Francesco Lumine, Elisabetta di Michele, Filippo di Carlo
Radio Italia Libera
«Adoro l’Italia.»
«È quello che vogliamo sentire, Anita. Da quanto tempo vivi qui a Roma?»
«Sono ben diciassette anni ormai. Ma per me è come se fossero cinque minuti!»
«Mi fa piacere, tesoro. Che cosa vuoi dire ai nostri ascoltatori? A parte quello che ci hai appena detto! Ricordiamo: Anita, oltre a farci i complimenti e ad amare il nostro paese, nel quale vive da diciassette anni, fa la migliore paella della penisola!»
«Beh, Ita… Ti posso chiamare Ita?»
«Ma ovvio che sì! Allora, una battuta finale?»
«Sì… Venite tutti al mio ristorante!»
Risata. Un cordiale epilogo. La conversazione terminava con i doverosi saluti. Spazio pubblicitario incombente. Radio… Italia… Liberaaaaaaaaa: torniamo tra poco! Mancavano due minuti alle sette della sera. Il tempo alla voce, Italica, detta Ita da tanti ascoltatori, di prepararsi al gioco, il quizzone, il momento della cultura. Si cominciava alle sette, appunto. Si finiva alle otto.
Radio… Italia… Liberaaaaaaaaa! Radio Italia Libera, in diretta dallo studio di Roma, presenta: Italica Sempre, il quiz radiofonico preferito da chi ama il paese più bello del mondo!
«Ed eccoci ancora in diretta! Siamo su Radio Italia Libera e voi, sì, proprio voi, siete sulla frequenza ideale per chi ama il nostro paese, la nostra storia, la nostra cultura!»
Italica non si fermava un secondo. Primo anno di Radio Italia Libera, un successo. Gli ascolti aumentavano di settimana in settimana. Buona musica, il giusto pizzico di aneddoti nostalgici in un periodo difficile. E poi c’era il quiz. Tutti dimenticavano la crisi, il maledettissimo covid, le fragilità politiche, la scuola che ripartiva, o forse no. Concentrati sulle domande.
«Lo ripetiamo», diceva Italica, con la sua voce sensuale al limite dell’orgasmo, «prenderemo la prima chiamata, e al fortunato ascoltatore porremo la fatidica domanda. Ricordiamo: cultura generale, ovviamente riguardo la nostra meravigliosa Italia, che non si azzarda a mollare, nemmeno nel bel mezzo di una pandemia senza precedenti. Noi resistiamo, noi ci siamo! Qui, per voi, tutti i giorni dal lunedì al sabato, con il quiz e la possibilità, per il vincitore, di aggiudicarsi un weekend end di pieno relax, ovviamente appena terminate le doverose restrizioni, in…»
E chi la fermava. La gente ha bisogno di sentirsi sollevata, le avevano detto in riunione. La direzione nutriva forti aspettative nei suoi confronti. Facciamo leva sul nostro paese, il più bello del mondo. Le solite cose: le città d’arte, i borghi, il cibo. All’italiano medio questa cantilena del cazzo piace, le aveva detto il direttore. Si sentiranno protetti, al sicuro. Chiusi nei loro appartamenti, con la radio accesa, a cucinare lasagne o chissà che altro, con la televisione chiusa. In bocca a quei maledetti rotti in c..o della rete nazionale.
«Il primo partecipante! Come ti chiami?»
«Pronto?»
«Sei in linea! Qui è Ita, chi sei tu?»
«Ciao Ita! Parla Carlo, da Brescia!» disse, entusiasta, il primo ascoltatore, con la cadenza tipica del bresciano, e un velo di emozione.
I soliti convenevoli, anche se occorreva sprecare meno tempo possibile. A Ita avevano detto di non esagerare con i dialoghi di circostanza. Dritta al punto. E così fece. La prima domanda della puntata non colse alla sprovvista l’amico da Brescia.
«Qual è il nome originale del celebre poeta romano Trilussa?»
Alcuni attimi di silenzio, il tempo necessario per rispondere. I secondi, scanditi dalla voce di Italica, si stavano esaurendo. Più che altro, per non permettere all’ascoltatore di compiere una scontata ricerca sul telefono.
«Carlo Salustri!»
«La possiamo accettare?»
Un cenno di assenso da dietro le quinte. Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri, ma chi poteva ricordarsi il nome intero? Italica lo specificò, ricordando al bravissimo Carlo come sarebbe stato preso in considerazione per il sorteggio, tra i partecipanti, per il premio finale.
«Ciao sono Marisa, chiamo dalla provincia di Viterbo!»
«Ciao Marisa!» urlò di gioia Ita. «Sei pronta per la seconda domanda della serata?»
Marisa lo era eccome. Ma non lo fu altrettanto per la risposta. Che razza di domanda del cazzo, si ripeteva in testa, cercando la soluzione sullo schermo del telefono nuovo. Il luogo di nascita dell’eroe Garibaldi.
