Rocco e l'origine del male Onnigrafo Magazine

Rocco e l'origine del male

Il fiume scorreva placido e scorre ancora oggi, lambendo le colline e attraversando la conca. 

Aria calda oggi, più calda a causa del fumo delle ciminiere delle tante fabbriche. Aria calda ieri, malsana e irrespirabile a ridosso di un'ampia palude malefica.

Si racconta di una piaga malarica, di una orrenda viverna che imputridisce l'aere col suo fiato mefistotelico. Si racconta di una città antica e piena di paure, di gente che moriva agli angoli bui delle strade o lungo i sentieri di campagna, perché raggiunti e divorati in poco tempo da uno strano morbo, una di quelle malattie che ti consumano con rapidità e consumano chi ti sta attorno, una di quelle malattie che talvolta richiedono di porre fine al dolore altrui per prevenire il proprio.

Si raccontano storie, molte di queste sono pura finzione, sono leggende, metafore di una realtà ben poco poetica e sognante, si racconta di paure esorcizzate nella finzione di una indifferenza che poteva solo sciogliersi in mesto pianto tra le mura silenziose di una casa dove si cercava conforto e riparo e il modo migliore per nascondere ciò che non andava rivelato.


Si dovrebbe parlare della grande cultura ingegneristica e idraulica di una Roma antica, di tempi davvero lontani e della capacità di guidare il corso di un fiume per bonificare un’area paludosa. Ma è molto più bello raccontare una favola.

In una data poco certa in pieno Medio Evo, il consiglio degli anziani della antica città umbra chiamataInteramna Nahars, che viveva sotto la guida dello stato pontificio, trovò un giovane coraggioso disposto a sacrificare la propria vita tentando di salvare la città. Il giovane cittadino con la sua spada e lo scudo al braccio, proprio come un San Giorgio che trionfa sull'antico splendore pagano, andò pieno di coraggio fino alla palude per uccidere l'orribile bestia che tanto faceva tremare tutti. Una lotta feroce contro una creatura forse demoniaca, una bestia talmente orrenda da esser quasi fantastica. Era forse la viverna causa della malaria, o forse il suo ruolo era semplicemente quello di fare da guardiano a qualcosa di ben più dannoso di insetti e acqua putrida?

Il drago venne dunque ucciso da quello spavaldo cittadino, che caso volle si chiamasse proprio Cittadini di cognome, e finalmente le terre circostanti trovarono sollievo, l'aria si fece respirabile e le valli circostanti la vecchia palude, prima disabitate, si riempirono di case e gente rumorosa.

Oppure appunto furono dei lavori di deviazione di altri corsi d'acqua a bonificare la terra.

Fatto sta che quelle zone non avevano conosciuto prima di allora vitalità alcuna. Realtà ingegneristica o coraggio virile che fosse stato, in quella zona restava comunque qualcosa; restava nel sottosuolo, ormai imbrigliata dalle bonifiche, fin dentro la città stessa, come uno strato di fango immobile in attesa di ribollire. All'esterno in pochi riuscivano a percepire quella strana aura spettrale che aleggiava dopo il crepuscolo, restava inspiegato il pianto improvviso dei bambini o i balzi dei gatti spaventati nel buio o il belare nella notte delle pecore negli ovili. Il verde delle colline, il profumo della campagna e il sorriso aperto e genuino della gente mitigavano quella strana atmosfera lugubre che ogni tanto si faceva strada serpeggiando tra i più miserabili. E le persone non si facevano travolgere dalla paura, dimenticavano di dover temere qualcosa, di dover diffidare di alcuni strani sconosciuti. Il cuore verde di una terra fatta di apparenza e di illusioni, fatta di realtà orribili e finzioni perfette riuscì nei secoli a mantenere il giogo dell'ignoranza leggero come una piuma.

Case, templi, teatri, chiese, basiliche. Il tempo trascorreva lento attorno alla conca. I mattoni si accumulavano creando un concerto di occhi luminosi nella notte, la gente viveva, amava, moriva continuando a riempirsi la bocca e le mani di buoni propositi e voltando spesso lo sguardo davanti alle cattive azioni. Come ovunque accadeva e come ovunque accade ancora oggi, giusto o sbagliato che sia.

