Gian Battista Tiepolo Onnigrafo Magazine

Gian Battista Tiepolo

30 agosto

Nel 1757, Venezia è città cosmopolita meta del Gran Tour da tutti i benestanti non solo d'Europa. È la città scanzonata di Carlo Goldoni e di Giacomo Casanova. Ma c’è qualcosa di inafferrabile che si affaccia sul finire di questo oramai decadente Settecento: il Mondo Novo, appunto. Vi si affaccia anche Giandomenico, figlio del leggendario Giambattista. Ha trent’anni quando segue suo padre a Villa Valmarana ai Nani, a Vicenza. Nato a Venezia il 30 agosto 1727 (e sua madre è Cecilia Guardi, sorella di Francesco, come dire che nel suo Dna c’è una gran predisposizione alla pittura) Giandomenico è entrato adolescente nella bottega del padre. È ormai un pittore affermato, con una personalità propria. A Vicenza, mentre Giambattista è impegnato a decorare i soffitti della Palazzina con aeree scene e miti del mondo classico, il talentuoso figlio incomincia per conto suo a decorare l’ala secondaria della Foresteria. E lo fa con un racconto condotto in modo insospettato, in un certo senso alla rovescia: con un grande affresco che invece di mostrare, nasconde. Ma nascondendo lascia la possibilità di tutto intendere, tutto prevedere, tutto sognare.  Il taglio è davvero nuovo di una folla di personaggi presi di schiena. Sono curiosi, trepidanti. Si accalcano gli uni sugli altri per poter vedere cosa succede là dove un ciarlatano, identificato in un uomo con una lunga bacchetta, indica il casotto della lanterna magica, allora chiamata appunto Mondo Novo. Il pubblico è invitato a scoprire, dentro alla lanterna, immagini di luoghi esotici e misteriosi. Sullo sfondo, placida e silente, si indovina la Laguna.

A Ca’ Rezzonico, accanto alla sala dove troneggia il Mondo Novo, ricostruito in spazi che ripropongono la collocazione originaria, c’è il “camerino” dei Pulcinella di Zianigo. Sono ritratti in tutte le fogge, con arguzia e cordialità, Anche ironia, dissacrazione. Maledizione e preghiera. Ballano, giocano, gozzovigliano, amoreggiano, incuranti delle loro gobbe davanti e didietro. Passeggiano scherzosi con fogge e atteggiamenti come presi a prestito. Sul soffitto si librano saltimbanchi nel famosissimo “ovale di Pulcinella sull’altalena”. Sembrano voler fare il verso ai protagonisti delle favole e delle mitologie descritte con arte sublime da Giambattista. Non è irrisione a quelle pitture, ma a quel mondo che si sfalda.

A sorpresa nella folla compare anche un personaggio insolito per il contesto veneziano, la maschera della commedia dell’Arte che, insieme alla pizza, è l’anima di Napoli: Pulcinella. Negli anni, Pulcinella diventerà quasi una ossessione per Giandomenico, tanto da essere oggi riconosciuto come sua sigla ufficiale. Le aeree visioni di Giambattista sono lontane, qui è un nuovo modo di procedere, di illustrare cose e persone. Del divino Maestro rimane l’eredità della matrice dei colori trasparenti. Non più voluttuosi, però. Non c’è più il celebre “Rosa Tiepolo” (cui Roberto Calasso ha addirittura dedicato un esemplare libro). Con Giandomenico imperano il bianco, l’azzurro tenue, il grigio polvere e, soprattutto, l’ocra e tutti i colori della terra, dal giallo al ruggine al marrone. I colori del quotidiano, senza pretese trascendentali.