Sono polvere leggera che giace sotto le assi del pavimento. Sono ossa calcinate rese fragili dal tempo. Sono brandelli di stoffa disfatta. Sono cibo per i ratti e dimora per le larve.
E sei stato tu a lasciarmi qui a marcire.
*
Si dice che i morti debbano restare in pace nelle loro tombe.
Ebbene io non ho una tomba.
Sono costretta a errare tra i frammenti spettrali del mio passato.
Sapevo che prima o poi saresti tornato.
Ti osservo dalle fessure, strette come una lama affilata. Ti vedo trascinare quel corpo come fosse un fantoccio inanimato. Ora ricordo. Anche io ero.
Il tuo odore, colonia a buon mercato mischiata a formaldeide e disinfettante, di quelli usati per conservare i cadaveri, giunge fino a me.
Ti porti addosso, come fosse un vessillo di morte, l’olezzo di quei corpi che consegni all’amore eterno dei propri cari. Ma hai lasciato che il mio corpo, che avrebbe dovuto essere per te così prezioso, divenisse polvere leggera che giace sotto le assi.
Quel sacco di carne geme quando lo lasci cadere. È ancora viva, ma presto prosciugherai di ogni soffio la sua giovane vita. Riconosco il tuo sguardo, colmo di bieca empietà. Ti chini su di lei, come un’ombra scura che vela il cielo.
Afferri il suo collo. Così come facesti col mio. Respiri il suo fiato. Proprio come accadde con me. I suoi capelli sottili si intrecciano in un groviglio intricato, mentre le dita delle sue mani affusolate si serrano fino a divenire d’alabastro.
Io oramai non ho più né capelli, né dita, né un volto. Sono polvere e come tale mi libro, sospinta dal vento.
Ti raggiungo. Mi insinuo nelle narici, nella tua bocca che, socchiusa come un portale, mi accoglie. Scendo in gola, mi aggroviglio in una matassa informe, come una creatura che pulsa di vita nel grembo materno.
Ti sei accorto che qualcosa non va e allenti la presa. Lei si salverà.
Qualcosa ti impedisce il respiro. Gli occhi ti strabuzzano dalle orbite e annaspi in cerca di aria nuova.
Ora, sazio di me, così prossimo alla morte, assapori quel bacio appassionato. L’ultimo.