La gatta sedeva sul cofano della Panda, il pelo grigio striato di nero, concentratissima nel leccarsi la zampa anteriore destra. La coda era dignitosamente raccolta attorno al corpo.
La testa era di nuovo al suo posto, nella luce del plenilunio appariva un po' affumicata, ma integra.
Gianluca la fissò per un istante con i suoi occhi color nocciola, grandi e rotondi come se fossero stati disegnati da Schultz. Per quel motivo sua madre, quando era piccolo, lo aveva soprannominato Charlie Brown.
Essere chiamato in quel modo o ricordargli la somiglianza col personaggio lo mandava in bestia, anche in quel momento. L’idea di ammazzare nuovamente quella gattaccia gli portò un fremito alle mani.
La gatta cessò all’istante di leccarsi e lo fissò, mentre si avvicinava col passo pesante e le grandi mani protese in avanti.
Sua madre gli aveva persino regalato un maglione giallo con il fregio nero uguale a quello del personaggio delle strisce a fumetti.
Lui lo aveva bruciato, di nascosto, dicendo poi che lo aveva perso. Pensava che quel fumetto fosse per sfigati, meglio la palestra: roba da uomini, non finocchi senza palle e bravi solo a pigliarlo in culo.
La gatta prese a fissare un punto situato dietro le sue spalle, donandogli la straordinaria sensazione che solo un gatto riesce a dare: quella di essere il centro dell’attenzione di tutto l’universo e tu l’ultima delle nullità che ha avuto il privilegio di trovarsi alla sua presenza.
«VIA DALLA MACHINA MIA, SCIÒ!»
L'urlaccio eruttato dalla gola diede fondo a tutta la potenza di cui disponeva, e non era poca, ma sortì anche l'effetto desiderato. La gatta svanì in un turbinio di zampe che slittarono sulla vernice gialla del cofano.
Contrasse i bicipiti e la faccia in una smorfia che mostrasse tutta la sua potenza alla gattaccia in fuga. In sala pesi alzava bilancieri da centoventi come riscaldamento, poi cominciava il lavoro serio con manubri caricati fino a centosettanta chilogrammi. Aspirava ad alzare almeno il doppio, il suo allenatore era entusiasta e lui pure: a fine gennaio ci sarebbero state le gare e lui intendeva vincere.
«Eppure t’avevo fatto zompa’ la capoccia co’ un bel botto. Boh? Me sarò sbajato!»
Scrollò le spalle e aprì la portiera color “colica”, scansò un pacco di integratori proteici dal posto del conducente e sedette.
"Colica" era il nome che il Baviat, al secolo Francesco Baviato uno dei suoi migliori amici, aveva tirato fuori appena aveva visto la vettura fresca di concessionaria.
Un altro che avesse osato proferire quel commento sarebbe finito parcheggiato sul muro più vicino con una mano sola e lasciato là in attesa del carro attrezzi che si sarebbe reso necessario per rimuoverlo. Ma lui e Francesco si conoscevano fin dalle elementari, cresciuti a suon di sfotto’ reciproci e qualche scazzottata tra amici, in quell’occasione avevano riso insieme di quella strana versione di giallo non proprio esaltante.
La serata si era appena conclusa nel peggiore dei modi: i buttafuori del Blue River li avevano invitati a uscire e prendere un po' d'aria poco prima della mezzanotte e, visto che era il 31 dicembre, questo voleva dire che l'intero nuovo anno s’era appena trasformato in merda dal primo all’ultimo giorno.
Girò la chiave di avviamento. Il motore emise una specie di singhiozzo una, due volte. Avrebbe dovuto portarla dal meccanico, ma un po' per paura della spesa, un po' perché comunque continuava a macinare chilometri e, si sa, le Panda sono indistruttibili, aveva sempre rimandato.
Ormai era ora di affrontare quella minaccia.
