Severitas - capitolo II Onnigrafo Magazine

Severitas - capitolo II

I sensi tornarono a poco a poco. Naturalmente il primo fu quello del tatto, collegato alle sensazioni di dolore e fastidio. Sentivo attorno a me la salamoia da viaggio, come la chiamavamo tra profani viaggiatori interstellari, che andava defluendo; in quello stesso momento sentivo che mi stavano sfilando i tubi che mi avevano cacciato su per il naso e giù per l’epiglottide, l’elmo-scanner e gli elettrodi che mi monitoravano e le due farfalle collegate a delle sacche che pensavo ormai vuote di nutrienti, vitamine e chissà cos’altro.

Gusto, olfatto, vista e udito furono clementi e si rincorsero pian piano. Finché la vasca di ibernazione rimaneva piena potevo fluttuare eretto nel liquido; fortunatamente per me dei piantoni corsero a sorreggermi da sotto le ascelle, poiché l’equilibrio tardava a tornare. Dire che i muscoli di tutto il corpo erano rattrappiti era un eufemismo.

«Bentornato tra i vivi, signor Da Vinci», sentii dire da una voce che le mie orecchie registrarono come ovattata e al contempo dal volume assordante. Il liquido doveva aver formato un tappo tra padiglione e timpano, risparmiandomi un dolore alla testa lancinante. «Non abbia fretta di aprire gli occhi» stava continuando l’ospite, «anche la più flebile luce potrebbe acuire la già violenta emicrania che la pervade.»

Sentii qualcosa fasciarmi la testa all’altezza del naso; non riuscivo ancora a manovrare bene le braccia, ma intuii dovesse essere una benda per non farmi aprire gli occhi. Mi misero anche un respiratore nasale. Appena sentii l’ossigeno entrarmi nei polmoni vomitai della salamoia che mi era rimasta all’interno del corpo, levandomi quei pochi residui di forza che avevo.

«Adesso la ripuliremo alla meglio, signor Da Vinci. Poi la porteremo in barella nella sua stanza. Le consiglio sin da ora di aspettare almeno un’ora terrestre da quando verrà messo nel suo letto prima di provare ad alzarsi e di fare esercizi di stretching per ogni giuntura e muscolo del corpo.» La voce del dottore era molto superficiale e stanca.

Mentre i sostegni su cui ero afflosciato si stavano abbassando, mi sentii sollevare da almeno quattro mani che mi posero su una superficie metallica. Di lì a poco, un getto d’acqua tiepido mi levò di dosso il grosso della melma ancora attaccata. Poi mi asciugarono, mi coprirono e mi misero su un letto mobile più morbido. Durante queste operazioni, potei cominciare a sentire un po’ di sensibilità tornare alle dita delle mani; provai ad aprire e chiuderle, ma non potei farlo per bene per via delle unghie che erano cresciute a dismisura. Cercai di parlare, ma le corde vocali non sembravano volermi dare una mano.

«Non preoccupatevi, paziente 2341A7» mi rispose una voce metallica, «una volta completata l’operazione di pulizia e detergenza e riportato presso la vostra camera, potrete chiedere aiuto al vostro assistente personale.» La comunicazione si concluse con uno sfarfallio.

Che il Fato mi assista, ho una badante robotica! Questo non ce l’avevano detto a inizio viaggio!
Una marea in tempesta di ricordi cominciò mano a mano a riaffiorare nella mente, prendendo il posto del dolore alla testa e ai muscoli. Il disagio della Terra, l’occasione che mi era stata proposta come ricercatore di flora e fauna su Severitas, l’addio a tutti, l’incontro con i nuovi capi e i nuovi colleghi, l’imbarco, la preparazione per il viaggio siderale.

Ci avevano detto durante l’addestramento che il risveglio sarebbe potuto essere “lievemente brusco sia dal punto di vista psicologico che fisico”, per citare testualmente i dottori, ma qui esageriamo!

Giusto, concentrato com’ero sul non morire, non ho notato le altre salamoie! Chissà come stanno gli altri?

Dopo il breve viaggio in barella, ci fermammo per qualche secondo in un ascensore. Sapevo che le stanze erano ai piani inferiori, ma la forza cinetica dell’elevatore non si sentì per niente. Dopo pochi passi sentii una porta scorrevole aprirsi; venni portato dentro e il mio accompagnatore androide mi disse: «Paziente 2341A7, siete stato portato con successo presso la vostra stanza. Prego, pronunciate la parola aiuto in caso aveste bisogno di qualsiasi cosa. L’assistente personalizzato della nave soddisferà ogni vostra richiesta. Buona permanenza».