Ma in alcuni posti si poteva cogliere una nota diversa, non stonata, semplicemente fuori dal coro, come lungo l'antica via Flaminia, che collegava la conca alla Roma antica, un vecchio lembo di strada con ancora antiche pietre che sotto il sole si infuocano come braci ardenti, mentre alcune restano gelide come ghiaccio; qualcuno dice ci sia seduto sopra uno spirito che non voglia esser disturbato. O come sotto gli orti della città di Narni, di fronte rocche e monasteri immersi nel verde e nel silenzio, dove pulsa feroce il ricordo di morti violente ed ingiuste in nome di un Dio buono e misericordioso. Come tra i boschi della Somma dove tra gli alberi nei boschi antichi si apre la selva attorno a mistici altari. Nei boschi stanno le bestie, tra i morti stanno i folli, tra la gente stanno i cainiti, ovunque, in modi diversi ma sempre con lo stesso identico scopo.

Qualcosa di oscuro aleggia e vive indisturbato nel territorio della bassa Umbria, presenze che tuttavia esistono da sempre, come preservate e plasmate da un fango malevolo, come infettate da una sottile malattia che seppur condanna non conduce alla morte, ma a qualcosa di più orribile. E come per il drago e l'eroe che lo uccide, così anche le creature più strane sono state raccontate in modi diversi, talvolta sotto forma di semplici folletti dispettosi per invitare i più semplici a non inoltrarsi in alcune zone da soli; gente umile e generosa gli umbri, non amano nemmeno metter paura, preferiscono sperare di non incontrare mai nulla che possa loro turbarli, o ucciderli, o peggio ancora dannarli.


Era l'anno 1881 quando si iniziò a pensare che tutta quell'acqua che correva rapida lungo le valli andasse usata per qualcosa di utile oltre che per lavare i panni e bagnare i campi. I telai erano stati collegati alle turbine e il cotone correva veloce dai fusi alle macchine. In breve aprì un piccolo polo chimico e la città inizio a svegliarsi presto non più solo per andare a dissodare zolle. Le sirene delle fabbriche suonavano e la gente correva da tutti i piccoli borghi; l'aspettativa di vita sembrava migliore in città e con un lavoro in fabbrica, senza aver sempre la zappa in mano a badare al tempo. Ma c'era un altro tempo che dettava legge lì dentro, al chiuso: era un tempo fatto di noia e stanchezza e spesso anche di soprusi. L'euforia per la nascita delle fabbriche travolse tutta la giovane nazione, correva l'anno 1883, dopo l'Unità d'Italia la commissione di indagine sullo stato delle industrie del ferro scelse Terni come sede ideale di un impianto siderurgico di livello nazionale, questo perché esisteva già una fabbrica d'armi piuttosto apprezzabile, una fabbrica per manufatti in ferro e tubi in ghisa e soprattutto la notevole disponibilità di risorse idriche, che appunto avevano iniziato a sfruttare. La conca aveva acqua, era lontana dal mare e quindi sicura e piena di gente pronta a produrre ferro. Nel 1884 Stefano Breda firmò l'atto fondativo della società degli alti forni e diede il via ai lavori per la realizzazione di una acciaieria di vaste dimensioni, con l'occhio teso alle grandi fabbriche inglesi si decise di fare fin da subito le cose in grande. Iniziarono quindi gli scavi per le fondamenta della fabbrica, e la gente, soprattutto quella più colta, corse a vedere quello che venne fuori dalle prime operazioni: resti umani, frammenti di una vita passata molto antica, vasellame, utensili in ferro, e grandi fosse con resti di ossa. Tutto ben raccolto e stipato in casse numerate, i resti umani debitamente sepolti secondo il Santo uso cattolico, il materiale catalogato minuziosamente in attesa di finire in un bel museo che negli anni sarebbe stato ignorato dai più. Ma la cosa che più stupiva negli scavi era la presenza del fango: uno strano fango viscido nel sottosuolo, di una strana consistenza, probabilmente era a quel modo a causa di una falda acquifera o per la presenza di particolari minerali e gas nel sottosuolo, così almeno cercarono di spiegare gli esperti.