«No, non è Torino, Marisa, mi spiace!» esclamò Italica. «Ci sei andata vicino. Si tratta di Nizza! Giuseppe Garibaldi nasce a Nizza, il 4 luglio 1807.»
Il tempo si assottigliava. «Prendiamo un’altra telefonata», disse la voce tricolore preferita dagli italiani, incollati alla radio novità dell’era covid-19.
«Pronto…»
«Ciao! Sei in onda! Ci dici il tuo nome?»
«Mi chiamo Vero. Vero come ciò che dico, e che voi dovete ascoltare!»
«Prego?»
«Hai sentito benissimo, Ita. E così la gente in ascolto. So che non metterai giù, non sei così maleducata. Tu dai spazio a tutti, non è così?»
«Vero… il tuo nome è tutto un programma. Hai detto una cosa giusta, sì, io do spazio a tutti, sebbene tu lo stia togliendo ad altri potenziali concorrenti, che non vedono l’ora di…»
«Smettila, con questa lagna!» tuonò la voce misteriosa. «Ce l’ho io una domanda per voi! Avete parlato di Garibaldi, l’eroe dei due mondi! Bene, sapete quante vittime innocenti ha causato la sua spedizione e la sua guerra per “liberare” l’Italia?»
«Credo che non sia divertente, Vero… E credo proprio che manderò la p…»
«C’è un’ultima cosa che devi sapere, Ita, prima di mandare in onda la pubblicità», la interruppe ancora la voce. «C’è una bomba, a pochi passi dalla sede della vostra radio! Ci sono bombe di fronte agli ingressi di diverse stazioni radio in tutta Roma, proprio adesso!»
Ita cominciò a guardarsi attorno. Le fecero cenno. Avrebbero chiuso il collegamento, ma lei si ostinava a dire no con la testa. Non voleva. C’era un terrorista, in linea?
«In un momento di grave crisi sociale ed economica, con la gente sul lastrico, senza lavoro, senza speranza, senza futuro, voi ve ne state seduti lì a ridere, a scherzare, a imporvi come alternativa, come soluzione per la felicità, la fuga dai problemi... Siete voi, proprio voi, il vero problema! Giornali, radio… vi pentirete di tutto il male che state seminando, delle balle che ci raccontate, del modo in cui vi permettete di sorridere, e guadagnare, quando c’è gente che non ha più un soldo!
Voi, che vivete nelle disgrazie della gente, e vi permettete di dare consigli sul vivere! Dite che dobbiamo sorridere, che non dobbiamo mollare… Beh, voglio vedere come sorriderete ora… Tra cinque secondi la prima delle bombe disseminate per la città esploderà, e colpirà gli spacciatori di ipocrisia di cui il nostro paese deve liberarsi, una volta per tutte! Il gioco finisce tra cinque, quattro…»
Uno zaino pesante, poco fuori il cancello del parcheggio, in mezzo alla strada. Avevano verificato. La voce non mentiva. Ita non parlava da alcuni secondi.
«Tre, due, uno…»
U.P.L.I.
«Tre, due, uno…»
Nulla. Non successe proprio nulla.
Il sorriso di Vero si trasformò in una smorfia di tensione e incredulità. Cosa non aveva funzionato? Da mesi era tutto pronto. Da mesi lei e il resto dei membri della U.P.L.I. (Unione Pulizia e Liberazione dall'Ipocrisia) avevano escogitato e preparato tutto. Da mesi sognava questo momento. Forse si trattava semplicemente di un problema tecnico. Impossibile che qualcuno avesse potuto disinnescare l'ordigno in così poco tempo, dato che nessuno fino a quel momento era a conoscenza della sua esistenza; nessuno a parte… possibile che tra loro… e se per caso… no, impossibile, cosa andava pensando?! La tensione genera brutti scherzi. Basta perdere tempo, doveva tornare subito alla base per capire cosa fosse accaduto e soprattutto per controllare con i suoi compagni le altre sei bombe disseminate per la città; erano programmate per esplodere a quindici minuti una dall'altra, un tempo sufficientemente lungo per aumentare l'angoscia tra la popolazione e tra le forze dell'ordine, ma non sufficientemente lungo per permetterne il ritrovamento e il disinnesco. Così Vero girava a più non posso l'acceleratore della sua moto, le due ruote correvano velocemente sull'asfalto, così come velocemente scorreva l'adrenalina nelle sue vene.
C’era qualcun altro nel suo stesso stato di eccitazione: qualcuno che faceva parte di un’organizzazione ancora più solida, qualcuno che aveva uno scopo ben più terrificante; qualcuno che pilotava tutto, come un grande burattinaio, pronto a tagliare da un momento all’altro i fili a ciò che più non serviva. Attendeva nel mezzo del tunnel, al solito posto: in quel buio, solo la brace incandescente della sua sigaretta.
