santo cominciarono ad innervosirla. Durante il lungo viaggio dal Lido al suo studio di Mestre, Valeria sentiva lo stomaco contorcersi, la nausea salire fino alla gola. Tra le onde del vaporetto, e le frenate dell’autobus, la volontà era quella di sparire, non farsi vedere da nessuno.

  «Sei sicura che continui a mangiare ?» le chiese, con aria sospetta, il dottore.

«Sì», rispose Valeria, con lo sguardo basso. Il viso era completamente scavato. Sapeva che Del Santo leggeva i suoi zigomi, il mento, persino le tempie. Era convinto che fosse malata. Valeria, invece, si sentiva bene.

  «Mi ha messo paura, Vale. E se continui a non rispondermi, a non parlare, mi metterai paura anche tu», le disse sua madre. «Hai ottenuto quello che volevi. Stai bene, sei in salute, non puoi rifiutarti di mangiare, peggiori solo le cose.»

«Hai finito ?» le chiese, ironicamente, sua figlia. Stava lentamente sparendo, non solo fisicamente, e di questo sua madre ne aveva parlato anche con Sandra.

  «La vedo male, non la riconosco!» le disse, quasi in lacrime, al telefono.

«Devi farti coraggio, vedrai che è solo un momento», rispose Sandra. Di figli, lei e Giorgio, non ne avevano. Pensavano entrambi al padre che non aveva più, ogni volta che parlavano di lei. Non la vedevano più da mesi. L’ultima volta che era venuta a cavalcare, Milo si era rifiutato di farla salire in sella. Si era agitato, si era rigirato su se stesso più volte, quasi a cercare di fuggire la sagoma ormai irriconoscibile di Valeria.

  A lei tutto questo non importava. Lo specchio continuava ad allargarla. Lei rispondeva puntualmente. Faceva uscire tutto.

  «Fammi entrare, Vale! Apri! Ti prego!» urlava, ad ogni conato, sua madre. Valeria non aveva occhi che per il suo corpo, e nessun rumore era più bello di quello del tentativo di liberarsi, ancora e ancora. Colava il trucco, i capelli si tingevano di sudore, e il pallore la rendeva trasparente.

  Il dottor Del Santo impiegò poco a decretare la sentenza: anoressia. All’università si cominciò a vociferare di lei. Non si vedeva più in aula, non si sapeva se stesse continuando a mantenere la sua eccellente media.

  «Ma di chi parli?» 

«Valeria, quella del Lido!» rispose, alla precisa domanda dell’amica, Amanda. «Dicono che sia arrivata a pesare quaranta chili. Non oso immaginare come sia!»

  Di esami ne aveva dati pochi. Di fronte ai libri, ogni sera, Valeria aspettava solo il momento più opportuno per andare al bagno. Con sua madre aveva interrotto ogni tipo di dialogo. 

  A Valeria veniva il mal di testa quando pensava a lei, seduta sul divano, a commiserarsi per non avere più a fianco un marito. Le veniva il mal di testa, e si aiutava poi con qualche pillola. Ripensava a Milo, per poi gettare lo sguardo sulla dispensa sottolineata, ma mai realmente studiata.

La quiete apparente di casa era comunque sul punto di esplodere. 

  «Perché non lo fai per me? Prendine solo un cucchiaio.»

«Non devo fare niente per te, mamma. E’ la mia vita, non la tua!» rispose Valeria.

«E’ la tua salute, Vale! Possibile che non te ne rendi conto ?»

«Di cosa?» le chiese, alzando la voce, sua figlia. «Di cosa dovrei rendermi conto? Di quanto è difficile per te accettarmi?»

  Il singhiozzo divorava ogni tentativo di risposta. Sua madre tratteneva il dolore in gola.

«Io… non riesco…» singhiozzò.

«Cosa?» urlò allora Valeria. «Cosa non riesci a fare? Sei solo una stupida, mamma!» esclamò, alzandosi da tavola. Di fronte al pianto di sua madre, coperto a malapena dalla mano che portava ancora la fede al dito, Valeria esplose di rabbia. 

  La frustrazione, dentro il suo corpo gracile, scaturì in un pianto nervoso. Corse al suo rifugio. Si spogliò, quasi stracciando la maglietta che aveva addosso. La lasciò cadere sul pavimento.

