Fear of the dark Onnigrafo Magazine

Fear of the dark

“I am a man who walks alone,

and when I am walking a dark road

At night or strolling through the park.

When the light begins to change…”.

(Fear of the dark-Iron Maiden)


Come cambia la vita pensò. Quella che da piccolo era la sua più grande paura, ora era sua amica.

Quella canzone era passata nella sua testa in continuazione negli ultimi anni.

Si sentiva a suo agio quando giungeva la notte; in quel momento le persone erano tutte uguali, tutte sagome scure che camminavano sole, senza nemmeno l’ombra a farle compagnia.

Pensava che solo in quella circostanza nessun viandante avrebbe potuto vedere il suo volto segnato dagli anni di carcere.

Si, perché quel lungo periodo di reclusione, lo aveva segnato dentro e fuori. Aveva perso il conto dei giorni quasi subito, ignorando il continuo girare delle lancette sull’orologio che gli avevano tolto appena entrato.

La poca luce che passava attraverso le sbarre quadrate della piccola finestrella era l’unica fonte di tempo e di luce. Aveva iniziato a segnare sul muro i giorni: sei stanghette verticali e la settima in orizzontale per chiudere la settimana: presto si era stancato anche di quella conta.

Erano passate talmente tante meridiane che aveva scordato anche il motivo per cui era stato rinchiuso, o più semplicemente gli faceva piacere non ricordarlo.

Al calar del buio, quando i lampioni illuminavano la strada con un tono giallastro, usciva. Nascosto nel suo parka verde con i jeans vecchi e trasandati e degli scarponcini Timberland, gli stessi che indossava il giorno che lo fermarono, si aggirava come un fantasma tra i fantasmi.

Il parco non era una zona sicura. Era sconsigliato aggirarsi tra i platani e le acacie nelle ore notturne. Gli spacciatori, i rapinatori ed gli stupratori che lo frequentavano, avevano fatto istituire un coprifuoco volontario tra la gente del quartiere.

Lui camminava tranquillo, non aveva più paura del buio, né della gente. Forse era la gente, o meglio quel tipo di gente, che doveva aver paura di lui.

Lentamente cominciò a ricordare, o il ricordo, sbiadito come la foto sulla lapide della figlia, iniziava ad esser meno doloroso.

Passava le ore dal tramonto all’alba, con la stessa frenesia con cui passò quelle settimane di ricerca.

Era andata a giocare in quel parco una sera di gennaio.

Le foglie cadevano dagli alberi staccate da un leggero vento. Quel soffio artico le portava in giro tra i palazzi, dipingevano voli pindarici, in alcuni casi disegnavano mulinelli o trovavano l’ultimo passaggio per il marciapiede spostate dalle auto;

altre morivano sotto gli pneumatici.

Gli stessi pneumatici, che la portarono in una casa abbandonata dove fu gioco e distrazione di un figlio di un preservativo bucato, come diceva lui.

Ormai quel parco era la sua meta serale e notturna.

Credeva di sentire la sua voce di bambina quando prendeva quelle foglie al volo, quando rincorreva un hula hoop, o rideva sull’altalena sotto le sue spinte.

La vedeva leggere i libri su quelle panchine una volta cresciuta, scrivere pensieri d’amore sul suo libretto rosso, protetta da un berretto dei Detroit Tigers. Quella “D” ricamata in grigio su tessuto nero, era la sua, era di Desdemona.


Una sera quel ricordo gli sembrò diventare reale.

Lei camminava con passo indeciso, la testa bassa: i lunghi capelli biondi le scendevano da sotto il cappello di lana, le mani nelle tasche del suo Moncler viola e lo sciarpone multicolore che le copriva il collo fino al naso.

La vide avvicinata da un uomo e l’abbordaggio gli sembrò violento.

L’aggressore, abbastanza robusto, la strattonò portandola dietro ad un cespuglio.

Lui sentendone i lamenti si avvicinò.

Nascosto sotto l’ombra assente degli alberi, seguì quei vagiti silenziati da una mano.

Gli anni al buio lo avevano aiutato nella vista notturna.

La morte della figlia, la moglie che non era più andata a trovarlo a causa di una malattia che la portò via dopo tre mesi, lo avevano ingravidato di una rabbia che nacque dopo anni.

Anche di quella morte accusò quel figlio di un cane, con tutto il rispetto per i cani.

Sì, perché se non potè starle vicino, se non aveva potuto presenziare al suo funerale, non era per colpa sua, per quello che aveva fatto, ma per quello che gli era stato fatto.

Venuti a conoscenza dell’accaduto, gli fu concesso l’uso dei lacci e di ogni cosa in carcere.

Non per alleviare il suo dolore.

Sia il direttore che le guardie carcerarie, speravano di trovarlo morto ogni mattina; magari strozzato da un laccio ingoiato, impiccato con la sua cinta, accoltellato: qualsiasi cosa, purché non uscisse vivo, purché quella belva non varcasse il cancello.

Avevano rispettato il suo gesto, pur non condividendolo, non sarebbero stati loro la causa del suo decesso.

Lui aveva resistito, aveva covato quell’odio, lo aveva portato in grembo per tutto quel tempo.

Neanche la bronchite lo aveva bloccato. Rifiutò le medicine, doveva uscirne da solo, alimentando quel mostro dentro di lui di qualsiasi cibo.

Tolse la cinta dai passanti, la girò tra le mani.