Un lieve fruscio mi fece capire di essere rimasto solo nella stanza. Tutto il pavimento dell’astronave Liburna era magnetizzato e quei cosi, gli ausiliari medici robotici, fluttuavano dove volevano grazie al differenziale magnetico. La loro intelligenza artificiale  permetteva loro di svolgere compiti semplici, come appunto portare una barella da un punto A a un punto B o dare delle informazioni, sgravando così il personale umano dalle incombenze banali che avrebbero portato via tempo prezioso.

Continuai a concentrarmi sul movimento delle mie mani e sul respiro, finché non sentii essere tornato in pieno possesso di tutte e due senza percepire grossi dolori. Provai a parlare, ma la gola ancora raschiava per il lungo inutilizzo; tornai a dedicarmi al corpo e alle articolazioni. Ci volle un’ora prima di riacquistare l’utilizzo quasi totale delle braccia: in quel lasso di tempo cercai, di tanto in tanto, di schioccare la lingua prima, articolare delle lettere e pronunciare delle sillabe semplici poi, così com’ero stato addestrato prima del viaggio. La lingua è il muscolo più sviluppato di tutto il corpo umano, ci diceva il dottor Goliath, e a non usarlo per tutto quel tempo per dire le vostre stronzate o per leccare i genitali del sesso che vi si confà, si contrarrà, come se aveste una fica secca dentro la bocca. Sarà dura riprenderne possesso, ma dovrete persistere. E così feci in quell’ora, anche se al solo schiarirmi la gola mi sembrava di aver apenna ingoiato il peperoncino più piccante dell’universo.

Riuscii infine a pronunciare la parola aiuto. Ne seguì una musica da presentazione dozzinale; quindi una voce enunciò: «Salute a te, viaggiatore e bentornato nella Liburna. Sei stato dormiente per centoventicinque anni, sei mesi e dodici giorni. L’unità di tempo è stata calcolata in secondi terrestri. Come posso esserti di aiuto?», l’ultima parola era una registrazione della mia voce, quasi l’AI volesse prendersi gioco di me.

Dopo alcuni istanti, all’apparenza eterni, di silenzio, durante i quali bestemmiai a denti stretti e sudai freddissimo per lo sforzo,  riuscii infine ad articolare la parola «massaggio».

«Eccellente, viaggiatore!» rispose prontamente la voce automatica, «un’unità manipolatrice sta arrivando nel tuo alloggio».

Stavo stavo cercando di riprendermi dallo sforzo appena compiuto, quando sentii infine la porta  della mia stanza aprirsi. La sensibilità era quasi del tutto tornata in ambedue le mani, ma sentivo ancora le braccia estremamente pesanti e spente.

«L’unità manipolatrice è qui, pronta ai tuoi comandi. Vuoi un massaggio energizzante? Uno rilassante? Uno rinvigorente?»

Bastarda di un’AI, sono ritornato adesso dal mondo dei morti, non voglio una spa!

La produzione di saliva stava pian piano tornando normale e la lingua non era più un’anguilla millenaria, ma ancora non si era ripresa del tutto, quindi balbettai quando dissi «massaggio post ibernaggio.»

«Ma naturalmente, viaggiatore!»

A partire dal collo, passando alla schiena, poi alle braccia e infine alle gambe, sentii il tocco freddo della pelle sintetica cominciare dapprima a distendere e poi, pian piano, a rinvigorire i muscoli. Per gli arti inferiori ci volle più tempo che per il resto dato che dopo tre quarti d’ora terrestri non riuscivo ancora a sorreggermi da solo.

«Ah! Basta toccarmi con quello schifo!» sbottai infine, esasperato. «Lasciatemi da solo, mi devo sistemare…»

«Come vuoi, viaggiatore» rispose prontamente l’AI della camera. Ancora con gli occhi bendati, sentii l’unità manipolatrice andarsene. «Qualora avessi bisogno, sarò a un aiuto» di nuovo con la parola registrata poco prima, «da te!» 

Un’altra musica idiota che simulava uno spegnimento e fui di nuovo da solo con me stesso. Mi tolsi la benda dagli occhi.

«Camera, accendi le luci», dissi al comando vocale che sapevo essere sempre attivo. Sfortunatamente, questo non sembrava sapere della mia condizione di precarietà oculare e attivò i LED al massimo, facendomi sobbalzare. 

