Alexander le squadre della morte Onnigrafo Magazine

Alexander le squadre della morte

Qualcuno entrò nel corridoio delle celle. Il prigioniero udì una serie di passi. Provò a calcolare in quanti potessero essere. Chiuse gli occhi e si concentrò. Uno… due… tre… e ce n’è anche un quarto. Ma altri rumori li accompagnavano. Il primo era il classico sferragliare di catene trascinate, un suono comune in una prigione. Il secondo era un cadenzato colpo secco, come di legno su pietra.

Ecco svelato l’inghippo, pensò il prigioniero. Due guardie scortavano un carcerato. Un druido li accompagnava.

Quando furono in prossimità della sua cella, credette la ignorassero come se non fosse mai esistita. Invece si fermarono. Il prigioniero udì il tintinnare delle chiavi e poi lo scatto della serratura. Le guardie non si erano nemmeno degnate di dare una sbirciata preventiva dallo spioncino. Come biasimarle, pensò. Legato com’era al muro, non poteva spostarsi dalla parete nemmeno di una decina di pollici. Per quattro lunghe notti aveva dormito appeso ai ferri e per tre giorni aveva urinato nei pantaloni.

Il chiavistello prese a scorrere nella corsia e la porta della cella fu aperta. Attraverso le croste di sangue rappreso che gli appesantivano le ciglia, il prigioniero si accorse di aver indovinato. Uno dei guardiani era entrato nella cella buia, subito seguito da un druido anziano, come indicava la pregiata fattura del bastone nodoso su cui stringeva il palmo. La guardia gli avvicinò malignamente una torcia accesa al viso, ben sapendo che l’individuo lì recluso era accecato a causa dell’assenza di luce degli ultimi giorni.

Sfidando il bagliore, il prigioniero guardò in faccia il suo aguzzino. Si trattava di una di quelle guardie che l’avevano pestato a sangue al momento della cattura. Gli sorrise beffardo pensando a quanto sarebbe stato utile come cavia vivente nei suoi esperimenti per far rivivere parti del corpo amputate e ancora sanguinolente.

“Trovi la cosa divertente, mostro?” chiese la guardia avvicinandogli ancora di più la fiaccola al volto. Poté sentire il calore della fiamma fargli evaporare il sudore sulla fronte.

Il carceriere stava masticando forsennatamente una foglia di tabacco. Senza sapere perché, proprio confermando le parole dell’altro, il prigioniero lo trovò divertente. La guardia s’imbufalì e gli sputò in faccia. Poi, con un pugno lo colpì alla bocca dello stomaco.

“Calma, calma” intervenne il druido. “L’accusato deve ancora subire il giusto processo.”

La guardia non si arrese, anche se si acquietò un poco. “Perché, serve un processo a questo bastardo? Tutti noi siamo stati testimoni dei sacrilegi che ha compiuto. Se ripenso a tutti quei cadaveri…”

“Sarà lo Spirito della Collina a emettere il verdetto. Chi siamo noi semplici umani per giudicare un nostro pari?”

“Lui non è… umano” insinuò la guardia arricciando il naso.

“Lo è, almeno per metà. Te lo garantisco. Portiamolo fuori. La cella puzza come un letamaio.”

Il prigioniero fu slegato dai ceppi agganciati al muro. Gli furono applicate delle catene ai polsi e alle caviglie. Le maglie erano poche e fu costretto a camminare facendo piccoli passi. 

Uscendo dalla cella, diede una fugace occhiata al compagno di sventura. Era un uomo tutto pelle e ossa. Le vesti strappate pendevano flaccide, i lunghi capelli unti sparsi attorno alla testa gli davano le sembianze di un salice piangente. L’aspetto smunto rivelò che doveva essere rimasto in cella per molto più tempo rispetto a lui. Forse un mese.

I due prigionieri furono scortati fino a una scala di pietra. Le guardie li spronarono con dei calci. Salire venticinque ripidi gradini di pietra era una vera impresa per chi aveva passato giorni e giorni immobilizzato al muro e scarsamente nutrito.

I prigionieri furono tenaci. In superficie c’era qualcosa che ciascun essere vivente avrebbe desiderato dopo tutto quel tempo in gattabuia. Non si trattava della fragile speranza di un’assoluzione – la loro condanna alla pena di morte era certa – ma semplicemente di rivedere la luce del sole, sentirne i caldi e dorati raggi sulla pelle.

Un tale piacere non fu loro concesso. Le guardie li incappucciarono sul pianerottolo e li caricarono su di un carro parcheggiato sotto a un portico.

Il prigioniero ascoltò i futili discorsi tra il conducente e un membro della scorta. Il guidatore sosteneva che la moglie lo tradisse con il fabbricante di selle. Comunque, ribadì, ciò non aveva alcuna importanza. Lui la tradiva con la consorte del sellaio almeno da un paio d’anni.

Il druido doveva essere lì con loro, dentro il tendone del carro. Il prigioniero ne percepì la presenza al suo fianco. Il druido sapeva di muschio e di erba fresca e di corteccia d’albero. Tutti odori a lui così familiari.

Un’ora di viaggio fu sufficiente per arrivare a destinazione. Incappucciarlo non era servito a molto. Il prigioniero sapeva già dove sarebbero stati condotti.