Sbuffò pensando al conto e a quanto gli restava in banca, mentre percorreva la rampa di immissione per entrare nel Grande Raccordo Anulare che prese a scorrere tranquillo sotto di lui. Un brivido, improvviso e un fruscio alle sue spalle, ebbe la sensazione di non essere più solo nell’abitacolo.
«Te lo avrei succhiato volentieri, dico davvero» la voce, chiara e miagolante, emerse alle sue spalle e gli fece drizzare i capelli in testa con tutto che erano stati rasati a zero da poco.
Scrutò nel retrovisore, ma non vide nessuno.
Solo per un disperato colpo di sterzo non finì contro il guard-rail centrale, allora si portò nella corsia più a destra. Avrebbe voluto fermarsi, ma sul Raccordo si rischiava più a star fermi che a marciare e anche tenere la velocità sbagliata equivaleva a un mezzo suicidio. A quell’ora la cosa migliore sarebbe stata “sul giro dei 130”, ma decise di rischiare e, con tutte le luci accese, vide la lancetta scendere sotto il “limite” dei 90 per assestarsi a un più modesto 70 chilometri orari. Per contrasto ora la macchina gli pareva ferma tanto era diventata silenziosa.
«Chi ha parlato? Chi c'è?» il suo respiro era diventato velocissimo, troppo, si impose la calma o avrebbe rischiato un incidente serio.
«Se solo tu avessi usato un poco di gentilezza avrei portato qualche allegra novità sulla punta del tuo… arnese, invece del solito tran tran a mano libera». La gatta, la stessa di prima, scivolò tra i sedili e si sedette su quello del passeggero, incurante delle reazioni del guidatore. Gianluca riconobbe la testa grigia, affumicata dall’esplosione del petardo.
La seguì con la coda dell'occhio, cercò di rilassarsi pensando a come doveva avere le ossa... anche se era sicuro di avergli spappolato la testa e, prima di finirla, di averle fracassato una zampa o due. Poi si concentrò sulla guida: Assurdo pensò avrò bevuto troppo... se la benemerita me ferma me s’encula a passo de cavalletta…
Una gatta morta era appena resuscitata e gli stava parlando dal sedile del passeggero: quelli della stradale non gli avrebbero nemmeno fatto l’alcool test se glielo avesse detto. La serata appena trascorsa bruciava dentro di lui come un carbone acceso su per il culo, tanto gli rodeva.
Col “Baviat” e il “Borsello”, i suoi amici, aveva fatto una scommessa. Aveva scommesso di farsi fare almeno un pompino al veglione di capodanno, ma nessuna delle ragazze presenti in discoteca li aveva filati di striscio e di lì a poco uno dei buttafuori li aveva accompagnati, già alticci, a festeggiare sotto le stelle. La stazza del tipo e le cicatrici in faccia a lui e ai suoi colleghi avevano detto tutto quel che c'era da sapere sulla risposta da dare.
Arrabbiati, delusi e annoiati (e con qualche litro di birra in corpo) avevano adocchiato una gattina che si aggirava nel vasto parcheggio del locale e Gianluca aveva avuto "l'idea" per vincere la scommessa con gli amici e, già che c’era, di vendicarsi delle gattemorte presenti alla festa e colpevoli, a suo dire, di aver rifiutato tutte le avances con cui tutti e tre avevano tentato di convincerle a fare di ognuno di loro un vincitore.
Aveva afferrato la bestiola, dopo averla attirata come se le stesse offrendo del cibo, e poi l’aveva strusciata contro la patta dei calzoni.
A mo’ di ringraziamento aveva ricevuto un paio di zampate e una soffiata. Sorpreso aveva allentato la presa e la gatta era sgusciata via, ma il Baviat era stato lesto e l’aveva acchiappata per la coda. Ignorato i suoi graffi, la pellaccia del Baviat aveva retto anche alle “puncicate” prese allo stadio, al Derby, e allora era intervenuto il Borsello. Con la patta aperta s’era fatto avanti: «Dai, dammela a me ‘sta gattamorta che vinco ‘a scommessa!».