«Luci al minimo, cazzo!» e queste si affievolirono.

Mi massaggiai le tempie un momento, ma ormai l’emicrania era tornata. Ero stanco, ancora un po’ appiccicoso della brodaglia da ibernaggio, mezzo sordo e mezzo cieco. Se non altro mi è tornata la voce, anche se le corde vocali sono ancora doloranti.

Cercai di guardarmi attorno. La stanza in cui mi avevano stipato era grossomodo come me l’ero immaginata con armadio, letto, scrivania e sedia, tutto bianco e asettico; bagno separato con doccia automatica, water multifunzione e lavandino con armadietto, dentro il quale vi era tutto il necessario per ripulirsi. Non essendo un VIP, non avevo il finestrone che dava sull’infinito, ma se non altro potevo termoregolare l’ambiente a mio piacimento. Gli altolocati avevano anche la possibilità di cambiare arredo con l’AI, ma erano vizi di cui avrei dovuto fare a meno.

Ci era stato ripetuto più volte che dopo lo scongelamento ci sarebbe spettato un briefing per aggiornarci su ciò che era successo sulle colonie del pianeta che avremmo dovuto studiare. Io ero stato scelto come esperto di sopravvivenza, essendo uno degli esponenti del Mutata hominum, o MH: per farla breve, gente dal DNA modificato.

Per prepararmi alla riunione avevo bisogno di una doccia, di una sbarbata e messa in piega, manicure e pedicure accurati, cose che non avevo assolutamente la pazienza di portare a termine. La pulizia fu sommaria: le unghie le tagliai molto e male, la barba la tenni abbastanza incolta. Lasciai i capelli lunghi: l’uomo trasandato non è mai passato di moda in centinaia di anni.

I capi di vestiario disponibili post ibernaggio all’interno dell’armadio erano pochi e scomodi; avrei dovuto richiedere i miei dopo essermi presentato alla riunione e registrato. Indossai quindi la biancheria che passava la compagnia dell’astronave colonizzatrice e poi  pantaloni attillati e camicia senza collo, entrambi bianchi. Le calzature, bianche anch’esse, erano quelle che ci si poteva aspettare per un paziente in ospedale. Orribili e fredde! Fortunatamente devo solo resistere ancora un paio d’ore e torno nei miei anfibi.

Mi avvicinai alla porta della camera che si aprii con un fruscio sommesso.

In una nave spaziale come la Liburna, lo scandire del tempo era dato dal proprio orologio biologico, o da quello che si aveva in dotazione una volta saliti a bordo. Non c’era giorno o notte, la luce era sempre standard in tutti gli ambienti condivisi, a parte naturalmente negli observatorium, stanze sparse per tutta la lunghezza della fusoliera mastodontica, dedicate all’osservazione delle stelle che il viaggio permetteva di osservare a occhio nudo. Non mancavano anche alcuni potenti telescopi ultrasonici il cui scopo era scoprire  nuovi pianeti papabili per altre avventure spaziali. Quelli erano automatici: osservavano, raccoglievano dati, catalogavano e mandavano dati agli scienziati affinché decidessero quali potessero godere della presenza umana. Quando mi hanno addormentato, un secolo fa, i pianeti colonizzati, oltre Severitas, erano altri due. Chissà se abbiamo trovato qualcosa di nuovo. Non era mai facile iniziare un’opera di colonizzazione su un pianeta: radunare, reclutare, armare, organizzare; tutto costava parecchi crediti interstellari, e sicuramente gli armatori non smuovevano grosse cifre per il solo amore della scoperta o della scienza.

Una marea di crediti investiti per questo viaggio e tutto il vestiario che offrono sono queste schifezze scomode.

Insieme ai vestiti, c’era anche una fascia da polso, con la quale potevo comunicare con l’AI di bordo. Avvicinai l’apparecchio alla bocca e chiesi: «Dov’è l’auditorium per l’incontro post-ibernaggio?»

«Sono risultati numero due incontri con la dicitura ibernaggio…»

«Portami a quello più vicino.»

«Come desideri, viaggiatore!»

Dalla fascia da polso partì un raggio che scaturì in un piccolo oloschermo nel quale comparve un puntino rosso intermittente, la mia posizione, in una mappa a tre dimensioni della nave. Una linea verde segnava il tracciato da seguire. «Devi prendere numero due ascensori gravitazionali per arrivare a destinazione, uno dei quali è molto utilizzato in questi minuti. Avverto gli organizzatori del tuo ritardo, viaggiatore?»

