Il
mio appuntamento di oggi è con un certo Emilio Fedele, che so per certo essere
il braccio destro di quell’omuncolo avvolto da un enorme strato adiposo di nome
Alfonso. Il cognome non me lo ricordo, ma cosa cazzo me ne frega di saperlo?
Basta che mi paghino quello che mi hanno promesso.
Quando mi hanno telefonato per propormi l’affare, sono passato subito al sodo. Ho chiesto cosa volevano e quanto mi avrebbero dato, quello che mi bastava per decidere se accettare o meno.
Ho una lista di assassinii talmente lungo da non lasciarmi abbindolare facilmente da cialtroni, non mi piace perdere tempo dando informazioni inutili, quello che c’è da sapere su di me è riportato sul curriculum che loro hanno ricevuto e certamente visionato. O non mi avrebbero chiamato.
Sono fermo su una poltroncina in pelle nella hall di un albergo in attesa del mio interlocutore, ha già accumulato due minuti di ritardo e questo non depone certo a suo favore. Gliela farò pagare cara l’avermi fatto aspettare in mezzo all’odore pungente della candeggina utilizzata per lucidare il pavimento e il puzzo di topo morto proveniente dal banco della reception. O un insulso animale si è preso la briga di giocare a nascondino, oppure qualcuno si è tolto le scarpe e sta spargendo arie maleodoranti in giro per l’albergo.
Mi alzo e mi sgranchisco le gambe, non riesco a stare fermo nella stessa posizione e questo odore nauseabondo mi sta facendo andare fuori di testa.
«Ehi tu, alla reception! Ci sono messaggi per me?»
Cazzo, quello sguardo impaurito nei miei confronti è un chiaro oltraggio alla mia dignità e io odio profondamente chi mi sfida con lo sguardo, anche se dietro a esso c’è timore.
Mi avvicino in tutta fretta, questo insulso individuo ha bisogno di una bella regolata e finché continuerà a guardarmi, io mi sentirò legittimato a rompergli l’osso del collo.
«Ti ho fatto una domanda!»
«N… nessun m… messaggio signore»
Cristo, odio i balbuzienti.
La sensazione delle mie mani attorno al suo collo mi riportano in vita. Vederlo soffocare sotto la mia stretta mi dà quel senso di onnipotenza che mi aiuterà a restare lucido per tutto il resto della giornata.
Maledetto Fedele, dove cazzo è finito?
Ritorno a sedermi con le mani ancora informicolate per l’emozione. Se qualcuno avrà qualcosa da ridire sulla morte del balbuziente, che venga pure a protestare dal sottoscritto. Ce n’è per tutti.
La luce della sala mi abbaglia, abbasso subito lo sguardo per evitare lesioni agli occhi, mi servono per individuare le vittime e centrare gli obiettivi.
«Carlos Fonsi?»
Alzo lo sguardo appena in tempo per ritrovarmi di fronte a un nanerottolo, che avrà all’incirca dieci centimetri meno di me e dieci anni in meno. Un pivello. Sono stato assodato da un pivello.
«Vede qualcun altro nel luogo dell’appuntamento?»
«Certo che no. Emilio Fedele, piacere. Lavoro per Alfonso… ».
«Bla bla bla. Leva quella sudicia mano da davanti tanto non te la stringo. Dimmi solo chi devo fare fuori e se il prezzo è quello pattuito, maggiorato dei minuti di ritardo di questa mattina»
«Ho dovuto visionare un altro candidato prima di lei, ho fatto tardi a causa della pratica che gli ho chiesto di applicare. Cervello spappolato in un minuto, ma la fuga mi ha costretto a molte deviazioni. Da qui il mio ritardo. Passiamo a parlare di affari ora».
Vederlo deglutire per essere riuscito a portare a termine una frase tanto lunga mi lusinga. Al mio cospetto si sentono tutti in soggezione. Soprattutto le donne che non sanno resistere al fascino del quarantacinquenne brizzolato dal fisico atletico e con un fedele amico fra le mutande. Non è colpa mia se poi finiscono strangolate. Sono loro a chiedere di essere legate e sempre loro a proporre certi giochi. Io ci sguazzo nel loro piacere e godo nel vederle soccombere.
«Ascolta ominide avvizzito. Io sono un professionista, uccido per commissione ma anche solo se mi stai sul cazzo. E tu sei un ottimo candidato.»
«Fonsi è un cognome portoricano, giusto?»
«Che cazzo c’entra il mio cognome?»
«C’entra se lei è chi io penso sia. E tapparmi la bocca infilandoci dentro quel manico di scopa che si vede da qui, non la aiuterà. Ho capito con chi ho a che fare.»
«Sono certo che ti sbagli. Tu non hai capito un cazzo.»
«E invece credo proprio di sì. Tuo fratello ha frantumato i coglioni al mondo intero con un paio di strofe ben assestate e tu ora vuoi dimostrare di essere bravo quanto lui, ma non in ambito musicale.»
«Tu non sai quello che dici.»
«Continua pure a dissimulare ma questo incarico, esattamente come tutti gli altri, non ti farà dimenticare le tue origini.»
«Sei un bastardo a tirare in ballo mio fratello.»
«Mai quanto te nel volerlo diseredare.»
«Se tu fossi il fratello di Luis Fonsi agiresti come me.»
«Non puoi far pagare a tutti quanti per quello che ha fatto tuo fratello. Tu uccidi le persone come lui ha ucciso la musica. Facevi prima ad ammazzare lui.»
«E perdere sui diritti sulla vendita? “Despacito” fa cagare ed è una palla al piede, ma mi ha pagato la cauzione per tre volte.»
«Vedi che avere un fratello famoso è utile?»
«Nel mio caso avere lui come fratello famoso mi ha portato a diventare un assassino seriale. Tutto pur di eliminare ogni traccia di “Despacito” dalla mia vita. Ti entra dentro, ti perseguita, è una spina nel fianco. Io ho delle regole tra cui ”Non nominare Despacito invano”. Se lavorerò per te, mio l’assassinio, mie le regole. Quando comincio?»
«Comincia a menadito a ballare “Despacito”.»
La mano trema ancora dopo aver sbattuto ripetutamente la testa di Fedele contro il tavolo. Uccidere chi mi stava offrendo un onesto lavoro non era previsto, ma la pazienza non è il mio forte e neppure la tolleranza. Guardo il rivolo di sangue ricoprire il piano in marmo, sarà meglio che io mi tolga dai piedi, non vorrei sporcarmi queste costosissime scarpe col sangue impregnato di reggaeton.
Emilio Fedele non avrebbe mai dovuto provocarmi. La colpa è sua e di quelli come lui che pretendono di minacciarmi utilizzando il mio cognome.
Il mio nome è Carlos Fonsi e sono un assassino seriale per chi ha un pessimo gusto musicale.