Lei aveva tentato di divincolarsi con più energia, ma a quel punto era intervenuto lui acciuffandola con tutta la forza che aveva e…
«Ahem» la voce della gatta si intrufolò nei suoi ricordi «stai dimenticando che, col tuo arnese in bella mostra, mi hai ordinato "a micia, famme 'n pomponio" in un modo assolutamente ineducato e sgarbato, mentre i tuoi compari sghignazzavano e ridevano ripetendo in coro "manco 'na gatta rognosa te s'encula". Allora, invece di prendere a sprangate quei due, e nonostante la mia educata richiesta di essere lasciata andare... hai notato che non ho usato artigli anche se lo avresti meritato? Mi sa di no. Mi hai fracassato le costole e la spina dorsale contro un palo della luce. E questo non ti è bastato vero?»
«T'aricordi proprio tutto eh?» Gianluca ascoltava come in trance: che fosse stato uno scherzo del Baviat? Magari ce sta lui anniscosto dietro ar sedile posteriore? Però la voce nun è la sua. Sembra quella de 'na regazza... voi vede' che è una delle troie der Blue River? La voce me pare proprio quella della moretta che ha chiamato er buttafori!
«“Aho, ma chi te credi da esse? 'na dea?”» la gatta imitò la voce di Gianluca, anche se di un'ottava più alta strappando al suo proprietario un mezzo ghigno. «Questo mi hai urlato mentre mi sbattevi più e più volte. Altro che “per favore”. Eh no, caro mio, non sono una dea, ma quando mi hai legata a quel petardo avevo ancora sei vite da giocare. Solo che facendomi saltare la testa me lo hai impedito: ci sono rimasta molto male.»
Gianluca abbozzò un ghigno «A chi tocca nun s'engrugna» rispose citando un detto di sua nonna e pregustando un fine-serata assai più succulento. Gli pareva proprio che la voce provenisse dal bagagliaio, ci doveva essere una ragazza nascosta e stava giocando con lui in quel modo tanto strano. Magari aveva ammirato il suo arnese e gli era venuta voglia di provarlo.
La gatta annuì «Hai proprio la paffia al posto del cervello te, ma anche se non sono una Dea a lei ho chiesto aiuto e mi ha ascoltata.»
«Ah ah ah, bella questa, dio nun ce sta mai pe' l'ommini figurete pe' le bestie!» la risata di Gianluca fece tremare i vetri dei finestrini, ma la bestiola restò a fissarlo con il tipico sguardo di superiorità felina. L'uomo rabbrividì, di nuovo: sembrava proprio che fosse la gatta a parlargli e direttamente nella sua testa, non da dietro come gli era parso.
«Tsk tsk, umano, che ne sai? Cinquemila anni fa la nostra specie era adorata come un dio, mentre quel vecchio barbogio cercava di attirarsi le simpatie di un gruppo di pastori tra Giordano e Palestina. Non mi sono certo appellata a lui, né a quel biondone di suo figlio che tanto vi piace vedere frustato e inchiodato su una croce... certo che, quanto a sadismo, sapete come far rumore voi umani. Tuttavia mancate di stile. Insomma: occorre dare alla preda una speranza, farla combattere fino all'ultimo... ma che ne sai tu di cosa vuol dire giocare con la vita altrui, per davvero. Hai una vita sola e hai una paura folle di perderla anche quando te la prendi con una creatura indifesa come me. Comunque stai allegro! Bastet mi ha ascoltata e quando ha saputo che non hai ricevuto quanto avevi richiesto… ha deciso di accontentarti!»
«Cos... »
«Hai capito benissimo, umano» la gatta continuava a fissarlo, senza mai abbassare lo sguardo «Bastet, adorata dagli egizi che se ne intendevano davvero, la dea-gatta in persona verrà qui e sarà proprio lei a soddisfare la tua richiesta con un... pomponio»
«Gesù!» Gianluca guardava la strada e teneva d'occhio la gatta. Un fremito colse le sue mani che divennero fredde, incapaci di lasciare il volante e menare una sberla forte abbastanza da scagliare quella bestia insolente oltre il finestrino con tutto il vetro.
