Oriana Turus, Carmela Loria, Massimiliano Agarico
Dopo quell’ultima volta in cui ho permesso a Mario di venirmi dentro tutto è crollato. E se già prima il sesso tra di noi non era eclatante, dopo quell’episodio si è completamente dissolto. La verità è che, dopo aver sperimentato cosa vuol dire davvero godere fino quasi allo svenimento, ho tagliato fuori Mario dalla mia sfera sessuale. Di fatto io non l’ho più cercato a letto e lui ha fatto lo stesso.
In testa ho solo Giulio dall’episodio nel confessionale. Sono passati anni eppure mi sembra ancora di sentirlo dentro di me, mentre preme il suo corpo dentro al mio e si prende le sue libertà.
Lui è stato la mia trasgressione di una vita, la mia speranza e il mio godimento. Anche ora mentre scrivo quattro righe di addio all’uomo insulso che ho avuto al mio fianco fino a oggi, non riesco a togliere le mani dalle mutandine.
Più penso al fatto che sto facendo le valigie per raggiungerlo, più mi vedo già avvinghiata al suo corpo. E il mio reagisce come tutte le volte in cui ho anche solamente spostato i pensieri su di lui, in tutti questi anni. Mi eccito, mi spoglio e assaporo la sensazione delle dita che entrano ed escono veloci, ingorde ed estasiate dal contatto. Immagino siano quelle di Giulio che salgono, scendono, premono e affondano sempre di più, e lancio un urlo liberatorio che mi stordisce ripagandomi di tutti questi anni rinchiusa, come in una prigione.
Mi accorgo troppo tardi che Mario è appena rientrato, faccio appena in tempo a sfilare la mano e a rialzarmi i pantaloni che mi ritrovo la sua faccia da culo davanti agli occhi.
«Che avevi da gridare? Ti hanno sentito in tutto il vicinato.»
«E a te cosa frega?»
«Si sono lamentati.»
«Fatti loro. Ho solo rovesciato l’acqua.»
Gli indico la piccola pozza formatasi sotto di me e mi alzo per andare a prendere qualcosa per asciugare. Sbando per l’instabilità datami dal potente orgasmo e ridacchio sotto i baffi per la situazione assurda in cui mi trovo.
«Hai bevuto di nuovo? Guardati non stai neanche in piedi!»
Alzo il dito medio in sua direzione e lo lascio a crogiolarsi nei suoi pensieri frustrati.
“Se avessi bevuto starei peggio di così, stronzo. Ho solo goduto. Tanto.”
Mi allontano da lui e dalle sue accuse e prendo la strada della camera. La valigia è sul letto, quella di un lungo viaggio, la afferro con la mano pulita mentre con l’altra mi appresto a regalare un ultimo barlume di dignità maschile a Mario.
Rientro piano nella sala ma l’eco delle ruote del trolley rimbalza in tutta la casa. Mi tocco un’altra volta lì, dove i miei umori hanno impregnato i vestiti. Non sono ancora sazia, non lo sarò finché non avrò raggiunto Giulio e il suo membro.
Avvicino la mano al viso di Mario, gli accarezzo prima una guancia, poi l’altra fino a raggiungere la sua bocca. Voglio che assapori il profumo del mio sesso, voglio che gli rimanga bene impresso quello che ha perso.
Lascio che l’umidità in mezzo alle gambe risalga, voglio che mi guardi fradicia ed eccitata per un uomo che non è lui. Lo lascio impalato a fissarmi perché anche se lo sto abbandonando, lui non ha il coraggio di fermarmi. Si gode quegli ultimi umori rimasti addosso e mi guarda uscire con già la mano nella patta. Forse ha la vaga speranza che gli funzioni di nuovo ma intanto non si è neppure accorto che la pozza a terra non era acqua.
«Anita, torniamo al giorno in cui sei arrivata qui. Ricordi come è andata?»
Una luce intensa e asettica mi restringe con dolore le pupille. Una sensazione strana, proverò a descriverla: un attimo prima mi dilatavo ed espandevo, padrona di uno spazio senza recinti dove mi muovevo e fruivo, senza tempo; un cosmo fatto di piccole grucce dove tenevo appesi i ricordi decidendo di volta in volta quale indossare.
