Ji - da "Il bambino senza occhi" Onnigrafo Magazine

Ji - da "Il bambino senza occhi"

da "Il bambino senza occhi"

Ricordo, dopo aver varcato la soglia dell’orfanotrofio di Odessa, che suore e bambini ordinati in fila come piccoli soldati mi osservarono con curiosità. Il primo a salutarmi fu Alfonso, con un sorriso pieno e sincero che non avrei mai più dimenticato. Era enorme, insaccato in una camicetta chiusa da bottoni pronti a esplodere. Ricambiai con un timido gesto della mano.

In poco tempo le paure si affievolirono con una lentezza tanto esasperata che, quando se ne andarono, nemmeno mi resi conto della loro assenza. La tristezza invece no, quella non mi ha mai abbandonato; e nemmeno il dolore, anche se lo nascondevo bene: mi urlavano addosso entrambe, soprattutto di notte, quando tornavo a essere solo. Le avvertivo sprofondare al mio fianco, nella morbidezza del materasso.

Con cadenza regolare venivano a trovarci coppie in cerca di qualcosa da amare: potevano scegliere in base alla simpatia, al colore degli occhi, al sorriso o all’età, ma nonostante mi sentissi un oggetto in vendita, per quasi due anni le attesi ogni mese con ansia, queste visite. Finché arrivò lui.

Era ormai la fine del ’77 quando lo conobbi all’orfanotrofio, tra novembre e dicembre. Quel bambino dagli occhi a mandorla non aveva ancora otto anni, e tossiva. Tossiva sempre.

Durante il suo secondo giorno all’istituto, io e i miei compagni lo vedemmo giocare da solo con dei bastoncini di legno ricoperti da colori vivacissimi, seduto sui gradini che portavano al sagrato della chiesetta. Mikado, lo chiamava. Dopo pochi minuti eravamo tutti seduti in cerchio intorno a lui, ad aspettare il turno per poterci giocare.

A mezzogiorno, in piedi davanti al suo piatto, recitava rispettosamente insieme a noi la preghiera insegnataci dalle suore. Nonostante tenesse come tutti il capo chino, i suoi occhi sottili scandagliavano ogni angolo della sala. Sbirciavano senza fermarsi alla ricerca di qualcosa di curioso e di nuovo. Seguivano le mani dei suoi sconosciuti compagni e ne controllavano i movimenti, le inconsapevoli espressioni dei loro volti; catturavano i tremolii delle labbra mentre ripetevano quella che, per lui, era soltanto una incomprensibile nenia.

Attirati dalla mia curiosità si fermarono e penetrarono nei miei così a fondo da lasciarmi in silenzioso imbarazzo: sembrava riuscissero a leggermi pure dietro l’accomodante e protettiva maschera che portavo già allora.

Il suo sguardo, affaticato ma intelligente, attendeva con trepidazione che la fatidica parola "Amen" – intonata all’unisono da tutti – rimbombasse nella stanza, per poter dire con tono dolce, acerbo e appena sussurrato il suo personale amen: "itadakimasu", umilmente ricevo.

In quel preciso momento, chiunque lo avesse osservato con più attenzione, avrebbe notato in lui un sussulto mentre sillabava quella parola prima di sedersi a mangiare: univa le mani in preghiera, all’altezza del cuore, poi chinava di nuovo il capo per alcuni secondi.

Quella prima volta, mentre una goccia di sudore gli ciondolava sulla punta del naso, strizzò con forza gli occhi e digrignò i denti, quasi sofferente, nel disperato tentativo di non tossire durante quel momento per lui molto importante e intimo. Alla fine riuscì nell’impresa, lo diede a vedere con un bellissimo sorriso di soddisfazione.

Eravamo vicini di letto e diventammo subito amici; come miracolosamente succede sempre e soltanto ai bambini, bastarono gesti semplici per riuscire a comprenderci al volo e cancellare le barriere di lingue sconosciute e culture lontanissime.

Ma quel bambino sempre troppo sudato, troppo bianco e con gli occhi circondati da un sinistro alone scuro, tossiva sempre, soprattutto di notte. Così tanto che dopo il quarto giorno lo spostarono in una stanza adiacente, con la doppia porta di vetro sempre chiusa, davanti alla quale gli altri bambini si raggruppavano ogni sera prima di andare a dormire: chi per salutarlo e dargli la buonanotte, chi per la curiosità di vedere quegli occhi sottili che venivano da lontano, e chi si ritrovava lì soltanto perché ci andavano tutti.

Mancavo solo io, così mi disse Alfonso ognuno dei sei giorni seguenti, quando la sera ritornava nel dormitorio e si sdraiava sul letto accanto al mio. Restava alcuni minuti in silenzio a osservare il soffitto: sembrava un artista in paziente attesa di ispirazione, con la vana speranza di poterla presto ritrovare, come fosse un vecchio calzino spaiato; poi, senza guardarmi, ripeteva che il nostro amico orientale, prima di sdraiarsi a dormire, restava a gambe incrociate seduto sopra quell’enorme letto a osservare tutti i suoi giovani compagni che, come spettatori in un circo, ricambiavano con la stessa meraviglia con cui si guarda un fenomeno da baraccone. Dopo avermi cercato tra quelle decine di occhi oltre la vetrata, chinava il capo e univa le sue piccole mani in una sorta di preghiera di ringraziamento dedicata a ognuno dei presenti.

