La scritta a lettere dorate campeggiava sulla parete interamente rivestita di larghi pannelli di legno color noce. Per la quasi totalità della loro superficie ospitavano libri stipati in enormi librerie stracolme di antichi volumi dalle rilegature scolorite dal tempo.
Gli scrittoi, con i loro lumi di vetro opalino, erano ordinatamente disposti su due file posizionate in modo che quell’iscrizione sulla parete fosse ben visibile a tutti: un monito a non dissipare il proprio tempo e a concentrarsi invece su quegli antichi e preziosi testi.
Nel silenzio, il grande orologio a muro scandiva i secondi. Un ticchettio deciso accompagnava il moto delle sfere, piccoli pianeti dorati che si rincorrevano sul quadrante di onice nera. Le grandi lancette, anch’esse dorate, segnavano le ore e i minuti in un movimento così accurato e sincrono da essere quasi impercettibile.
In quel luogo il tempo regolava ogni cosa con estrema discrezione. Si era tagliati fuori dal resto del mondo. Se non fosse stato per quei piccoli pianeti impegnati nel loro continuo moto rotatorio a riprova che tutto, attimo dopo attimo, scorreva come sabbia in una clessidra, sarebbe stato possibile credere di vivere nell’immobilità.
Aron non ricordava da quanto tempo fosse seduto a quel tavolo, forse delle ore. Sentiva le gambe farsi a poco a poco pesanti e le articolazioni del collo irrigidirsi. Cercò di muoversi un po’ per riattivare i muscoli. Portò le braccia sopra la testa, si allungò più che poté e le fece ricadere pesantemente sul piano del tavolo. Sotto il palmo delle mani sentì la pelle secca della copertina del grosso tomo che aveva davanti a sé, un trattato di architettura medioevale, e che era ancora chiuso.
Avrebbe dovuto sbrigarsi. Esattamente alle ventitré e cinquantacinque minuti l’enorme porta di legno che separava l’esterno da quel mondo rarefatto si sarebbe chiusa. Ogni possibilità di uscita sarebbe stata preclusa fino al mattino seguente. Non era soltanto una regola, ma il divieto assoluto di rimanere nei locali della biblioteca dopo la mezzanotte. Allo scoccare dei dodici rintocchi i locali dovevano essere tassativamente vuoti e, a quanto ne sapeva, nessuno aveva mai osato trasgredire.
Non era quello un luogo dove trattenersi in solitudine. I cunicoli tutti uguali, insidiosi come labirinti, potevano far rizzare i capelli sulla testa. Non erano meno inquietanti le alte scaffalature che toccavano il soffitto, illuminate fiocamente da una luce soffusa che talvolta faceva intravedere cose che non c’erano e proiettava lunghe ombre sinistre sui mosaici del pavimento.
Aron guardò il suo orologio al quarzo. Il quadrante, che diffondeva un’aureola di fredda luce azzurra sul suo polso, segnava le ventidue e trenta. Aveva ancora un’ora di tempo per trovare le informazioni di cui aveva bisogno per la relazione su Pier Filippo Antoni e la sua Torre Scura. Quella costruzione mirabolante sfidava ogni regola architettonica di calcolo e misura, come se fosse stata costruita con il solo ausilio della dottrina alchemica di cui lo scultore e architetto era stato seguace. La stessa biblioteca era un suo progetto.
Aprì il ponderoso volume incominciando a decifrare e tradurre gli eleganti caratteri miniaturizzati con cui il testo era stato stilato. Sentiva gli occhi bruciargli come se minuscoli granelli di sabbia fossero penetrati all’interno. Nel cercare sollievo le sue palpebre si chiusero per un attimo, portandosi dietro il resto del suo corpo intorpidito. Sopraggiunse il sonno.
***
Dei colpi sordi risuonarono nel silenzio. Aron si mosse urtando una matita che rotolò lungo il piano del tavolo e finì la corsa sul pavimento, proprio tra i suoi piedi.
Aprì gli occhi. Quando prese lucidità, si accorse di essere completamente solo. I rintocchi cessarono e calò nuovamente il silenzio.