«Non puoi più farmi nulla, umano, né può farlo il tuo dio. Capisco che duemila anni fa avete dato un calcio nel sottocoda agli dei per andar dietro al figlio del bacia-pastori, ma qui stiamo parlando di Bastet: una dea capace di incenerire con un solo sguardo una regione grande quanto l'asia minore e l'India messe insieme. Sarà lei, non il palestinese biondo, a porre i suoi occhi e le sue labbra su di te, penso che troverai la cosa piuttosto… com'è che dite voi umani? Ah, sì! Intensa. Più di un petardo acceso in bocca o introdotto in qualsiasi altro orifizio, te lo assicuro»
***
Nicola scese dalla volante e, a grandi passi, si fermò di fronte al veicolo bruciato, fermo in corsia d’emergenza, disse solo: «Diteme che nun è vero!».
Gli uomini della Stradale si posero sull’attenti, poi uno dei due si fece avanti: «Ispettore Giraldi, l’ho fatta chiamare io, signore… »
«Lassa perde ‘ste stronzate, dimme che dentro quella cosa nun ce sta–»
«La macchina apparteneva un certo Gianluca Artemanni» il collega non gli diede il tempo di esprimere speranze «Chiamo il medico– »
«Sta a arivà, mica è er primo stanotte» scansò da parte il poliziotto e, tirata fuori una torcia a led, illuminò l’abitacolo andato in fiamme.
Il cadavere era al posto di guida, le mani carbonizzate erano state bloccate dalla plastica fusa dello sterzo.
Illuminò il tachimetro e chiuse gli occhi. Li riaprì. Anche quella lancetta era ferma sui 70.
Puntò allora il fascio sull’inguine del cadavere, sperando di non trovare ciò che già si aspettava.
Quando era stato chiamato per il primo “incidente” s’era trovato su una stradina tra Gallicano e Zagarolo, vicino al “disco volante”, una casa nota in tutta la zona per essere stata costruita proprio con quella forma. Una centoventisette completamente bruciata con dentro un uomo a cui sembrava avessero sparato in mezzo alle gambe. Il bassoventre aveva un cratere al posto del bacino e le ossa erano state incenerite dall’interno. E questo era il meno. Un suv si fermò in corsia, dietro la sua macchina. Ne uscì una figura possente che disse:
«A Nico’, ma me voi lassa’ anna’ a dormì porcapupazza?»
Nicola lasciò andare un sorriso mentre il poliziotto di prima disse.
«Signore, il dottor Moretti–»
«È arivato, che credi? Mica so’ sordo!» si voltò di scatto verso il poliziotto «Va a conta’ i segni sull’asfalto va’»
«Abbiamo già completato il rilevamento, il veicolo ha preso fuoco sette chilometri più indietro e–»
«Ha lasciato sette bruciature sull’asfarto prima de parcheggiasse, ancora ‘n fiamme, sulla corsia d’emergenza, o sapemo già.» la mole del dottor Moretti apparve alle spalle del poliziotto facendolo sembrare un Nano.
In giacca e cravatta Moretti pareva la versione elegante di Hulk, senza la pelle verde.
Nicola dovette alzare lo sguardo per fissare negli occhi il medico legale «Pure questo, uguale all’artri due de stanotte, stesse… ferite, tutto, uguale»
Moretti annuì, scansò Nicola come se fosse stato un fuscello e si affacciò dentro la panda carbonizzata. Tirò subito fuori la testa e lo sentì imprecare, poi disse:
«Maschio, sulla trentina, fisico da palestrato. Anche questo l’hanno cucinato da dentro… sembra che j’hanno sparato ‘n mezzo alle gambe come se quello che l’ha fatto stesse–»
«Sotto ar volante» completò la frase Nicola.