La sua tosse però non si placava mai, ogni giorno sempre più forte, da non poter respirare e soffrire feroci attacchi di vomito; tutto rimbombava di continuo nel mio cervello nei momenti in cui restavo solo, al sicuro nel dormitorio deserto. Eppure eravamo a pochi passi; se soltanto avessi appoggiato l'orecchio alla parete avrei percepito il suo respiro affannato e i colpi di tosse. Andavo a guardarlo ogni notte di nascosto mentre dormiva, ma era un inutile e vigliacco tentativo di autoprotezione; la disperata fuga da una realtà che mi aveva sempre terrorizzato e stava ritornando a torturarmi: come avrei potuto sopportare di nuovo le feroci sofferenze che lascia dietro sé la perdita di qualcosa di caro?

Le notti successive sentii i suoi conati e i suoi pianti sommessi, mi sentivo impotente. Non potemmo vederlo più dal decimo giorno. In mensa, abbandonati confusamente sopra un piccolo banco appartato, restarono soltanto i suoi sottili bastoncini colorati.

Oramai il viavai di suore dalla sua stanza era pressoché continuo: con foulard e fazzoletti che coprivano bocca e naso, portavano avanti e indietro asciugamani, bacinelle d’acqua e sacchetti di ghiaccio finché, quella stessa notte, tutti riuscimmo a dormire un sonno pacifico. Niente più viavai di suole e suore, nessun bisbiglio preoccupato, nemmeno un colpo di tosse. Silenzio totale.

Poco prima di colazione fummo radunati tutti, ordinati in fila e mano nella mano; suore e maestre chiesero di aggiungere al ringraziamento quotidiano per il cibo anche una breve preghiera per Ji. E poiché la curiosità è uno dei pochi doni di gioventù che mi ha tenuto compagnia fino alla vecchiaia, chiesi con innocenza: «Chi è Gi?».

«Ji!… Ji!» urlò stizzita la madre superiora incendiandomi con lo sguardo.

Restai impietrito senza capire: capo chino, braccia tese e nervose dietro la schiena, immobile. A un tratto il tono della sua voce cambiò, e con una sofferenza quasi dolce sussurrò: «Ji. Il vostro nuovo compagno era giapponese e si chiamava Ji. Così era scritto sul foglietto che aveva addosso quando lo trovarono appena nato davanti a un istituto di Teplodar».

Purtroppo gli inverni freddi e le malattie si portavano sempre via qualcuno, di solito i più piccoli e deboli. Ogni volta ci lasciavano vuoti enormi nel cuore, ma anche l’arrendevole accettazione di quella che era divenuta una triste normalità. Fu così anche per quel bambino venuto da lontano che, con naturalezza, ebbe la capacità di farsi voler bene senza dire una parola, tranne quella, incantevole, alla fine della sua preghiera.

Alfonso aveva undici anni e il letto accanto al mio. All’altro lato del suo, per un po’, ci aveva dormito Ji.

Alfonso era obeso e sempre sudato. Dopo qualsiasi discussione diventava Cicciobomba per qualche minuto, anche se in realtà aveva sempre dimostrato di essere più paziente e intelligente di me, uno di quegli amici sui quali poter contare sempre, simpatici, buoni di cuore e di maniere.

Il suo tallone d’Achille era il cibo. Parlava sempre di cibo e di certo sempre ci pensava. Ne era così ossessionato da piangere ogni volta per poter mangiare di più e infine piangere dopo averlo fatto, gonfio di stomaco e ingozzato di sensi di colpa.

Durante la preghiera in onore di Ji, stava immobile al mio fianco, disinteressato del profumo di caffelatte caldo e biscotti che arrivava ad accarezzarci le narici. Era come se non gli importasse un accidente; forse era proprio così perché a volte, chissà, per superare un trauma è necessario subirne un altro. Sudava tantissimo eppure il suo corpo tremava come se stesse crepando di freddo, e mentre la madre superiora proseguiva la preghiera con un filo di voce rotta dall’emozione, la sua mano grassoccia e umida stringeva forte la mia fino a farmi male. Il suo sguardo basso sembrava perso e si sforzava di ricacciare dentro le lacrime; tratteneva il fiato come si farebbe sott’acqua: impossibile resistere troppo a lungo, perché prima o poi è necessario respirare.

Osservavo di soppiatto e cercavo di convincermi che non fosse nulla di nuovo, che tanto succede sempre così; focalizzavo lo sguardo su diversi punti, così da sembrare impassibile, anche a costo di apparire indifferente e anaffettivo. Eppure, in un attimo di distrazione, una lacrima prese il sopravvento sulla mia debole volontà, una sola: scivolò veloce a sfiorare le labbra per poi raggiungere il mento dove, dopo un brevissimo istante a ciondolare nel vuoto, si lasciò andare con un grido di doloroso silenzio, prima di infrangersi sulla punta della mia scarpetta.

È così, dopo aver trattenuto troppo a lungo il fiato, poter respirare è una liberazione.

Avete presente quando ti si aprono gli occhi? No, non dico appena ti svegli, certo che no. Intendo quando ti si aprono per davvero; quando finalmente quel cervello pieno di merda che ti ritrovi comincia a capire, a vedere l’amara verità.

Non conoscevo il significato di Ji, con sorpresa appresi soltanto molto tempo dopo che un significato vero e proprio non ce l’ha perché non è un nome, ma un suffisso: sono le due semplici ultime lettere integrate nel nome del secondo figlio. Di certo la sua famiglia aveva già un altro figlio e, per forza o per scelta, dovettero abbandonarlo. Probabilmente Ji non la meritava una famiglia, forse nemmeno un nome, chissà, ma questo non fu un problema per me, che ritenni un onore l’averlo conosciuto anche soltanto per poco tempo. Importante fu aver imparato, grazie a lui, l’importanza di saper dire "itadakimasu" e pensare sempre che, alla fine, “quello che è stato, ormai è stato.”