«No, lascia perdere. Me la prendo comoda.» Se stanno per iniziare vuol dire che hanno scongelato anche altra gente, oltre a me. Chissà chi è tornato alla vita?

«Come desideri, viaggiatore! Vuoi che attivi la guida discreta?» mi stava intanto dicendo l’AI mentre ero perso nei miei pensieri.

«Sì, sta bene» risposi distrattamente. Forse quel vecchio bifolco di Lauren? Infondo è un MH come me. Ma se non ricordo male, lui non era destinato a Severitas, ma a una delle sue lune.

«Tieni il polso col navigatore esposto, al resto penserò io» continuò l’AI, che aveva materializzato una freccia verde fluttuante dinanzi a me; seguendo quell’indicazione, mi incamminai.

Nei lunghi corridoi bianchi della mia zona residenziale c’era scarso movimento, probabilmente perché avevano scongelato poca gente di qui che doveva scendere a Severitas. Questo esopianeta non era una meta ambita dai ricercatori: l’atmosfera era quasi identica a quella della Terra, ma le forme di vita studiate fino a quel momento, la morfologia, le emissioni di suolo e piante e, soprattutto, la gravità erano a dir poco ostili, di conseguenza poco remunerativi per gli armatori. È anche vero che ci sono solo due colonie, per lo meno fino a quando ero andato in ipersonno. Magari le cose sono cambiate.

Arrivai al primo ascensore magnetico, dentro la quale vi erano già due persone.

«Vestiti da post ibernaggio» notò uno dei due, quello che sembrava un tecnico. «Prima volta?»

«Si nota così tanto?»

«Da quando sono su questa bagnarola, non ho mai visto nessuno utilizzare il navigatore dell’AI» rispose l’altro, in divisa da membro dell’equipaggio; forse un novizio, visto che non vedevo gradi né alla spalla, né al colletto. L’accento sporco mi fece intuire che nessuna delle lingue romanze erano sue dalla nascita.

«Già! Quei cosi» continuò il tecnico, indicando la fascetta stretta al mio polso. «Vanno ai matti facilmente, soprattutto se ci sono molti utenti connessi. Roba che si vedeva solo nell’era scema della Terra!».

«Quindi mi state consigliando di spegnere tutto e chiedere indicazioni in una nave spaziale con, che ne so, quarantadue livelli?» chiesi tentando di essere più sarcastico che spazientito. L’emicrania non era del tutto passata e non avevo alcuna voglia di parlare del più e del meno.

«No, no, anzi!» mi disse il tecnico, che mi afferrò il polso e intanto con l’altra mano estraeva quella che sembrava una penna. Col pollice premette dei tasti sul lato del tubicino e da un’estremità uscì un oloschermo. La punta toccò per alcuni secondi il lato della mia fascia, uscì un bip dalla penna e il tipo disse: «Alè! Adesso sei connesso alla banda di noi tecnici. Non dovresti avere lag in nessun momento da qui… all’eternità!».

«Ehi, grazie amico…» risposi, guardando la fascetta. Non ero abituato a questa bontà gratuita.

«Ti ho anche registrato il mio contatto. Finché stai sulla Liburna e hai dei problemi con le apparecchiature di bordo, mandami un messaggio che ti trovo io», concluse con un occhiolino.

«Perdonalo» aggiunse il membro dell’equipaggio, un tipo olivastro di carnagione e le labbra carnose. «Julian deve farsi vedere un po’ in giro, perché è al suo primo viaggio. Più buone note dai passeggeri ha, più avanza di grado».

Un sorriso e due pollici alti da parte di Julian furono la conferma di quello che aveva appena detto l’altro. «Tu piuttosto, per cosa hai affrontato tutto quel tempo in salamoia?».

«Sono un ricercatore, devo scendere a Severitas, presto o tardi…» cercai di mantenermi sul vago. Intanto la freccia olografica scomparve per un istante, fece un breve sfarfallio e si riposizionò davanti a me, indicando verso l’alto. 

«Ah! Sei uno di quelli strapagati o uno come noi poveri sfigati che devono fare tutto il lavoro sul campo?», chiese Julian, cercando una complicità che non riuscivo a fare mia.

«Sono un MH» tagliai corto.