«Sotto ar volante ispetto’?» ripeté il poliziotto, incredulo.
«L’hai fatti i rilevamenti?»
«J’ho detto de sì, ispetto’»
«Allora te e er compare tuo smammate, qua ce pensamo noi… vai, tornatene a casa e buon anno.»
Il poliziotto si mise sull’attenti «Buon anno, ispetto’» poi girò sui tacchi e fece cenno al collega di risalire sulla volante.
«E mo’?» si ritrovò a dire «Già er primo de stanotte, bruciato pure lui come questo, era strano forte. Er secondo uguale ar primo e mo’ pure questo, porcoggiuda, ma che cazzo sta a succede eh?»
Moretti lo guardò e scosse la testa.
«Io te posso dì come so’ morti: un corpo a bruciapelo j’a asportato er pube ma nun ha distrutto er sedile, quarcosa… tipo fosforo bianco, nun lo so, ha cominciato a bruciàje le ossa dall’interno. Er calore ha cotto i muscoli da dentro finché nun è bruciato tutto tanto che l’ossa se so’ polverizzate. Quanno le fiamme so’ arivate alla testa… o quando l’ossigeno ha smesso d’arivaje ar cervello so’ annati, finarmente, ma si penso a quanto dolore devono ave’ provato me vie’ la tremarella»
Nicola si passò una mano nella lunga chioma nera e ricciuta, tirò fino a sentire dolore. Poi si fermò.
«Nun potrebbe essere stato un petardo? Un botto come quota 100 o er coreano ? Che ne sai, magari ce ne avevano uno ciascuno in tasca»
Moretti tirò fuori la pipa, in lontananza si udì il suono di più sirene in avvicinamento. Nicola Giraldi attese che l’altro accendesse il fornello prima di proseguire. «Tre incidenti mortali, tra i tanti che ce stanno ‘a notte de Capodanno, causati da ‘n botto illegale, eh?»
«Nun starai a esaggerà?» Mario Moretti esalò la risposta assieme a nuvole candide e fruttate con un vago sentore di cacao in mezzo.
«Esaggerà? Che cazzo dici, Mario! Perché nun se ne so’ andati a sbatte affanculo, ‘sti tre deficenti, invece de parcheggià ‘a loro machina quanno dovevano esse già morti… sette, hai capito? Sette chilometri in fiamme, morti come li mejo mortacci loro e la machina ha continuato a annà pure che er foco l’aveva già bella che magnata e aveva segnato l’asfarto sette vorte, hai capito? Sette–»
«Scetroli su per il “cosiddetto”, vabbe’, aggiusta er verbale der primo e der secondo incidente, m’ariccomando, che tutto vojo... tranne finì co’ le pezze “ar cosiddetto” a tre anni dalla pensione, segno pur’io che ‘sti tre deficenti c’avevano quarcosa de pirotecnico nella patta dei carzoni così poi s’annamo a fa’ du’ risate cor questore, vabbe’?»
L’ambulanza si fermò a pochi metri da loro, seguita a breve distanza da una camionetta dei pompieri e un carro attrezzi.
«Per me è mejo, mejo che dove’ anche solo prova’ a spiega’ ‘sto casino» Nicola ispezionò il resto dell’abitacolo, in cerca di qualcosa che si fosse salvato dalla distruzione e lo trovò, esattamente dove si aspettava di trovarlo: sul sedile del passeggero. Una chiazza tonda, intonsa, come se le fiamme manco l’avessero filata di striscio, come se qualcosa fosse stato appoggiato su quel sedile durante l’incendio e poi, a distruzione avvenuta, fosse andato via. Qualcosa di piccolo, qualcosa come…
«Miao» l’ispettore guardò a terra.
«E te da dove sarti fori?»
Una gattina grigia, con la testa che gli parve coperta di fuliggine, si strusciò contro le sue gambe. Si chinò per guardarla meglio e lei si allontanò infastidita dalla torcia.