Quella richiesta di aiuto inascoltata da tutti, fu strazio per lui.

Era sua figlia a chiedere aiuto?

Era il suo corpo ad esser profanato?

Quei lamenti gli diedero la possibilità di avvicinarsi, di coglierlo alle spalle.


“Thought you heard footsteps behind”

“Pensavo di aver sentito dei passi dietro”


Forse lo aveva pensato anche l’aggressore.


“And turned around and no one's there?”

“E girato intorno e non c'è nessuno?”


Il buio ed i cespugli lo nascondevano.


“And as you quicken up your pace “

“E mentre acceleri il ritmo “


L’eccitazione ed il piacere stavano prendendo il sopravvento.


“Trovi difficile guardare di nuovo

You find it hard to look again

Perché sei sicuro che ci sia qualcuno lì”

Because you're sure there's someone there


Passò la striscia di cuoio sotto il collo, una botta secca.

CRACK.

Il corpo rimase esanime appeso per la gola, senza gravare sulla ragazza.

«Corri, vai via senza voltarti indietro, e dimentica tutto se puoi!»

Lei obbedì.

Era arrivato in tempo, l’omone non aveva fatto in tempo ad iniziare il rapporto. Le aveva aperto il piumino e scoperto il seno. Si era aperto i pantaloni mostrandole la sua erezione, sparita insieme alla sua vita.

Non volle guardare neanche le sembianze, non voleva il suo odio si tramutasse in razziale.

Fece solo attenzione a non lasciar tracce di lui come era successo l’ultima volta.

Ricordò la casualità delle coincidenze. Il tesserino della piscina di Desdemona trovato per caso nel cofano di un’auto mentre aiutava un automobilista in difficoltà.

Il pedinamento fino alla sua abitazione, la vendetta consumata in maniera atroce.

Questa volta il giorno dopo si parlò solo di una morte misteriosa nel parco.

Lui continuò a frequentarlo, continuò a vivere la notte tra quelle foglie e quelle panchine.

Lei da quella sera era rimasta a casa per due settimane, ma il primo giorno della terza….

Erano iniziati cadere i primi fiocchi, alcuni dal cielo, altri direttamente dagli alberi, spinti dal vento.

Lei riconobbe quella giacca, l’unica cosa che voleva ricordare di quella sera, la sua ancora di salvezza.

«Non ti ho mai detto grazie!»

«Che ci fai qui? Non ti è bastata l’esperienza passata?»

«Al contrario, mi è servita a capire che non ci sono solo belve in giro.»

«Attenta che anche il maremmano può essere più feroce del lupo.»

«Beh sicuramente sei stato il mio maremmano. Posso offrirti qualcosa di caldo? Dopo avermi salvata, non vorrai mica farmi morire di freddo?»

Si avviarono verso un locale ancora aperto; lui con uno sguardo più freddo della temperatura serale, lei incuriosita.

Il loro cammino segnato dal fumo delle loro bocche, dalle ombre che cambiavano direzione passando da un lampione all’altro.

Al tavolino, finalmente riuscì a vedere il suo salvatore.

Il viso scavato, i capelli che iniziavano ad andare sul brizzolato, segno dell’età che avanzava. L’unica cosa che riconobbe di quell’avventura, insieme alla giacca, furono gli occhi.

Rivide la luce alla fine del tunnel di quella sera.

Quegli occhi così chiari, eppure così bui, privi di luce.

Sentì le vibrazioni delle sue corde vocali, che sembravano emettere una voce mononota, senza cambiamenti.

Lui erano anni che non parlava con una donna, anzi erano anni che non parlava proprio.

Narrò di una ragazza scomparsa e ritrovata morta.

Raccontò di un tesserino visto per caso che lo aveva portato alla sua vittima e di una ricevuta di tintoria caduta per sbaglio che aveva permesso alla polizia di trovarlo.

Le parlò di una evirazione brutale fatta su un corpo sveglio, di un’anima che scendeva all’inferno mentre il suo sangue lavava il pavimento.

Di come le sue grida furono smorzate da quel pezzo di carne nella sua bocca.

Le narrò di un carcinoma che gli aveva portato via l’unica ragione di vita rimasta, che non era riuscito neanche a salutare, se non sulla fredda lapide.

Lo raccontò tra i brividi, lei ascoltò con le lacrime.

«Così nacque il maremmano, che divenne lupo quella sera!» sentenziò lei.

Finalmente si sentiva sollevato era riuscito ad aprirsi con qualcuno.


Vide due figure entrare nel locale attraverso la porta chiusa. Vestite di bianco gli sorrisero, lo salutarono e andarono via.

Riconobbe la figlia e la moglie.


Guardò la ragazza davanti a lui, leggermente coperta dal fumo della cioccolata calda.


«Grazie ancora, non credo sia sufficiente questa cioccolata per sdebitarmi. Fossi stata al tuo posto, forse avrei fatto la stessa cosa.»

Lo accarezzò, gli fece capire che non aveva paura di lui.

La sua rabbia si stava smorzando. Il mostro che aveva nutrito per anni lo stava abbandonando, l’unico di cui non avrebbe mai sentito la mancanza.

«Grazie a te! Questa cioccolata mi ha salvato!»

Si sentì sollevato, iniziò a sentire le sensazioni di una volta.

Riaccompagnò la ragazza a casa, rientrò nella sua e si sdraiò sul suo letto.


Finalmente riuscì a dormire.