Vero si precipitò nel sottoscala di quello che al momento era il loro nascondiglio.; Lo cambiavano in continuazione, una misura sicuramente scomoda ma di certo utile per continuare ad agire indisturbati all’ombra di tutto. Peter le corse incontro: quanto avrebbe voluto saltargli al collo e abbracciarlo. Le sue forti braccia le avrebbero restituito un po’ di sicurezza e Dio solo sa quanto ne avrebbe avuto bisogno in quel momento. Da quando si erano lasciati pochi mesi prima, evitava ogni contatto fisico con lui, perciò si trattenne, con un grande sforzo. I due si scambiarono soltanto uno sguardo, e in esso vi erano racchiusi tutte le preoccupazioni, tutte le domande, tutte le incertezze e i sogni infranti. Anche gli altri si precipitarono verso di lei. La guardarono come sempre con ammirazione: pendevano dalle sue labbra e la vedevano come l'eroina da servire e venerare, non certo, purtroppo, da emulare, perché non si sentivano assolutamente all'altezza di farlo; di certo non sarebbero riuscite a tenere quel tono così tagliente, così sicuro, così carismatico come quello che aveva mostrato lei durante la telefonata a Radio Italia Libera. Anche Gioè (diminutivo di Gioele) e Roberto lasciarono i loro PC, su cui ormai vivevano per la gran parte del giorno e della notte, per un velocissimo quanto necessario brainstorming.
Nel tunnel una sfera luminosa si avvicinava; di sicuro era la sua torcia, e questo significava soltanto una cosa: il gioco era iniziato. Mentre le radio di Roma si spegnevano, procedura di sicurezza, un interruttore veniva acceso, e ora che la macchina era in moto nessuno l'avrebbe più potuta fermare.
Igor
stava uscendo dal suo nascondiglio per andare incontro a quella luce nel tunnel, ex nascondiglio per le armi dell’area militare, ma la voce
dell’avventore lo fermò: «Sì tenente, mi sto incamminando nel
tunnel, ma per ora non ho ancora rilevato nulla di strano e nessuna
presenza, continuo la perlustrazione.» Il tono appena percettibile,
non era sicuramente la voce che si aspettava.
Del sudore freddo iniziò a scendere sulla schiena, il mozzicone scivolò a terra lambendo i pantaloni e venne schiacciato dalle sue magnum; la brace della sigaretta avrebbe potuto farlo individuare facilmente e non era il caso di farsi trovare in quel posto, dover spiegare la sua presenza e quell’attrezzatura.
Doveva pensare in fretta e ancor più velocemente agire; lui sarebbe anche potuto passare inosservato ma il resto non poteva farlo svanire nel nulla.
«Qualcuno sa spiegarmi cosa cazzo è successo? Sono mesi che organizziamo questo attentato, proviamo gli inneschi e appena entriamo in pista finisce la musica.»
Vero amava il tango e tutte le sue metafore giravano attorno al ballo.
Peter lo aveva conosciuto in una delle tante balere e, nonostante la loro storia fosse finita, ricordava ancora il loro tango sensuale dopo aver fatto saltare un aereo diplomatico; Joker e Harley sembravano una coppia di dilettanti a loro confronto.
«Non lo so Vero…» la voce di Roberto tradiva nervosismo, «il segnale tra il detonatore e l’innesco è attivo, ma sembra come non abbia innescato.»
«Eccolo il tuo dannato detonatore, vedi? Luce verde…luce rossa… e nulla. Come me lo spiegate?»
Gioè e Roberto avevano preparato insieme ogni cosa: ordigni, detonatori, inneschi e i collegamenti radio. Anni di servizio negli artificieri, seppure in periodi diversi, li rendevano più che qualificati; padroneggiavano ogni tipo di detonazione possibile, ma erano stati assoldati solo pochi mesi prima dell’attentato, quindi una loro conoscenza antecedente era stata esclusa e nessuno dei due avrebbe potuto apportare modifiche al piano senza che l’altro se ne accorgesse.
Vero guardava tutti con aria investigativa: qualcuno aveva tradito o si era trattato solo di un problema tecnico?
«Sì tenente, le ho detto che il lucchetto era aperto e nel controllo di ieri non presentava nessuna anomalia.»
Igor maledisse la sua fretta e sbadataggine; la chiusura del lucchetto doveva essere la prima cosa che doveva effettuare appena varcata la rete di recinzione che chiudeva il tunnel.
Non era preoccupato della vita della guardia, quella se la sarebbe portata via con l’ennesima tacca sul coltello, ma certamente, se non avesse dato più sue notizie, avrebbero mandato qualcun altro a controllare.
I passi si avvicinavano, la lama del suo coltello era già pronta a tingersi di rosso, dal rimbombo degli scarponi lo immaginò a pochi passi da lui: tre, forse quattro.
Prese aria, il vapore del suo respiro avrebbe potuto tradirlo; chiuse gli occhi e come un pipistrello seguì i suoi passi.
Tre…due…uno