Il fratello di Eva Onnigrafo Magazine

Il fratello di Eva

Aveva sentito un rumore come di assi che si piegavano, era un rumore diverso dal solito passaggio dei topi nella soffitta, era un rumore lungo e soffocato, come di passi lenti e fintamente leggeri. Le assi avevano continuato a scricchiolare per ore quella notte, tanto che Eva si era girata e rigirata nel suo letto senza riuscire a dormire più di tanto. Appena la prima luce dell’alba era spuntata aveva infilato la vestaglia ed era andata a bussare alla stanza dei suoi genitori. Il padre era già in piedi con la cinghia in mano che si stava vestendo. Eva contemplò per qualche istante quella figura con la barba da fare e abbassò lo sguardo: «scusate ma ho sentito rumori dalla soffitta stanotte…». La madre stava ancora nascosta sotto le coperte, spuntava fuori solo la fronte e uno sguardo spento: «abbiamo sentito, tuo padre sta andando a controllare». La scala retrattile per la soffitta faceva un rumore assordante, e dal buco della botola cadeva polvere sulla moquette sottostante. Il padre salì rapido le scale della soffitta tenendo con una mano un tubo di acciaio zincato, lo batteva lungo la struttura di ferro della scala e produceva un rumore acuto e vibrante, come ad annunciare il suo arrivo, quei dannati topi dovevano conoscerlo bene quel suono. Dopo pochi minuti la scala venne ritirata su con un colpo deciso. Dal piano di sotto Eva sentiva solo il suono di quel tubo che tintinnava da lontano.

All’ora di pranzo quell’uomo non era ancora sceso dalla soffitta. Eva aveva apparecchiato il tavolo e tagliato il pane mentre sua madre continuava a rigirare nervosamente il contenuto della pentola sul fuoco. «mamma vado a chiamare papà…» lo aveva ripetuto più volte la ragazzina, senza ricevere nessuna risposta, poi all’ultimo lo aveva detto usando un tono più deciso, e questo aveva fatto trasalire sua madre. «No ferma! Vado io di sopra è troppo sporco. Tu resta qui… resta qui e bada alla pentola».

La pentola bolliva e borbottava facendo roteare i pezzi delle verdure al suo interno. Eva aveva sentito il rumore della scala che scendeva giù dallo sportello sul soffitto, aveva percepito il rumore del peso di sua madre su quelle scalette e dopo pochissimi minuti di nuovo lo strappo rapido della scala che tornava al suo posto.

La pentola ormai aveva al suo interno un ammasso denso e grumoso di tocchi di verdura, l’acqua era quasi tutta evaporata, ed Eva cominciava ad essere stufa di quella strana attesa. Aveva messo il cibo nei piatti quando si decise a salire anche lei. Non era mai stata in soffitta, i suoi genitori dicevano che era un posto pericoloso perché pieno di roba vecchia ed inutile, ed era quindi anche sporco, perché non ci andava mai nessuno. Il rumore della scala che scendeva per mano sua le fece passare i brividi. Le scale le fece lentamente, un gradino, un sospiro, quando a metà scala i sospiri si fecero meno profondi e poi la portarono a trattenere un conato di vomito premendosi una mano sulla bocca. Arrivata in cima il fetore si fece sempre più forte, sulle assi di legno la presenza dei topi non era chiara, ma era chiara la presenza di qualcos’altro: escrementi ovunque, sul pavimento, in secchi lerci, stracci sporchi, ciotole con dentro avanzi di non si sa cosa. Eva era inorridita, inorridita e schifata, ma ancora non aveva ben chiara la situazione.

Dietro una cassa spuntava una scia rossa sul pavimento. Era sangue. Eva si premeva il lembo del vestito che sapeva di bucato sul viso e avanzava come ipnotizzata. Il sangue diventava sempre di più, come se… come se qualcuno fosse stato ferito e poi trascinato. Fino al punto in cui trovò una enorme chiazza di sangue ancora caldo che colava direttamente fuori dall’addome sventrato di suo padre: appeso per le gambe ad una trave, con tutto l’intestino che penzolava fuori, proprio come si fa quando si macella una pecora.

Poco distante sua madre la guardava vitrea dal pavimento in una posa strana di arti accartocciati. Dietro di lei spuntarono due gambe magre ma robuste, senza scarpe ai piedi, senza abiti indosso lasciavano alla vista della ragazzina un corpo imbrattato di ogni rifiuto umano e sangue. Eva guardò le sue mani, e il primo pensiero che le balenò in testa fu che sembravano identiche alle mani di sue padre, identiche alle mani di quell’uomo che spesso la prendeva e ne faceva ciò che voleva. E anche quelle mani la presero, mentre le stringevano forte il collo Eva continuava a pensare a quanto fossero simili a quelle del padre, come anche i suoi occhi… poi il ragazzo strinse più forte fino a sentire il suo collo spezzarsi, guardò attento lo sguardo della sorella che si spegneva ignorando cosa fosse accaduto. E disse con un rantolo: «Ho fame».