Aron alzò lo sguardo dinanzi a sé e fissò il grande orologio nero. Le lancette segnavano inesorabilmente la mezzanotte. Vide i piccoli pianeti allinearsi e formare una nuova costellazione. Guardò nuovamente quello digitale al suo polso e si accorse che i segmenti di luce verde componevano quattro cifre lampeggianti: 00.59
Un sibilo, una sorta di respiro, riempì la grande stanza come se dell’aria fuoriuscisse fischiando da una qualche fessura. Lo sguardo rimbalzò dal suo orologio che aveva smesso di funzionare a quello sulla parete le cui lancette erano immobili. Aron era sgomento. Quell’interruzione nel funzionamento di entrambi gli orologi non poteva essere un caso.
Si alzò e salì sul primo scrittoio. Rimase in bilico sul bordo del piano, pericolosamente proteso in avanti, da quella scomoda posizione costatò che le lancette finemente traforate erano immobili.
Le sue orecchie captarono un suono quasi impercettibile, un lieve ticchettio, come di un meccanismo che si metteva in funzione. Una piccola sfera nera aveva fatto la sua comparsa, mimetizzata sullo sfondo del quadrante.
Il piccolo globo si muoveva lentamente, compiendo brevi spostamenti regolari. Apparve chiaro, sebbene fosse surreale, che avrebbe completato la sua rotazione esattamente dopo sessanta minuti.
Un’altra ora. La venticinquesima.
A un tratto tutto attorno cominciò a cambiare. Gli oggetti e le altre cose mantennero la loro posizione, il loro aspetto, ma un misterioso influsso le fece apparire semplicemente diverse. Un sinistro grigiore, simile a una sottile e impalpabile nebbia le penetrò in profondità, modificandone l’essenza.
Aron osservò quell’inquietante fenomeno avanzare come un inesorabile cono d’ombra e avvolgere l’intera stanza.
Con un balzo scese dal piano dello scrittoio. I suoi piedi atterrarono sul pavimento, sotto di essi creature dall’aspetto mostruoso popolavano i mosaici. Lo guardarono con aria minacciosa volgendo il capo nella sua direzione. Aron indietreggiò fino a toccare la parete.
Un bisbiglio sommesso riempì la stanza. Cercò di cogliere qualche parola di senso compiuto, ma erano parole pronunciate in lingue che conosceva appena: greco, latino forse.
Un suono su tutti sembrava il più vicino. Tese l’orecchio, si avvicinò cauto allo scrittoio su cui poco prima si era addormentato e si accostò al grande libro. Il suono proveniva da lì. Nonostante la paura, cercò di concentrarsi su quel suono incomprensibile finché la sua mente non riconobbe quelle sillabe confuse e le assemblò in una frase comprensibile e logica.
-Rivelo cose oscure tramite cose ancora più oscure-.
Con un brivido capì che quell’antico libro ancora chiuso, gli stava parlando.
Doveva andarsene. Doveva fuggire, subito.
Aron senza mai voltarsi, corse in preda al terrore. Aveva perso l’orientamento, tanto da credere che la porta d’uscita fosse sparita e rimase intrappolato senza via di scampo.
Quello che gli stava accadendo era assurdo e spaventoso. Dopo la mezzanotte quel luogo subiva un’oscura mutazione.
Con il fiato corto e il cuore che gli spaccava il petto, si fermò e si accovacciò a terra.
Forse doveva solo attendere che quella minuscola sfera infernale facesse un giro completo. Tremilaseicento battiti di ciglia e tutto sarebbe tornato alla normalità. Forse.
Si tappò le orecchie con le mani per non udire l’orrendo brusio proveniente dal libro. I suoi occhi si muovevano vigili scandagliando il buio, finché, spaventato, vide qualcosa strisciare sul pavimento. Una massa scura era sbucata da una fila di scaffali e si stava dirigendo verso di lui, investita da una delle fioche luci di emergenza ancora accese.
Era una creatura deforme, un corpo tozzo dalla pelle violacea, di un grigiore marmoreo. Avanzava lentamente arrancando sugli avambracci; erano possenti arti aperti ad angolo retto, simili alle zampe di un ragno. Trascinava grottescamente quel terribile corpo privo di gambe.
Al colmo dell’orrore, il giovane capì che quella specie di Chimera era una delle creature raffigurate nel mosaico della stanza principale.
Aron si alzò in piedi e riprese a correre, ma la creatura, nonostante il suo strano incedere, gli stava dietro senza alcuno sforzo.