«Se è tutto io te saluto, provo a tornammene a casa, l’autopsia ai tre de stanotte la faccio dopodomani e te mando er referto pe’ email, vabbe’?»
Nicola salutò il dottore che si allontanò sulla sua auto, lui attese che i paramedici rimuovessero il cadavere dopo che i pompieri avevano aperto la macchina con l’apriscatole, poi non attese oltre e risalì in macchina, ma non accese il motore. Prese il portatile di servizio e iniziò a cercare il numero di telaio che uno dei pompieri gli aveva permesso di rilevare aprendo il vano motore.
Il veicolo risultava intestato proprio a Gianluca Artemanni, gli altri due si chiamavano Riccardo Borselli e Francesco Baviato. A quanto Nicola poteva vedere dai loro profili social erano amici e si conoscevano da tempo; erano andati a festeggiare capodanno al Blue River di Zagarolo e avevano pure postato le loro foto insieme. Le ultime erano state postate poco prima di mezzanotte; non erano più nel locale, ma in un parcheggio e sul profilo dell’Artemanni c’era un video.
L’immagine era confusa, sentiva le risate dei tre e della musica a tutto volume in sottofondo, poi l’esplosione: un petardo abbastanza potente da far scattare l’antifurto alle macchine in sosta. Cercò i nomi dei tre nell’archivio della polizia.
Solo il Borselli aveva qualche precedente per reati contro il patrimonio, ma niente di più grave che aver incendiato un gattile e molestato qualche animale indifeso.
Ce scommetto che attaccato a quer petardo ce stava ‘n animale.
Per quanto improbabile il pensiero della vendetta fece capolino tra le sue riflessioni.
Se non fossero state tre semplici teste di cazzo di borgata, ma spacciatori, magnaccia o avessero avuto qualche legame serio con una cosca avrebbe potuto pensare a un'esecuzione in piena regola. Questo pensiero gli dava i brividi perché la sua mente gli elencava le caratteristiche che avrebbe dovuto avere il killer e il fatto che indossasse una tuta ignifuga capace di resistere agli oltre 1000°C dell’incendio dell’abitacolo era solo l'ultimo dei dettagli che includevano il teletrasporto e un bazooka al fosforo bianco.
Si ritrovò a fissare, oltre il parabrezza, un paio di occhi verdi e luminosi.
«Oddio, che è!» poi rimase inebetito di fronte alla gattina di prima, seduta sul cofano dell’auto, che prese a leccarsi la zampa destra, la coda avvolta attorno quelle posteriori.
Un’idea strana balenò per un attimo tra i suoi pensieri; immaginò che fosse stata lei a morire legata a un petardo e poi, con una delle altre sue sette vite avesse preso quei tre uno ad uno e li avesse uccisi, come era sicuro che faceva coi sorci che avevano la sfortuna di finire tra le sue zampe.
«Magari te lo sai com'è che è andata eh?» il sorriso sornione della gatta lo spinse ad aggiungere «Sì che lo sai, ma nun me lo dirai mai, vero?»
«Miaaao!» disse lei, prima di svanire tra le ombre della notte.
***
Come anche diceva il collega Stephen King “a volte ritornano” e dunque la micia è tornata e, se pure solo tra le righe di questo racconto, ha trovato vendetta e giustizia per mano di una dea dimenticata da millenni. Perché te l'ho raccontata? Avevo più scopi e visto che sei arrivato a leggere fin qua forse puoi darmi una zampina. Perché la prossima volta che sentirai di un gattile andato a fuoco, di un animale martoriato forse avrai la ventura di sentire o di leggere sui social qualcuno che se ne vanta e allora usalo quel telefono e segnala il fatto alla polizia. Vedrai che, anche senza l'aiuto di una dea, la giustizia farà il suo corso e un po' alla volta certi comportamenti contro gli animali verranno eliminati anche grazie al tuo aiuto.