A quelle parole, potei vedere subito il cambio di atteggiamento da parte del membro dell’equipaggio: fece un passo indietro, sbattendo sulla parete metallica dell’ascensore e si irrigidì. Molti miei colleghi usavano la propria situazione per avere vantaggi, incutere timore o chissà che altro. Essere un MH spesso non era una scelta, e quindi ci stava che qualcuno la sfruttasse; per chi ci osservava, c’era sempre quello sguardo di dubbio misto a misticismo, come se non fossimo del tutto umani. A me non è mai importato molto, se non per interrompere quelle chiacchiere da bar. 

«Sì, questo l’ho visto nella tua scheda» continuò Julian, per nulla impressionato dalle mie parole. «Sei uno di quei capi che si siederanno comodi in una delle colonie? O andrai a rischiare la vita in posti inesplorati?».

Guardai per un secondo  il ragazzo negli occhi. Giovane, forse venti o ventuno estati terrestri. Sarà uscito da qualche scuola di second’ordine da poco e non sa un cazzo dell’universo… rimani così, ti prego, non cambiare!

«La seconda, immagino» risposi.

«Ah, Lo sapevo! Un uomo d’azione!» festeggiò, battendo un pugno sulla spalla dell’altro,  ancora impietrito. Evidentemente i racconti a bordo sugli MH dovevano averlo spaventato a morte. C’era chi ci dipingeva come esseri che sparano raggi dagli occhi, o capaci con un solo sguardo di leggere emozioni, pensieri o chissà che altro. Tutte voci di corridoio, naturalmente. Noi MH abbiamo solo piccoli tratti di DNA modificato: sappiamo fare meglio alcune cose, magari uno dei sensi amplificati; raramente queste alterazioni si vedono a livello visivo. Anche perché quelli appariscenti di solito fanno una brutta fine.

Un beep preceduto dall’attenuarsi della musica da ascensore e un segnale luminoso dallo schermo mi riportarono alla realtà: «Io scendo qua».

«E noi saliamo! Come hai detto che ti chiami?» indagò Julian, il tecnico.

«Guglielmo. Da Vinci.»

«Perfetto! Così avrò di che vantarmi con gli altri! In culo al pelligatto, come dicono su Severitas. E buona permanenza sulla Liburna!» mi urlò mentre le porte si chiudevano dietro di me.

«Come dici te» sussurai mentre me ne andavo, senza girarmi.

Pelligatto? Che razza di animale è?

Ero arrivato nella prima vera sala comune, il ponte IV, là dove si veniva per il ristoro. In quel momento era piuttosto popolato, come aveva detto l’AI poco prima. Il cibo nella Liburna non era un problema, soprattutto perché ogni tipo di pagante aveva un determinato range di pietanze da poter comprare. Ottenere da mangiare era piuttosto facile: prendevi un vassoio con le posate, ti avvicinavi a una edicola refectionem, passavi la fascia da polso sullo scanner e ordinavi vocalmente o tramite oloschermo quello di cui avevi bisogno. La edicola in pochi minuti provvedeva a ‘stampare’ il cibo richiesto. Intorno alle diverse edicolae vi erano decine e decine di tavoli da due o quattro posti e in quel momento molti erano occupati; il vociare comunque era sommesso, con somma gratitudine del mio mal di testa.

Ci avevano consigliato di non consumare cibi solidi per le prime cinque ore dopo il risveglio dall’ipersonno, ma avevo bisogno di qualcosa per darmi un po’ di energie, quindi approfittai del mio passaggio in questo ponte per fermarmi in una edicola rapida. Ne scelsi una senza fila; non avevo voglia di fare altre chiacchiere, colpa dell’emicrania che stentava ad andarsene. Passai la mia fascia da polso sul lettore e ordinai un integratore con mix di proteine e vitamine. C’era anche l’opzione per ottenere una capsula orosolubile, ma sentivo di dover riattivare tutto il canale dell’esofago, quindi preferii la soluzione liquida, un bibitone da quasi mezzo litro al sapore di schifo e rimpianto.

Sorseggiando l’intruglio, mi avviai dove la freccia mi indicava.