Si ritrovò nuovamente nella sala degli scrittoi. Alzò gli occhi verso il grande orologio. La piccola sfera nera aveva compiuto più della metà del suo percorso. Passò accanto al mosaico e vide il riquadro chiaro nel suo centro ribollire come un mare in tempesta. Altre figure mostruose tentavano di staccarsi e di prendere vita. Alcune stavano già strisciando goffamente. Avevano zampe di animali su corpi umani. Caratteri bestiali e sembianze umanoidi si fondevano orribilmente tra loro.
Facendo attenzione il ragazzo si mosse e vide la grande porta sbarrata che custodiva quell’orrore.
Si precipitò verso di essa e cercò disperatamente di aprirla. I pannelli di legno intarsiato e i montanti sembravano saldati al resto della parete. Al suo tocco i bassorilievi delle formelle si animarono. Foglie gli si aggrovigliarono ai polsi cercando di risalirgli lungo le braccia, rami spinosi gli ferirono la carne facendolo sanguinare e le corolle dei fiori si protesero assetate verso quelle gocce. Inutilmente cercò di ritrarre le braccia.
Sentiva le creature muoversi alle sue spalle. Lentamente lo avrebbero raggiunto e ingurgitato. L’intera stanza lo avrebbe divorato.
Erano talmente vicine che poteva sentirne l’odore. Un fetore di terra umida, marciume e morte. Quando le prime lo raggiunsero e gli afferrarono le caviglie, percepì il contatto freddo della pietra e una pressione talmente forte che gli parve di sentire le sue ossa polverizzarsi come gesso.
Sentì il sangue scendere verso gli arti inferiori e un ronzio gli riempì le orecchie. Stava per svenire.
Quello che udì in seguito gli giunse come un suono lontano.
-Recedete Vobis!-.
La voce cavernosa tuonò coprendo ogni altro suono. Le creature allora indietreggiarono intimorite senza neppure voltarsi.
Strisciarono nel buio fino a sparire completamente, inghiottite dal pavimento. I rami di rovo che lo tenevano bloccato allentarono la loro presa e Aron cadde pesantemente al suolo.
Quando tentò di rialzarsi un nuovo, indicibile terrore lo invase lasciandolo privo di ogni volontà. Era apparsa una possente figura. Indossava un’ampia veste scura che lasciava scoperto il volto e le mani. Niente di umano.
Ogni singolo centimetro di pelle che la veste permetteva di intravedere era ricoperto da caratteri. Non erano semplici iscrizioni lasciate da inchiostro. Osservandole bene si riusciva a capire che erano delle incisioni: ferite vere e proprie che marchiavano la carne viva in forma di lettere dell’alfabeto. Per ottenerle la pelle era stata torturata. Al primo accenno di cicatrizzazione le ferite erano state aperte più volte, fino a divenire delle profonde piaghe infette.
-Tu…-, chiese quella voce cavernosa, -Cosa sai di noi?-. Aron rimase in silenzio.
-Ci sono cose che devono rimanere nascoste-.
La massiccia figura incominciò a muoversi sospesa nell’aria accompagnata dal fruscio delle sue lunghe vesti. Scivolava senza peso sul pavimento.
Quando gli giunse di fianco, Aron riuscì a vedere dei sottili rivoli di sangue scuro sgorgare come inchiostro dalle sue ferite infiammate.
L’uomo urlò e la sua voce sembrò il coro infernale di mille bestie inferocite.
Il giovane si rannicchiò a terra contro la parete, incapace di difendersi dall’orrore che lo stava devastando. Improvvisamente, la penombra attorno a lui si illuminò di una fredda luce argentea. Il suo orologio segnò l’una.
Ancora in preda al terrore alzò lo sguardo e si avvide che la stanza stava nuovamente cambiando. L’oscurità che ne aveva preso possesso stava svanendo e l’essere dal corpo martoriato, ormai a un passo da lui, si stava dissolvendo come fumo nell’aria.
Con fatica Aron riuscì ad alzarsi e, barcollando, prese ad aggirarsi confuso tra le grandi scaffalature ricolme di libri, fino a raggiungere lo spazio occupato dagli scrittoi. Le creature erano di nuovo intrappolate nel mosaico.
Sollevò lo sguardo verso la parete e osservò il grande orologio di onice nera. I piccoli pianeti dorati avevano ricominciato a muoversi lentamente sul quadrante e, allo scoccare del minuto, le belle lancette ornate avrebbero fatto altrettanto.
Lo sguardo si spostò più in basso. A caratteri dorati, su legno scuro, campeggiava solenne la scritta “IL TEMPO GOVERNA OGNI COSA”.