  Allontanò ogni indumento col piede, comprese le mutande. Si tolse gli anelli, i braccialetti dai quali non si separava mai, nonostante percorressero le braccia scheletriche ad ogni movimento del corpo.

  Continuando a piangere, guardava i suoi piccoli seni e, sotto un’irrefrenabile voglia di strapparseli di dosso cominciò a graffiarsi, a colpirsi, a urlare davanti al solito specchio.

  Scivolò, nel fare il passo necessario per arrivare alla bilancia. Urtò l’anca sul lavandino, sentendo un dolore lancinante. Si rimise in piedi, mossa dalla rabbia. Piangeva nervosamente. Sopra la bilancia, una volta visto il peso, cominciò a saltare.

  Batté i piedi con forza, e ogni volta sentiva il dolore salirle dalle piante fino al petto, quello stesso petto del quale voleva liberarsi, per abbandonare gli ultimi residui di femminilità che le erano rimasti. Non era più una ragazza, non voleva sentirsi una donna, e non sapeva nemmeno lei cosa volesse diventare. Ma si stava trasformando.

  Sentì il dolore unirsi all’odio che aveva dentro il ventre. La bilancia segnava ancora il suo peso, trentaquattro chili, quando sua madre aprì con violenza la porta. Vide sua figlia nuda, fragile, morente di fronte ad ogni volontà di reagire. Aveva messo due dita in gola, e si stava preparando a rifarlo, questa volta davanti a lei.

  La prese, con forza. La afferrò come voleva fare da tempo. Le dita la colpirono come lame. Sentì le unghie lacerare la pelle bianca della sua bambina, il suono fragile del suo corpo.

  Fu insultata, prima che entrambe cadessero sul pavimento. Lei, dominata ancora dall’istinto materno, la stringeva con tutto l’amore che sentiva di avere. Valeria giaceva sopra di lei. Avvertiva il calore delle sue braccia, vedeva a pochi centimetri i vestiti che aveva gettato poco prima. Piansero tutte e due, per diversi minuti.

  Ad ogni lamento, Valeria sentiva l’esigenza di alzare la testa per sputare tutto fuori di nuovo, ma le mani di sua madre, tutte attorno, la fecero desistere. Le carezze arrivarono in seguito. Non ci fu bisogno di parlare, dopo quell’episodio. Presero sonno insieme, sul letto di Valeria, nella sua camera, sul cuscino dove per mesi aveva versato lacrime di agonia.

  Dai pianti e dal silenzio successivo di quella sera, Valeria cercò di rialzarsi. Ricominciò ad uscire di casa. La bicicletta non doveva rappresentare più un problema. Faticava a pedalare, i muscoli le si erano quasi intorpiditi, ma riuscì a trovare il tempo di fermarsi ai cancelli del galoppatoio. Senza farsi vedere da Giorgio e Sandra, cercò il suo Milo. E lo trovò. A qualche decina di metri da lei, nitriva sconsolato, con il muso rivolto all’erba.

  Oltre il suo cavallo, la laguna continuava a rimanere meravigliosa. Pensò a quanto tempo avesse gettato via. Pensò allo sconforto, ma sentì forte l’entusiasmo di pedalare. Scappò via dalle vetrine, dagli specchi, e dai segni del passato.

  Sua madre la vide presto rivivere. Ogni traccia di paura cominciò a sparire dai suoi occhi, a mano a mano che l’appetito le tornava. La osservava mangiare, e tratteneva a stento le lacrime. Guardando poi la fede sul suo dito, si convinse che qualche merito l’avesse avuto anche lui.

  «Sei pronta?» le chiese, a quasi due anni dal principio della dieta, di fronte alla clinica raccomandata dal dottor Del Santo.

«Sì, mamma», disse Valeria. Sua madre non si aspettava altro tipo di risposta. Le tenne la mano, una mano vera, dove il sangue scorreva e la paura era scomparsa. I braccialetti danzavano su un polso magro ma vivo, in costante movimento, proprio come gli occhi di sua figlia.

  «Valeria Sartori», disse la segretaria. Sua madre si fece in disparte. Valeria si appoggiò al bancone per fornire tutti i dati necessari. Non si voltò mai verso di lei, prestando attenzione ad ogni parola che le veniva detta. Tra una domanda e l’altra, e anche durante il percorso alla camera, Valeria pensò solo a Milo.