L'attimo dopo mi sono ritrovata dentro un vortice simile all'ultimo mulinello di risucchio che fa l'acqua quando passa da una grande damigiana al collo stretto di una bottiglia.
Guardo la stanza, qualcosa mi risulta familiare, ma non saprei spiegare cosa. Sono seduta a un tavolo rettangolare bianco e lucido, freddo. La superficie sembra carta moschicida, si appiccica agli avambracci che tengo tesi per sostenere le mie mani chiuse a pugni uniti, fino a vedere le nocche diventare bianche e la pelle intorno di un rosa sbiadito solcato da vene di un verde brillante.
Indosso una vestaglia bianca; no, non è una vestaglia è... ho un camice.
«Dove sono?»
Riesco finalmente a distinguere il resto di quel contenitore assurdo e soffocante dall'invasiva luce lattigginosa che lo pervade; di fronte a me una parete di vetro apre la visuale su una sala attigua con la stessa luminosità: un altro tavolo più piccolo al centro, un mobile d'acciaio– forse uno schedario– e un paio di macchinari con elettrodi simili a quelli che mi attaccarono addosso durante le gravidanze per fare i tracciati; la stanza dov'ero sistemata io aveva un po' di colore in più, grazie a due tronchetti della felicità in un angolo a destra poco prima della porta d'ingresso in noce, finemente decorata lungo gli stipiti, con una maniglia barocca. Pensai a quale abbinamento bizzarro con il tavolo bianco al quale ero seduta, che ricordava tanto i mobili dell'Ikea. Ruoto la testa, alla mia sinistra inquadro un uomo alto, in piedi, con una gamba mollemente poggiata all'angolo del tavolo, le mani conserte all'altezza del ginocchio per tenersi in equilibrio, sporto verso di me in un atteggiamento amichevole; ha i capelli brizzolati e le sue spalle ampie tirano le cuciture del camice quasi a voler scoppiare.
«Dov'è la mia valigia? Devo andare da Giulio. È stato lui vero? È stato lui a portarmi qui? Mario? È stato lui! È stato lui, voglio andare via, ho una valigia. Ho una valigia, devo andare. Fatemi parlare con qualcuno e vi spiegherò come stanno le cose.»
L'uomo si sporge ancora di più verso di me, inizia a parlarmi con una voce impastata di condiscendenza e pazienza, uguale a quella di mamma quando si vedeva costretta a ripetermi per l'ennesima volta il solito bonario rimprovero: «Anita, sei qui da tre anni, io sono il dottor Marinetti e la tua valigia è ben riposta nell'armadietto della tua camera, puoi prenderla quando vuoi. Prima però aiutami ad aiutarti. Riesci a ricordare perché sei qui?»
Si avvicina a me, finalmente ho tutta la visuale chiara, ho recuperato tutta la capacità di mettere a fuoco, sento quasi le pupille tornare a una dimensione ragionevole.
Giulio! Era Giulio.
Mi guarda, il mio Giulio, lo desidero, stringo forte le sue mani, ma le sento strane, rinunciatarie.
«Giulio, andiamocene via.»
«Anita, per favore, prova a ricordare. Fai uno sforzo.»
Abbandono quei palmi mollicci che non ricambiano il mio desiderio, e il suo volto torna a farsi sfocato, come tutta la stanza; un girotondo di ricordi e facce che conosco mi fissano mentre si tengono per mano: Giulio, Gionatan, Adele, Giorgia, persino Mario...
Voci che mi urlano nelle orecchie e mi puntano addosso i loro indici: "Puttana", accusano, "sei pazza e meriti di crepare, assassina!"
Un tonfo assordante. Unʼesplosione, mille schegge di vetro si espandono nell'aria fino a trafiggere membra delle quali conoscevo il profumo ma che avevo dimenticato; l'alcol che conteneva si perde nell'aria in tante gocce che si tingono di rosso. Il tintinnio si attenua e lascia di nuovo spazio al silenzio.
«Mario!»
«Mario cosa? Ricordi cos'è successo?»
