FILO ROSSO Confessione di un omicidio Onnigrafo Magazine

FILO ROSSO Confessione di un omicidio

Tony Toruk partì di prima mattina.

Uno scienziato come lui non poteva di certo lasciare che rimanesse senza una regola ciò che regola il mondo. Uno studioso come lui non poteva di certo lasciar correre l’opportunità di sapere l’ancora insaputo.

Un ricercatore come lui non poteva di certo lasciare una via di smarrimento senza trovarne il punto di ritorno.

Povero Sonny Shaked! Di cognome e di fatto.

Tony lo aveva avvertito: non ci si tuffa nel mare in burrasca senza conoscere le correnti.

“Io non lo farò mai! Mi lascerò andare solo quando sarò certo di sapere dove sto andando. Ma ti aiuterò, amico mio. Non ti lascerò annegare, Sonny. Tornerò con una risposta”.

Così erano andate le cose.

Percorreva il Sentiero Fuoriconfine ormai da sette ore, quando qualcosa, o qualcuno, ruppe la sua tranquillità di viaggiatore solitario. Era da un po’ che si sentiva spiato, seguito, invaso. 

Come in molte altre storie di formazione, penso alle più famose, anche qui non poteva mancare un Grillo Parlante, un Mushu, una guida di turno che accompagnasse, in saggezza o ottusità, comunque sia in riflessione, il nostro protagonista nella sua avventura.

Penta era questo: l’occhio, la coscienza collettiva, il daimon; non era perciò diverso dall’assistente di Pinocchio o di Mulan, a parte per un piccolo particolare: era femmina.

Non ci soffermeremo ora sul suo aspetto fisico, perché non è importante in questo momento.

Ci soffermiamo invece brevemente sul significato del suo nome: Cinque. Cabala? Numerologia? Può anche darsi, perché un nome non viene in mente a caso allo scrittore di una storia, soprattutto se sognata, come questa. Io penso che il nome Penta stia a significare qualcosa di molto concreto: i famosi cinque secondi che ciascuno dovrebbe prendersi prima di agire o parlare; ma anche i cinque secondi in più per tendere la corda ancora, prima di mollare. Penta: una manciata di secondi per raggiungere l’equilibrio, per centrarsi, per migliorare.

I due viandanti marciavano a passo pesante e un po’ marziale: per darsi il ritmo, per entrare in una sorta di trance che estranea dalle sensazioni fisiche e quindi dal percepire la fatica, per spaventare i serpenti-tentazione di abbandonare il cammino, per allontanare i predatori-pensieri ladri di uno stato momentaneo di consapevolezza.

Il viaggio durò parecchie settimane, per essere più precisi circa duecentosessantuno. Che poi equivalgono a sessanta mesi. A milleottocentoventicinque giorni. A cinque anni.

Girarono il mondo, e tornarono con gli abiti logori, con qualche ruga in più, con i peli, terminali o del vello, incolti e, soprattutto, con sette taccuini pieni di sapere.

L’intenzione di Toruk era chiara: dare i suoi manoscritti a Sonny in modo che potesse prendersi tutto il tempo necessario per leggerlo e riflettere; un tempo decisamente lungo dato che aveva scritto tutto, ma proprio tutto, quello che riusciva; e quando non trovava le parole passava ai disegni; e quando anche i disegni non bastavano c’erano i simboli; e poi i colori; e infine petali, foglie, fiori.

Come scriveresti di un sorriso? O di un profumo? Nel nostro caso l’oggetto della ricerca era ancora più vasto: l’Amore. Quell’Amore che aveva shakerato a Sonny il cuore, la vita e l’anima. E non solo a lui.

Tony Toruk sarebbe andato dall’amico con i suoi manoscritti sottobraccio, dopo.

Prima doveva fare qualcosa di più importante. Ma di questo prima parleremo dopo.

Occupiamoci ora della lettura dei taccuini di Toruk, o meglio, di estrapolarne qualcosa, dato che, quando si tratta di un viaggio, non tutto è realmente leggibile perché non vissuto personalmente; è stato vissuto da chi lo ha scritto in prima persona, poi trascritto da me come seconda persona e quindi letto da te come terza persona.

Un po’ come nella vita, che è IL viaggio, ci sono differenti modi di viaggiare e non sono comprensibili dai controllori, né dai compagni di carrozza.

In realtà c’è una coscienza collettiva, un Taccuino comune, e questo Penta lo sa molto bene, perché ne è rappresentante. Leggiamo il nostro taccuino, il taccuino del nostro vicino, poi quello del vicino del vicino e così via, e potremo forse arrivarci. Ma questa è un’altra storia, e non è il suo momento.

Riporto ora testuali parole dal taccuino di Toruk. Ho scelto solo alcuni passaggi. 