Un centinaio di metri e mi ritrovai ad aspettare un altro ascensore, questo non si muoveva solo in verticale, ma anche in orizzontale: lo diceva il disegnino stilizzato sopra al bottone di prenotazione, nonché la freccia dell’AI, che mi stava dicendo di salire in obliquo. Per smaltire le file di quel ponte erano stati messi a disposizione dei viaggiatori tre ascensori, più uno esclusivo per i membri dell’equipaggio. Era quindi impossibile sapere quale sarebbe arrivato prima o quale avrebbe fatto il viaggio nel minor tempo possibile, quindi mi armai di pazienza, mettermi in fila con le decine di persone che avevano finito di mangiare, entrare nel primo che fosse arrivato e sperare che nessun altro avesse avuto voglia di chiacchiere senza capo né coda.

Pochi minuti di attesa e arrivò il primo ascensore, che vomitò una fiumana di gente dal vociare indistinto. Li avrei ammazzati tutti volentieri. All’interno vi si riversò altrettanta umanità, quindi decisi di aspettare un altro giro.

Ancora pochi minuti, ancora un ascensore, ancora una folla vociante, di nuovo l’istinto omicida. Anche questa volta rientrarono molte persone, ma non potevo aspettare oltre, soprattutto perché al briefing non avrebbero aspettato me, come la fascia da polso insistentemente mi stava ricordando con continue vibrazioni.

Passai il navigatore personale sul sensore, che mi prenotò la discesa al livello dove dovevo andare automaticamente. Fortunatamente dopo poche fermate vocianti, arrivò la mia.

Chiesi all’AI di farmi venire una unità smaltitrice, visto che il mio mix energetico era finito; a pochi passi dall’uscita dell’ascensore comparve questo robottino che mi arrivava all’anca, il coperchio che sembrava una grande bocca fagocita-immondizia già aperto. Lo guardai andarsene con il mio involucro e scomparire in una fessura nel muro. In un viaggio interstellare come quello che stava intraprendendo la Liburna, difficilmente si utilizzavano dei materiali impossibili da riciclare, tanto che le scorie di anni che venivano spedite nello spazio durante il tragitto si potevano contare sulla punta delle dita.

Dopo ancora una piccola passeggiata, arrivai infine all’auditorium dove il briefing era già iniziato. La freccia fluttuante diventò un cerchio verde con una v bianca all’interno e l’AI mi disse: «Sei arrivato a destinazione, viaggiatore!» per poi far scomparire l’icona subito dopo.

Fuori dalle porte a scorrimento vi era un droide al quale avrei dovuto annunciarmi, come diceva l’oloschermo in petto allo stesso.

«Guglielmo da Vinci, sono qui per l’incontro…» ma non potei finire la frase che il portone si aprì e mi venne a sbattere addosso una ragazza, la chioma scura leonina chinata sul bracciale da polso, ben più grosso di quello che portavo io.

«Oh… perdonatemi…» balbettò lei distrattamente.

«L’incontro deve essere tremendamente noioso se lo si passa sul minicomputer» cercai di scherzare.

La ragazza mi lanciò uno di quegli sguardi da non sono assolutamente tipa da chiacchierata casuale, tanto che mi rispose con sufficienza: «Questo è il briefing per gli MH» e se ne andò, senza nemmeno una seconda occhiata.

«Allora sono nel posto giusto. Ottimo lavoro, AI» dissi alla mia fascia da polso.

Un veloce sfarfallio. «Grazie, viaggiatore!» rispose la voce, facendo comparire per pochi istanti un’immagine stilizzata di un pugno chiuso con il pollice alzato.

Lei si fermò a pochi passi da me.

«E allora chi saresti?» chiese, girandosi di tre quarti.

«Mi chiamo Guglielmo. Mi sono risvegliato solo poche ore fa».

«Guglielmo, eh?» disse lei tra sé. Si avvicinò, e sfiorò la mia mano. «Ho appena preso il tuo contatto: potrebbe tornarmi utili una volta a Severitas!»

«Cosa ti dice che scendo là?» domandai io, un po’ interdetto dal suo repentino cambio di interesse.

«Non ti avrebbero decongelato adesso. A presto, viaggiatore!» concluse lei, strizzandomi l’occhio, prima di svoltare un angolo.

Un altro bzz dalla fascia da polso. «Hellen è stata aggiunta alla tua lista contatti.»

Hellen, dunque, mi dissi, compiaciuto. Una bella tipa! Vediamo se ne ricaviamo qualcosa di buono!

Con un sorriso da deficiente, finii di registrarmi dal droide ed entrai nell’auditorium, un po’ più felice di affrontare quelle restanti tre ore e mezzo di spiegazione da un ologramma su decine di argomenti, di cui la maggior parte già sapevo.

Il risveglio stavolta fu più brusco del solito.