«Mario. È morto!»
Giulio non è più lui, al suo posto uno sconosciuto in camice bianco che si fa sorpreso e cerca le mie mani: «Sì! Bravissima!»
«Non l’ho fatto apposta. È stato un caso. Il bicchiere mi è scivolato di mano...»
«Il bicchiere era una bottiglia piena caduta dal terzo piano.»
I ricordi tornano a volare intorno come foglie morte, i girotondi mentali si trasformano in vortici che mi tolgono il respiro.
«Gionatan! E Adele? Dove sono? Stanno bene? Mario era un violento, ditemi dove sono i miei figli!». Mi agito, cerco di liberarmi dalla vestaglia che mi opprime, Giulio mi trattiene: «Anita, per favore, calmati! Guarda i lividi che hai addosso e i tagli sulle braccia. Li vedi? Hai tentato il suicidio due volte!»
«È stato Mario! È stato Mario! È stato Mario!»
Giulio mi guarda sconsolato e si lascia abbracciare; il suo volto torna a offuscarsi, non voglio più che mi lasci e sprofondo il mio pianto nel suo petto.
«Non ti preoccupare, Anita, non ti lascio.»
È la sua voce, inconfondibile, e mi sento tranquilla adesso perché, mentre camminiamo stretti lungo un infinito corridoio, le luci delle plafoniere accendono i loro sorrisi davanti al percorso e scaraventano le ombre alle nostre spalle.
«Giulio mio, Giulio mio, perché mi hai abbandonata?»
«Nessuno ti ha abbandonata Anita. Né io né quel Dio che ha lasciato Gesù sulla croce, perdonala Padre perché non sa quello che dice.»
Le sue mani giunte e alzate verso il cielo mi colpiscono l’anima frastagliata, o quello che ne rimane. Mi sta togliendo i peccati. Sta benedicendo quella stessa donna che troppi anni prima ha abbandonato a se stessa e a una vita infelice. Mi ha usata e umiliata e ora che siamo vicini allo stare insieme per sempre, mi sta buttando via, come un fazzoletto usato.
«Non ho bisogno di redimermi e non mi serve la tua benedizione. Ho bisogno che con quelle mani sfiori me anziché il cielo, ho bisogno che veneri me e non un uomo invisibile che vive e parla attraverso te. Venerami, amami, toccami e attraversami. Con le mani, con la mente, ma soprattutto con il corpo.»
«Ho chiesto che ti venga aumentato il dosaggio di psicofarmaci. Vaneggi. Davvero tu non sai quello che dici.»
«No, così è troppo facile. Toglierti dalle responsabilità dando la colpa a una mia malattia. Non sei poi troppo diverso da Mario. Ma lui, lo sai che fine ha fatto? Eh, lo sai? Lo hai capito?»
Mi scaglio contro di lui, lo riempio di pugni e rabbia fino allo sfinimento. Non fa una piega. Se ne sta immobile di fronte a me a prendersi le botte finché io non mollo la presa dal suo collo. Oh sì, che piacevole sensazione stringerlo forte.
Quante volte sono stata tentata di fare la stessa cosa con Mario e invece ho dovuto approfittare di una bottiglia piena e della sua passeggiata serale.
Non chiedevo molto dalla vita, solo un po’ di meritata felicità.
Sento le guance in fiamme, bagnate da lacrime di rabbia e rassegnazione, le gambe cedono sotto il peso di questa merda di vita che mi porto appresso. Mi sento afferrare per le braccia ma per qualche oscuro motivo non riesco a oppormi. Mi lascio prendere e legare, sento tante mani che mi sfiorano ovunque, resto nuda e vulnerabile di fronte a quelle figure tra cui riconosco solo delle ombre sbiadite.
Sento delle voci ovattate intorno a me, sono i fantasmi della mia mente venuti a far pace con la mia coscienza sporca.
Tremo. Sento i brividi oltrepassare tutto il mio corpo. Urlo, mi agito, stringo con forza il lenzuolo e la rabbia tra le dita.
Sono venuti a prendermi.
«Procedete con il tiotixene.»
Silenzio. Buio.