Nel tramestio delle innumerevoli persone che lavoravano agli scavi e ai primi lavori di edificazione della acciaieria c'era un ragazzo che si chiamava Rocco. Era molto alto e per evitare che gli prendessero la vanga alla quale aveva cambiato il manico, per metterlo più lungo, lo aveva dipinto di rosso. Rocco era l'operaio con la vanga rossa. Aveva ventun anni e si dava un gran daffare per spalare terra nel cantiere, nella speranza di essere notato per la sua buona volontà ed essere chiamato a fare poi l'operaio. A casa ogni mattina lasciava sua moglie col suo bambino piccolo, e un orticello che aveva deciso di non curare più per vangare invece una terra che non avrebbe dato alcun frutto. Rocco aveva lavorato per ore sotto un sole di aprile fin troppo caldo, e ogni poco si fermava per asciugarsi il sudore dalla fronte, forse era davvero troppo caldo in quella primavera esageratamente afosa, o forse era stata colpa di quegli strani miasmi che salivano su dalle zolle rivoltate, come una strana calura solforosa. Ma dopo l'ultimo colpo assestato in quel giorno, ormai rimasto solo nel cantiere a Rocco si aprì la terra sotto i piedi, come se in una grotta sottostante fosse crollato il soffitto tutto di colpo. Rocco si ritrovò a terra ad almeno cinque metri sotto una volta di pietra che occhieggiava verso il cielo che andava tingendosi di rosso. Nessuno lo aveva visto cadere e nessuno sembrava sentire le sue grida. Rocco, con le gambe spezzate, rantolava e piangeva con il viso sporco di fango e lacrime, fino a quando la finestra sul cielo diventò scura e illuminata solo da piccoli astri lontani. La moglie intanto aveva messo un piatto a coprire la minestra e iniziava a preoccuparsi per il ritardo. Rocco aveva smesso di piangere, rannicchiato sulla terra gelida cercava di non avere né paura né freddo, cercava di non soccombere al dolore delle sue gambe rotte, cercava di non credere ai suoi occhi e di non morire di paura. Nell'oscurità della grotta qualcosa si muoveva silenziosa e leggera, sarebbe potuto essere un fantasma, in qualche strano spirito di uno dei tanti morti di cui avevano trovato ossa, magari era proprio l'uomo la cui anima aveva abitato in quel cranio con cui Rocco, irriverente assieme ai suoi compagni, aveva giocato a lanciarselo prendendolo a calci. Ma non era uno spirito, si sa che gli spiriti possono solo spaventare, non fanno del male ai vivi.


Vestito di un lungo saio logoro e una tipica tonsura da francescano sulla testa, emerge dall'oscurità un uomo dal viso pallido e scavato, gli occhi sono incavati e cerchiati di scuro e brillano come fossero di una bestia selvaggia; ha mani ossute e bianche con lunghe dita nodose e artigli affilati, il corpo è sottile ed esile ma emana forza, sembra senza vita, ma dimostra vigore.


Rocco non riesce ad urlare perché il terrore gli stringe la gola, l'uomo si abbassa verso l'infermo e gli parla piano: "non dovete disturbarci, non dovete mai farlo". Rocco bagna i pantaloni come un bambino spaventato mentre la strana creatura gli mette una mano sul viso mentre con l'altra lo solleva a sé: e poi Rocco cade nella totale oscurità.

Prima dell'alba Rocco è in piedi nella grotta, sulle sue gambe, stanco e dolorante ma consapevole di quanto gli è appena accaduto: i racconti dei vecchi spesso non sono solo favole, doveva solo trovare il modo di non spaventare troppo la moglie che sicuramente è a casa in ansia perché non è tornato la sera prima. E Rocco la trova seduta al tavolo addormentata con accanto la culla del suo bambino, che non appena sente il padre che posa lo sguardo su di lui si sveglia piangendo disperato.


Rocco ha solo il tempo di sentire il pianto di suo figlio un'ultima volta e di vedere quanto spavento sfigura il volto di sua moglie. Egli comprende, non può restare, deve solo trovare un posto dove potersi nascondere, dove non poter esser disturbato, dove tutti quelli come lui, da sempre, potevano vivere nell'ombra, per quel giorno sarebbe bastata la cantina della sua casa, da dove avrebbe sentito la moglie piangere disperata, poi sarebbe dovuto scappare appena fatto buio, non avrebbe potuto aiutarlo nessuno.

Nessuno avrebbe potuto capire, o aver pietà di lui, perché lui stesso avrebbe imparato a non averne di nessuno.