Quando il buio calava sulla città, Loy si perdeva nelle luci sparate dalle automobili sulle strade. Quando pioveva, raggi multicolore esplodevano dalle gocce, echi magici cantavano fino alla piccola casa in cui viveva, appena fuori città.
Loy amava la notte e la pioggia. Sarebbe potuto stare ore a guardare quei minuscoli cristalli liquidi cadere sulla terra, avrebbe voluto essere lì, tra i lembi d’erba, piccolo come una formica, ad ammirare quello spettacolo così entusiasmante, come una danza.
Avrebbe voluto uscire, avrebbe voluto correre. Semplicemente. Ma non poteva. Sarebbe invece rimasto dentro quella vecchia lamentosa casa di legno, protetto dalle robuste finestre che solo il sibilo del vento facevano udire. Sarebbe rimasto a guardare fuori, distratto di tanto in tanto dal riflesso grigio e storto di quel bambino, inchiodato come un pupazzo di pezza su quella maledetta sedia, tanto ingombrante quanto importante.
Loy viveva con nonna Daria. Una robusta signora di quasi sessant’anni, alta e austera; Loy nei suoi occhi ritrovava suo padre, ma non nelle carezze. Quelle la nonna non ne aveva per nessuno. Pareva fatta di marmo, tant’era fredda con il piccolo Loy. La verità è che aveva timore di fargli del male, che con quelle ossa fragili, il piccolo, a malapena si sosteneva per se.
Due anni prima Loy aveva insistito perché la sua stanza venisse spostata nella mansarda; da lì avrebbe potuto vedere la magia della città. Lo aveva desiderato così tanto e così a lungo, arrivando persino a digiunare e la nonna Daria, alla fine, aveva ceduto. Ogni volta che Loy si spostava su e giù dal montacarichi, però, la paura di vederlo cadere e infrangersi a terra come un vaso di porcellana la attanagliava. La rendeva così nervosa che doveva fumare, era una necessità imperativa. E allora, quando il piccolo era giunto di sopra, lei usciva nel portico e si accendeva una sigaretta.
Nel completo silenzio di una casa di alta collina, tra i faggi e i castagni, una quiete immemore, ancestrale. Lei, il suono del vento, la città in lontananza e il crepitio sordo del tabacco che brucia. Come se quella piccola spina di catrame avesse potuto in qualche modo bruciare tutta l’ansia che le gorgogliava dentro. Si chiedeva come quella foglia arida avrebbe potuto resistere quando anche lei sarebbe diventata grigia, vecchia. Si chiedeva chi avrebbe vegliato sulla sua vecchiaia e chi sulla vita di quel ramoscello secco che era suo nipote. Più lo guardava e più vedeva il suo amato figlio Adrian. Loy però era una maschera di porcellana, privo della capacità di dimostrare emozioni e i suoi occhi si illuminavano soltanto quando guardava oltre la finestra. O almeno era così che nonna Daria lo vedeva.
Ma Loy dentro bruciava. Bramava la scoperta, la conoscenza, gli odori del mondo. Voleva assaggiare il sapore di quella luce così viva e colorata che bagnava le strade della città nella valle. Voleva sentire il rumore delle automobili, voleva incontrare gli sguardi delle persone, sentire il loro frenetico ritmo, vederli correre. Avrebbe voluto vedere cosa significava vivere davvero, almeno negli occhi degli altri.
Loy si addormentava sulla sua sedia con le ruote frenate davanti all’ampio lucernario della mansarda, altalenando lo sguardo tra il grande mappamondo di suo padre e i barlumi della città. La nonna saliva piano le scale, lo prendeva delicata e lo metteva nel suo letto. Così ogni sera da quasi otto anni. Poi tornava di sotto, nella sua camera e sprofondava nel sonno.
Di notte Loy sognava di volare oltre la collina, fin verso le montagne innevate. Di salire ripido lungo le rupi rocciose fino alla vetta coperta dai perenni ghiacciai. E di andare sempre più in alto, senza fermarsi, fino a vedere il mondo intero. Sognava di librarsi nel cielo e cavalcare il vento tra i fiocchi di nuvole, piroettare tra le onde degli oceani, sorvolare le aride steppe, le sontuose brughiere, accarezzare i pinnacoli verdi delle grandi foreste, passare tra i grattaceli di una città e guardarla sbocciare nella notte, con le magiche strisce luminose a riempire il buio dell’asfalto. Sognava quel mondo, tondo come il mappamondo scorrergli tra le mani e puntando un dito a caso, ritrovarsi a esplorare l’uno o l’altro luogo. Ma anche in sogno alla fine l’alba reclamava la sua parte, e anche Loy tornava alla sua realtà, con nelle mani il suo mappamondo. Nulla più.