Non crucciarti per ciò che non comprenderai. Non crucciarti per ciò che comprenderai. Semplicemente leggi:

HO GIRATO IL MONDO. L’HO FATTO APPOSITAMENTE PER REDIGERE QUESTE MIE PAGINE.

HO INCONTRATO GENTI DI OGNI ETNIA, D’OGNI GENERE E DI OGNI ETÀ. HO DOMANDATO LORO COSA FOSSE L’AMORE. ALCUNI HANNO RISPOSTO, ALTRI NO, MA VA BENE COSÌ, E MI SONO FERMATO AD OSSERVARLI ,E, OVE POSSIBILE, A OSSERVARE LE LORO VITE. TRA COLORO CHE HANNO RISPOSTO ALCUNI LO HANNO FATTO SPUTANDO SENTENZE TRITE E CONTRITE, ALTRI PARLANDO DEL LORO PUNTO DI VISTA E DEL LORO VISSUTO, ALTRI ANCORA NARRANDOMI DI VICENDE ALTRUI, VERITIERE O LEGGENDARIE, NOTE O SCONOSCIUTE.

ECCO QUANTO HO RACCOLTO PER TE, SONNY, AMICO MIO; E PER ME, PER POTERMI TUFFARE CONSAPEVOLE IN QUESTO MARE; E PER VOI TUTTI CHE FORSE UN GIORNO LEGGERETE. E PER ARRICCHIRE LA COSCIENZA COLLETTIVA.

CON AMORE, TORUK.


Il vecchio Nahichi amava molto sua moglie; l’amava perché era bellissima, e ogni cosa, per il confronto, sfioriva al suo passaggio. Un giorno pure lei sfiorì: non resse il confronto tra il di fuori e il di dentro. Si sentiva amata dal marito per la sua bellezza esteriore, che pur era espressione della sua bellezza interiore, ma questa non era da lui vista; cosicché smise di coltivarla e con essa scomparve ogni sua beltà. Alcuni dicono sia per l’età che ciò accade, ma non è così: se non si coltiva l’interno, marcisce l’esterno. Ci sono donne anziane di indicibile bellezza, e molte ne incontrai. Il vecchio Nahichi non è che non amasse sua moglie dentro, ma si fermava allo strato più accessibile, più visibile, mostrando interesse principalmente per quello; lo faceva per non invadere il suo spazio interiore, che sapeva essere meraviglioso, per non intaccarlo. Ma questo sua moglie non lo sapeva. Si sentiva viva solo in parte, un trofeo da sbandierare. Ma questo al marito mai lo disse. Sfiorita ogni sua bellezza, anche il loro amore risultò sfiorito, poiché anche il vecchio Nahichi smise di prendersi in cura e di prendere in cura. In questa storia è facile dare ogni responsabilità all’uomo, ma ne ha molte anche la donna, che non ha saputo vedere, accorgersi; e quando ha deciso di non guardare più al suo Essere, ha deciso di non amare e quindi di non vivere più.

AMARE È VEDERE. AMARE È ACCORGERSI. AMARE È COMUNICARE. AMARE È COLTIVARE.


Sempre parlando di bellezza: Norma era stufa del suo orrendo compagno. Aveva deciso di convivere con lui perché era sola, perché mentre stava passando un momento difficile della sua vita lui era stato tanto gentile con lei, e quindi per la prima volta si era sentita amata e, di conseguenza, innamorata, per non sentirsi da meno e nemmeno in debito. Come si suol dire, l’amore rende ciechi, e Norma non aveva visto bene George; poi, col tempo, si era accorta di chi fosse realmente. In seguito si seppe che in verità non si accorse di nulla, lei, ma che fu la sua dipendenza dall’alcool a donarle una visione annebbiata. La donna iniziò, goccio dopo goccio, a trattare il suo compagno con durezza e freddezza; quando lui perse il lavoro, prese ad incalzarlo incessantemente con gli aggettivi più tristi e meschini di sempre; così, il pover’uomo, a furia di sentirsi chiamare in quei modi, incominciò davvero a sentirsi così, e lo divenne: brutto, inetto, goffo, insignificante. E più lui lo era davvero più lei si incattiviva, fino a diventare violenta. Più lei non lo rispettava e più lui non rispettava sé stesso; e chi non rispetta sé stesso, si sa, non riesce nemmeno a rispettare gli altri. E quell’amore irrispettoso divenne un rispettoso non-amore; rispettoso perché rispettava il fatto di non essere amore.

AMARE È VEDERE. AMARE È ACCORGERSI. AMARE È COMUNICARE. AMARE È COLTIVARE. AMARE È GENTILEZZA. AMARE È RISPETTO.


Secondo il popolo dei Dordaalȉn, un uomo e una donna eterei risiedono sulle due cime più alte dei Monti Apurijani . Le due vette si trovano una di fronte all’altra, ritte e minacciose, come avversari tesi prima di un duello. Si narra che molti secoli prima fossero un uomo e una donna in carne e ossa, che vivessero in uno stesso piccolo villaggio di pescatori e che si amassero alla follia. Poi accadde. Lui, gelosissimo del suo sorriso e della sua leggiadria, le mise una catena al collo. Così, come se fosse un oggetto di sua proprietà; solo lui poteva decidere fin dove potesse spingersi; il problema era che lui, invece, di catene al collo non ne aveva, e nemmeno se ne sentiva. Ci sono catene visibili e invisibili. La parola ‘legame’ non si usa a caso: lei si sentiva legata fortemente a lui, con il filo dell’amore, e ovunque andasse, fin dovunque si spingesse, sarebbe sempre tornata a cercarlo; non avrebbe avuto bisogno di catene. Lui, invece, quel filo non riusciva a vederlo e nemmeno lo sentiva. Aveva bisogno di porre vere catene quell’uomo, incatenato com’era al suo ego, attorcigliato su se stesso dalla sua stessa insicurezza (sicurezza si raggiunge solo con l’Essere, ch’è l’intero, non con l’ego, ch’è manchevole). Lei perse il sorriso, per lui e per sé; lui perse definitivamente il controllo. Così, quando morirono entrambi per un delitto-suicidio dettato dalla gelosia, furono trasformati nei guardiani dei due monti Apurijani, che rappresentano per il popolo dei Dordaalȉn il maschile e il femminile. Le due entità ora tengono sotteso e sospeso un sottile filo rosso tra le due vette; ne tengono in mano ciascuno un’estremità. Il filo è molto corto, perciò i due esseri eterei si trovano proprio sull’orlo del precipizio; dicono che quel filo sia l’anima stessa delle due montagne, e che quelle due montagne siano i pilastri del mondo. Basta il minimo impeto di forza e quel filo si spezza; basta un’oscillazione, una mancanza di attenzione, una piccola falla nell’equilibrio e quel filo precipita giù, portando con sé, nell’orrido di quell’orrido, logos lunare e logos solare, nonché l’Amore, che è la Vita stessa.     

Questo fu il loro compito e la loro punizione, dopo aver ucciso, in vita, l’amore. Far vivere, nell’amore, la vita. Ossia, semplicemente, vivere. 

DICONO CHE CI SIA UN FILO INVISIBILE CHE CI LEGHI TUTTI QUANTI, COSÌ, COME LA RETE DEL MICELIO SOTTERRANEO CHE COLLEGA TRA LORO LE PIANTE.

CREDO DI SAPERE, A QUESTO PUNTO COSA SIA QUEL FILO. E ANCHE IL SUO COLORE.

AMARE È VEDERE. AMARE È ACCORGERSI. AMARE È COMUNICARE. AMARE È COLTIVARE. AMARE È GENTILEZZA. AMARE È RISPETTO. AMARE È VITA.


Non so cosa abbiate o meno compreso da questa prima parte del taccuino di Toruk. Ma posso dirvi cosa ha compreso Sonny da tutto ciò. Anzi, posso fare di più: posso riportarvi le sue testuali parole, poiché le scrisse su una lettera che mai spedì:

“Queste mie stesse mani, che accarezzano e che abbracciano, sono le stesse che ti hanno ferita e allontanata. Così come le tue hanno fatto con me. Con le stesse mani si può amare e si può colpire. Ho violato il filo rosso. Non vi ho riposto abbastanza della mia attenzione e della mia cura. Non ho saputo contare fino a cinque. Ho ucciso; sì, io ho ucciso l’amore. Lo confesso. Era appena nato. Era nelle mie mani. Ma il filo rosso c’è ancora, è sfilacciato, vero, ma si può riparare. Non è mai troppo tardi, quando si impara a Vivere, ovvero ad Amare”.

E partì.

Di prima mattina.

La lettera non fu mai spedita ma consegnata a mano al destinatario.

Ora è il momento di parlare di quel prima rimandato:

Prima di dare a Sonny Shaked i suoi scritti, Tony Toruk aveva qualcosa di più importante da fare. Aveva deciso di tuffarsi, ora che sapeva. Ci sono diversi tipi di amore. Lui aveva scelto l’Amore per l’Amore. La Vita per la Vita. Aveva scelto di dedicare a ciò tutto sé stesso.

Tutto per l’Amore.

Aveva imparato a contare fino a cinque, prima e dopo. E aveva contato fino a cinque anche quando l’aveva salutata. Penta. Il suo Grande Amore. 

L’Amore per il tutto.